MARCO ANDREIS, LIRICO PASSIONALE (ANCHE) POETA

Conosco Marco Andreis da molti anni e, non appena mi è giunta la notizia dell’uscita della sua raccolta di poesie, non avevo dubbi sul risultato. Sarà sicuramente un libro edonistico mi son detto, non solo da leggere, ma anche da sfogliare e godere poco alla volta, come una boccata di pipa (che piace a lui), o un sorso di whisky (che piace a me). E non sbagliavo.

Conosco Andreis da anni, dicevo, artista e amante dell’arte, in grado di passare dal pennello alla matita, dalla tela alla carta, dipingere nudi come disegnare ex-libris; Andreis viveur e amante della vita – come il sottoscritto del resto – attento più a godere che a patire (non potevo che aspettarmi poesie appaganti, chiaro). Un Andreis avido di cultura e del bello in genere (non appariranno allora strani i suoi studi di interior e design all’Accademia di Belle Arti di Santa Giulia): si pensi, per fare solo un esempio, alla subitanea lettura del libro di Mario Praz, Studi sul concettismo (Abscondita), derivata da un mio consiglio, un libro evidentemente non per tutti. Ma probabilmente Andreis non lo conoscevo ancora bene, perché un libro di poesie proprio non me lo aspettavo.

Nel vento
Appesa
Per un filo
Balla.
Incantato la
Osservo
Sensuale e leggiadra.
Tutto tace
Tutto è fermo
Se non lei,
Come il cigno
D'un tratto
Si stancherà
Del tempo.

(da Foglia, p. 17)

Il libro, Poesie. Raccolta di Versi alla Natura, all’Amore e agl’Intimi Pensieri (Marco Serra Tarantola Editore, Brescia) è diviso in tre parti, casualmente o no proprio come le Cantiche della Divina Commedia (il richiamo a Dante è quasi d’obbligo, dato che per l’occasione del settimo centenario della morte se ne parla in ogni quotidiano o rivista, e libri escono a profusione).

La prima parte è dedicata Alla Natura (così titola appunto) dove si toccano temi che passano dall’universale al particolare, indifferentemente, ma in ambo i casi è l’armonia che domina, un’armonia cosmica, divina, a cui tutto sottostà o comunque dovrebbe sottostare. Richiami al “Cielo e Terra”, al tempo, alle nubi o vento, dialogano con animali (piccioni, gatti) o alberi. Tutto il mondo naturale, purché abbia una grazia insita, è lodevole di ammirazione. Come la foglia, che dà il titolo alla composizione che ho sopra citata, comunemente anonima e trascurata qui diventa “sensuale e leggiadra”, e quindi degna di un’attenta e intensa “osservazione”.

Si ha l’impressione che la natura sia un pretesto, o meglio uno specchio su cui riflettere il proprio animo. Un animo buono (si capisce), semplice (non banale) e soprattutto lirico; animo che ama il bello e ama la vita (chi ama vivere vede il bello ovunque d’altronde).
Artista qual è, Andreis non poteva che richiamare la Nascita di Venere (“Su pellegrina conchiglia/ Clori sospira e Zefiro soffia./ Con gran meraviglia/ Primavera è arrivata”) ispirandosi a Botticelli, che a sua volta si ispirò alla poesia di Poliziano (vedi Warburg), e così chiudendo il cerchio dei richiami tra arti, differenti epperò uguali.

Marco Andreis, illustrazione, p. 56

La parte dedicata alla sua signora (All’Amore) è languida e struggente (io sono meno avvezzo ai sentimentalismi, quindi resisto), ma esprime un amore vero e senza fronzoli, un rapporto sincero e credibile. “M’infrango/ Su scogli/ D’eterno/ Amore”: solo una persona veramente innamorata scrive così.
Echeggiano inoltre, e sfilano come una filigrana atmosfere melanconiche (Alba, Pioggia) e ricordi indelebili (8 dicembre); talvolta Andreis diventa pure carnale (“Sfioro, accarezzo/ Le tue labbra/ Sature di dolore”) ma restando sempre delicato. Addirittura, di fronte alla realtà di sua moglie anche il sogno soccombe e perisce (“Mi sveglio e sei tu/ Il mio viaggio/ Il mio mondo”).

L’ultima serie di poesie (Agl’intimi pensieri) è quella che preferisco. Non tanto perché è quella in cui Andreis più si scopre (ci mancherebbe, sono un recensore, non un pettegolo), ma in quanto è quella che raggiunge la maggior profondità di pensiero e, almeno a mio parere, il più alto grado poetico. Ritorna il tema della natura, delle stagioni come specchio per riflettere se stesso; ma qui il tutto si sublima, si astrae in concetti, pensieri (appunto), divenendo spiritualità pura.

E così questo è un libro da leggere, appollaiati in poltrona (whisky sul tavolo e pipa in bocca, ovvio), una poesia ogni tanto, senza sforzo, edonisticamente. Lo si apre e lo si chiude poco dopo (sono infatti i folli e gli studenti più infelici che faticano per leggere poesie soffermandosi ore intere), lo si contempla. E come il poeta poi sospirare: “Or dunque non mi resta/ Che chiuder gli occhi e rimembrare/ Quanto caro m’è l’Eterno”.

Lucien de Rubempré

LIBIDINOSO NETTARE EDERICO

È un mosaico policromo meraviglioso, un caleidoscopio di colori, una sequenza incantevole di vasetti cubici smussati, il negozio di Mieli Thun. L’azienda agricola trentina, esattamente in Val di Non, è forse la più nota in Italia, sia per la straordinaria varietà di alimenti prodotti dalle api, sia per l’alta qualità e l’estrema ricercatezza di questi. Quintessenze, mieli, pollini, e addirittura aceti, da fiori di piante come cardo, coriandolo, lavanda, limone, marruca, melo, solo per citarne alcuni brevemente.

Fiori di edera – Unaapi.it

Tra i tanti – nati dal genio di Andrea Paternoster, evidentemente più di un semplice apicoltore – quello che preferisco e più mi attrae è il miele di edera, buono quanto raro. La pianta di edera cresce in zone ombrose, arrampicandosi su muri o piante; solo pochi rami sono esposti alla luce diventando fertili e dunque producendo fiori. Di qui la difficoltà e la scomodità di realizzare un miele così. Tutto questo avviene in settembre-ottobre: molto bene, perché mi permette di godere al meglio i pranzi e cenoni natalizi (sfido a trovare mieli di edera decenti nei restanti mesi dell’anno).

Quello dell’azienda nonesa è un nettare di una cremosità sensuale, avvolgente, libidinosa (si sprecano studiosi di tutto il mondo, e fiumi di inchiostro scorrono nel tentativo di rendere chiaro il concetto di libido freudiana, quando basterebbe consigliare un miele Thun). Il profumo è intenso, delicatamente erbaceo eppure rudemente balsamico; sentori che ricordano liquirizia e muffe nobili come botrite (non vorrei esser fissato, bevo spätlese e auslese renani). Il sito ufficiale consiglia il consumo “a fine cottura su una minestra di verdure” oppure in abbinamento a formaggi erborinati. Io no. Consiglio – dopo averne esalato l’essenza, chiaro – di ingollarlo col cucchiaino. Sarà dolcissimo, quasi stucchevole direi, essendo il miele più ricco di glucosio; ma l’esperienza indimenticabile e assuefacente. Smentitemi.

Lucien Chardon

KIM DUPOND HOLDT: LA FOTOGRAFIA COME RI-DEFINIZIONE DEL MONDO

(Dalla postfazione del catalogo Kim Dupond Hold : art photographer, Vol. 1, a cura di Damiano Perini, uscito nell’estate del 2020)

Sulla persona di Kim Dupond Holdt, umanamente intesa, non ci sono dubbi. Una vita stabile e regolare, una strada intrapresa sin dalla giovinezza e portata avanti senza esitazione. Un uomo deciso poco più che cinquantenne, sposato, due figli, una bella casa di gusto ricercato in uno dei luoghi più affascinanti del Parco Alto Garda bresciano. Un orafo e designer arrivato sul finire degli anni Ottanta in Italia dalla Danimarca, suo paese natio e di formazione, per aprire un laboratorio personale e tutt’oggi operativo. E nulla, nella vita di KDH, lascia pensare anche un minimo a uno stile di comportamento, come si dice, bohémien; nessuna di quelle stravaganze, eccessi e sregolatezze, che leggenda vuole – poi chissà perché – caratterizzino l’uomo di genio. E il genio, quella facoltà inintelligibile che presuppone ispirazione e creatività, non manca certo a Dupond Holdt.

Una premessa necessaria, mi pare, perché se la vita di KDH non lascia scampo a inutili vaneggiamenti o speculazioni contorte che costituiscono certa critica, ancora più netta e concreta è la sua figura di artista: Kim Dupond Holdt è un fotografo preciso e meticoloso che non sopporta, forse per un’innata idiosincrasia, il disordine del mondo, naturale o artificiale che sia; guarda gli elementi che lo abitano, li scruta, li analizza nelle loro conformazioni e nel loro rapporto con lo spazio. E grazie al mezzo fotografico riporta – sotto forma di linee e superfici, solidi e volumi geometrici, corpi plastici di luce e ombra – il caos all’ordine, l’instabile e il provvisorio a una dimensione di granitica staticità.

Da dove viene il suo sentire artistico e come sviluppa poi il suo modo di procedere? Determinante, a mio modo di vedere, è l’intensa formazione come orafo che ha avuto durante la giovinezza e quindi l’acribia e la passione con cui per anni si è preso cura di metalli e pietre preziose. In altre parole: il lavoro che con pazienza e precisione ha portato e porta KDH a ricavare dalla struttura grezza e confusa di oro, argento, smeraldi, zaffiri e altri splendidi materiali, forme perfette di rara eleganza per la produzione di pezzi unici di gioielleria, è lo stesso che lo porta a ri-definire in modo ordinato e corretto il mondo circostante, con una sorta di ri-descrizione e ri-organizzazione attraverso la tecnica fotografica.

L’occhio dell’artista, quindi, in KDH coincide con quello dell’orafo. Anzi, essi si possono addirittura integrare l’uno con l’altro. Due esempi: la fotografia può arricchirsi di quelle sottigliezze tipiche dell’oreficeria, come i piccoli raggi decorativi  usati da riempimento di un medaglione, che appaiono in forme slanciate e verticali in forma di pilastri in The house on the poles nr 2; e, viceversa, i gioielli che nascono dal suo laboratorio possono assumere le solide consistenze di certi soggetti relativi all’architettura, più volte fotografati. Del resto, questo intreccio interdisciplinare non è nuovo nella storia dell’arte, se già Vasari nelle sue Vite (nell’edizione Torrentiniana prima e Giuntina poi, 1550 e 1568) attribuiva la straordinaria abilità di disegno di Sandro Botticelli, tra i più grandi maestri del Rinascimento fiorentino e quindi di sempre, alla formazione avuta nella bottega di un orefice. Le immagini di KDH non hanno un referente particolare o ricercato. I soggetti da cui parte per i suoi lavori sono presi quasi di istinto, durante viaggi, gite, o anche semplici trasferimenti in automobile o passeggiando liberamente; non tanto se li va a cercare, ma, come dire, sono essi stessi a farsi trovare. È lo sguardo attento di Kim Dupond Holdt evidentemente che poi diventa decisivo, lo sguardo del fotografo che vede, seleziona e scatta. In questi termini qualsiasi cosa, o parte di essa, può diventare soggetto e assumere una valenza estetica. Ritroviamo nella sua opera, infatti, finestre, pareti, parti di edifici anche fortemente scorciate; drappi, paracaduti, blocchi di pietra, teoria di pilastri, sezioni tubolari, materiali plastici, per fare alcuni esempi. Questi elementi si mostrano inoltre in modo fortemente ritagliato, come se l’artista volesse far valere con veemenza la propria autorialità. Mai un’architettura è ripresa nella sua interezza, e mai elemento si conclude entro i bordi del quadro, continuando idealmente oltre la cornice e alludendo quindi a un prosieguo infinito. I dettagli inquadrati sono dilatati, ma restano nitidi, asciutti, perfettamente a fuoco, e ciò che ne resta sono da una parte spiccate linee, siano esse dolcemente sinuose o gravemente spezzate, e dall’altra agglomerati di colore vivo, levigati da vibranti contrasti di luce. Dal micro-mondo del particolare, grazie alla fotografia, si generano macro-mondi di immobili geometrie, in cui lo spazio è indefinibile e il tempo pare sospeso. […]

L’INCORONAZIONE DEL BERTANZA COME MONUMENTO ALL’ANTICA PIEVE DI TIGNALE

Vorticosa e dirompente, la solenne opera del pittore padenghino, ci fa (quasi) dimenticare lo sconvolgimento architettonico del 1953-54 della parrocchiale di Gardola, ricordandoci un ricco passato.

È la sensazione di parecchi, immagino, e sicuramente è stata la mia: entrando nella parrocchiale di Gardola, frazione capoluogo del comune di Tignale, si avverte come un senso opprimente di vuoto, come di un’assenza sterile da grande spazio pubblico. Ma è un’impressione che dura un attimo, e sfuma via via che si prende confidenza col sacro luogo.  Il tutto, lo si intuisce, è dettato dal freddo delle pareti asettiche, dalla fissità della maggior parte delle cappelle, dal pavimento in piccole lastre di graniglia della navata, dalla volta condominiale. Lo si avverte che qualcosa nell’ambiente cozza con la misticità intrinseca di un edificio così remoto. Da quelle stesse pareti qualcosa traspare; così silenziose eppure, nella loro inespressività, qualche sciagura nascondono. E in effetti è solo quando si viene a conoscenza dei fatti che questo vago presentimento di disagio lascia posto all’umiltà e al raccoglimento, rendendosi conto che quell’intonaco neutro delle mura significa in realtà distruzione, sofferenza, rammarico: il 29 aprile 1945 “alle ore 13 circa” (qui e oltre le informazioni storiche sono desunte dal testo di Enrico Mariani, La Pieve di Tignale, edito da Vannini nel 2010) a seguito dello scoppio di alcune bombe la chiesa di Gardola subì danni strutturali gravissimi, ai quali dovette succedere un rifacimento architettonico drastico, se non addirittura – è il caso della parete sud e della volta – un rifacimento radicale (pp. 110-116). Queste sensazioni contrastanti sono in parte attenuate dalle opere superstiti, soprattutto ancone, che si svolgono rapsodicamente lungo il perimetro della chiesa, cariche di significati religiosi secolari (Madonna del Rosario), di culti più recenti (Sacro Cuore di Gesù), o addirittura richiami storico-artistici importanti (il Battesimo di Cristo è una citazione esplicita dell’opera oggi agli Uffizi di Andrea del Verrocchio, dipinto insieme al giovane allievo Leonardo da Vinci; mentre il San Francesco riceve le stimmate deve sicuramente la sua composizione al San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini, quadro oggi purtroppo appartenuto alla Collezione Frick di New York). Tra queste però, e in particolare modo, è l’Incoronazione della Vergine di Giovanni Andrea Bertanza a conquistarci per prima, con la sua dirompenza di corpi, con il denso flusso di puttini e angeli, e con quel Gesto verso la Madonna – l’incoronazione, appunto – regale epperò di suprema devozione, identico e speculare di Cristo e di Dio Padre.

Iconografia. Matilde Amaturo, nel catalogo dedicato a Bertanza, a mio parere l’opera critica più esaustiva dedicata al pittore (Giovanni Andrea Bertanza. Un pittore del Seicento sul Lago di Garda, curato da Isabella Marelli e dalla stessa Amaturo, edito nel 1997 grazie alla Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Mantova, Brescia e Cremona) tiene a sottolineare il soggetto iconografico della pala, ovvero l’Incoronazione della Vergine, in quanto confusa in passato con l’Assunta (p. 144). Ribadisco il concetto, perché trovo la stessa distrazione nel testo di Mariani (a pagina 119, quattordicesima riga) nonostante dimostri in bibliografia di aver letto il catalogo: non mi permetto di toccare i risvolti teologici, che lascio volentieri a chi di competenza, ma dal punto di vista artistico la differenza è sostanziale (cfr., tra i tanti, consiglio Iconografia e arte cristiana, ottimo manuale in due volumi a cura di Roberto Cassanelli e Elio Guerriero, 2004) e i due casi non possono essere sovrapposti. L’incoronazione è l’episodio appena successivo all’assunzione in cielo della Madonna, e in quanto tale ha sviluppato nei secoli una propria rappresentazione. L’origine del soggetto la si ritrova in un antico documento, il Liber de Dormitione Mariae (o Transitus Virginis), il cui testo oggi conosciuto risale al IV secolo, e narra degli ultimi istanti della vita della Vergine Maria, che non sarebbe morta, decomposta, bensì transitata, appunto, in cielo dopo essersi serenamente addormentata (cfr. B. BAGATTI, Le due redazioni del “Transitus Mariae”, in «Marianum» 32, 1970; e L. Bellocchi, L’evoluzione del tema iconografico della Dormitio Virginis in ambito italiano, in «Annales», 22, 2012). La vera e propria fortuna del tema iconografico però avviene grazie alla pubblicazione della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, un frate domenicano del Tredicesimo secolo, arcivescovo e agiografo (del resto, come quella della vita di tantissimi santi). In questo testo è narrato come la Transizione di Maria avvenga in tre momenti: Dormizione, Assunzione e Incoronazione. La Legenda Aurea si diffuse capillarmente e trovò nei committenti e negli artisti i destinatari più prolifici. Non sono poche le rappresentazioni ancora visibili di questa scena risalenti all’età alto-medievale o romanica, ma quasi tutte sono inserite in un ciclo come episodio culmine della vita di Maria. È dal XIV secolo che l’Incoronazione della Vergine comincia a isolarsi dal contesto originario per diventare un’opera a sé. Sono molti i pittori che dall’arte gotica in poi si misurano con questa scena (cito tra i moltissimi, restando nel nostro contesto ossia quello veneto: Paolo Veneziano, Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna, la stupefacente architettura di Michele Giambono, con il suo mastodontico florilegio di santi che fa da contorno). Notevoli sono inoltre le interpretazioni di fine Cinquecento, come quella di Jacopo Tintoretto (sublime e paradisiaca opera, enorme e vertiginosa), ma soprattutto, per quello che ci riguarda, le composizioni molto fisiche e più dirette di Palma il Giovane.

La monografia. La formazione di Bertanza nell’“ambiente palmesco” è il tema centrale su cui si sviluppa l’intero volume monografico curato da Marelli e Amaturo. Palma il Giovane sarebbe il punto di riferimento del pittore gardesano e il loro rapporto di amicizia è più volte documentato. Di Palma si conoscono solo soggetti religiosi e le sue opere, rispetto ai contemporanei, sono prosaiche, essenziali, parche. “Forse un po’ ingenuo, ma semplice e forte”, scrive Cicinelli (p. 22). Il metodo critico adottato dal volume – a cui alterno una lettura attenta a uno sfogliare accidioso di immagini – è quello del formalismo, ovvero dei passaggi e delle derivazioni delle maniere pittoriche, e delle derivazioni delle derivazioni: un metodo un po’ passato, anche se non del tutto obsoleto; dal gusto rétro e di chiaro stampo longoniano (p. es.: “riscontra […] affinità con il Palma il Giovane per il chiaroscuro, e il Veronese per la composizione dei colori”, o ancora, “subisce l’influsso degli artisti bresciani tardo-manieristi [… coniugando] componenti morettesche”). Oggi descrizioni del genere sono utili più per un’ottica di mercato, in quanto l’associazione di un artista minore a un maestro riconosciuto ne eleva il prestigio e quindi il valore economico. Nel testo (mi riferisco soprattutto al saggio di Marelli) sfilano tantissimi nomi di artisti che hanno lavorato per la sponda bresciana; ho la sensazione che il Bertanza sia un pretesto per far esporre alla studiosa nozioni e aggiornamenti di ricognizioni. Non solo. Palma, da quanto capisco dal corposo saggio, non rappresenterebbe solamente un’amicizia, ma pure un modello da emulare morbosamente, una cima da raggiungere, un’ossessione formale da imitare. Tutta l’opera di Bertanza (così leggo tra le righe della Marelli) sarebbe un inseguimento forsennato al maestro veneziano. Le sue pale d’altare “sembrano quasi entrare in un rispettosa competizione con quelle del Palma” (p. 38) – Amaturo parla addirittura di “repliche” (p. 46) –, e così si aggiungerebbe alla sua già bistrattata immagine anche quella del complessato. E se si considera che firmò e datò puntigliosamente quasi tutte le sue opere si potrebbe sospettarlo pure di monomania… ma mi fermo qua, e chiudo questa breve parentesi filologico-polemica.

Biografia e formazione. Quali sono le caratteristiche che per affinità avvicinano il pittore gardesano a Palma? Tutto il modo di procedere di un pittore: iconografia, composizioni e esecuzioni formali (p. 36). La differenza, dal mio punto di vista, sta nel modo di interpretare il modello: Bertanza è un pittore dell’entroterra veneto, un provinciale, e la sua lingua è il dialetto gardesano, non il veneziano; e come tale esegue le sue opere, esattamente come un Girolamo Romanino o un Beniamino Simoni negli ambienti di Pisogne e Cerveno. Una pittura adattata al suo contesto culturale e territoriale. Di Giovanni Andrea Bertanza non si conoscono le date esatte di nascita e di morte, in quanto l’archivio parrocchiale di Padenghe (suo paese di nascita documentato) è andato disperso. Si ipotizza sia nato attorno al 1580 e morto durante la peste del 1630 (p. 42). È stato, e è tutt’oggi (“vita brevis, ars longa”), uno tra i più importanti pittori bresciani del Seicento. Fu da subito apprezzato e lo prova la numerosa e “pressante” committenza che lo obbliga, a bottega avviata, a assumere dei collaboratori. Personaggio di natura sanguigna e molto attivo, partecipò alla cattura e uccisione del celebre criminale Zanzanù; fu sempre lui verso il 1628 che portò direttamente da Venezia la tela di Palma il Giovane per il Duomo di Salò. Confronti interessanti con Bertanza, a mio giudizio, sono per affinità Paolo Farinati, pittore veronese per poco suo contemporaneo e di stessa formazione palmesca, che dipinge nel 1584 per la parrocchiale di Padenghe. Mentre per contrasto Andrea Celesti, pittore veneziano di un secolo successivo (nasce negli anni ’30 del Seicento, poco dopo la morte presunta del Bertanza), ma che col pittore di Padenghe si può dire si contenda artisticamente la sponda bresciana del Garda. Mentre Celesti è più trascendente, Bertanza è più carnale; le pale di Celesti sconfinano in visioni quasi oniriche, estatiche e rarefatte, mentre Bertanza, sulla scia di una pittura più didascalica, si concentra maggiormente sulla presenza fisica dei personaggi e episodi biblici. Ritengo Giovanni Andrea Bertanza un maestro dell’esposizione pittorica chiara, netta e immediata. Nessun fronzolo, nessun taglio prospettico o in profondità di particolare ricercatezza, e niente che esuli dal tema dell’opera. Una semplicità formale che si traduce, come nel maestro Palma, pittore “dal piacevole ductus pittorico, versatile e narrativo” (p. 46), nella volontà di trasmettere un “messaggio mistico, quasi ascetico” (p. 52).

La pala dell’altare maggiore. L’opera è datata e firmata: nel cartiglio in basso a sinistra, tenuto da uno dei puttini si legge “BERTANZ[a] F[ecit] SALLO 1623”. La composizione del dipinto è abbastanza elementare, con la suddivisione in due registri verticali e due orizzontali (così da formare quattro quadrati). La parte bassa, più corporea, è un festoso svolazzio di puttini che fanno da base ai due angeli (ossia serafini), i quali, avvolti da un manto rosso mosso – pare – da un turbinio sovrannaturale, sorreggono e innalzano al tempo stesso la Madonna. Questa è al centro, nel secondo registro del dipinto, umilmente inginocchiata eppure maestosamente dominante l’intero spazio, incoronata da un Cristo in carne e ossa, dal corpo innaturalmente teso in “manierata torsione” (Amaturo, p. 144) e da Dio Padre, sontuosamente vestito. La Vergine indossa una veste bianca candida decorata di stelle: e questa è pura luce – folgore – che lacera la tela e contrasta con l’insieme cromatico, che non casualmente è flebile, debole. L’Incoronazione del Bertanza, così come appare vorticosa e dirompente, colpisce chiunque la contempli. Essa, grazie alla sua maestosità e bellezza, diventa monumento – memoria – della gloria di un passato, quello dell’antica Pieve, così ben raccontata da Enrico Mariani nel suo libro del 2010. Celandoci, parzialmente, da una parte le pene sofferte durante la Seconda Guerra Mondiale dall’edificio e, dall’altra, il coraggio e l’eroicità della popolazione, quella di Tignale, “che si sottopose a sacrifici veramente gravosi” (pp. 110-116) per racimolare i fondi di ristrutturazione.

D.P.