Perché il Voglar, Sauvignon Blanc di Peter Dipoli, è così particolare? Perché si distingue così tanto da tutti gli altri Sauvignon italiani? Con questo quesito Massimo Zanichelli introduce la masterclass dedicata a alcune annate del vino del grande vignaiolo alto atesino, durante l’undicesima edizione del mercato Fivi di Piacenza, domenica 27 novembre 2022.
Il Voglar, nome dell’appezzamento che deriva da ‘focolare’, è infatti un Sauvignon atipico, che si identifica in pieno con il produttore. Persona vulcanica e completamente immersa nel mondo vitivinicolo, Dipoli è produttore, agronomo e enologo, è commerciante di vini (proprietario di Fine Wines), è comunicatore (“il vino deve essere senza punteggio, nei libri di divulgazione enologica deve esserci informazione libera, con possibilità di libera interpretazione da parte del lettore-appassionato”, dice), è scrittore (suo e di Michela Carlotto il trattatello su Mazzon e il suo legame col pinot nero; e suo è anche il libro dedicato al sauvignon blanc e l’Alto Adige), è socio e co-fondatore Fivi, promotore delle Giornate del Riesling di Naturno e delle Giornate del Pinot Nero di Egna (i due vitigni che più ama, ma di cui non ha mai preso in considerazione la produzione); Zanichelli lo definisce un viaggiatore instancabile, e infatti il suo Sauvignon è il risultato di numerosi viaggi in giro per il mondo, e il suo particolarissimo carattere e carisma.
È un vino identitario, un Sauvignon inconfondibile, personale e personalizzato.
Questo vitigno a bacca bianca può dare vini estremamente eleganti o tremendamente banali, scrive Massimo Zanichelli (I quattro elementi del vino italiano. La montagna, Bietti, 2022), a seconda del terroir di provenienza, della maturazione delle uve e dello stile del produttore. Il sauvignon è l’unico vitigno coltivato da Dipoli nei suoi circa 3 ettari di proprietà a Penon Kolf, località nel comune di Cortaccia (nella Bassa Atesina), su un pendio ripido e solatio, tra i 500 e i 600 metri di altitudine esposto a sud-ovest.
Peter Dipoli e Massimo Zanichelli
Peter Dipoli odia le pirazine, ossia il composto organico aromatico in grado di sviluppare sentori vegetali soprattutto nel Sauvignon, “prediligendo quelli ‘tiolici’ (sensazioni di pompelmo, di frutto della passione, di uva spina)” (Zanichelli), insomma vuole trovare nel suo vino note di agrume e frutta piuttosto che verdi e erbacee. Ecco perché le uve sono coltivate a una così alta quota, per beneficiare di un tempo più lungo di maturazione. Ma il cambiamento climatico (tema che preme particolarmente a Dipoli) gioca sporco, “vorrei alzare di 100 metri la collina” dice scherzando il vignaiolo.
L’azienda nasce ufficialmente nel 1988. Il Voglar, unico vino prodotto, fermenta e affina in botti di acacia, no fermentazione malolattica, e esce in commercio a distanza di tre anni dalla vendemmia (con la 2021, grazie alla grande annata, uscirà la sua prima riserva).
In degustazione la batteria prevede cinque annate: 2019, 2018, 2015, 2013 e 2010. Dipoli è molto tecnico: si limita, durante la degustazione, a illustrare i parametri numerici delle vendemmie (acidità, pH, grado Babo); statistiche che minuziosamente appunta e conserva con piglio da archivista. Dopo la chiacchierata del produttore è effettivamente possibile collegare la sua personale visione al vino. Il carattere del vignaiolo è presente nei bicchieri. “Più cerchi la perfezione tecnica e più togli carattere al vino”, sentenzia Dipoli; “la tecnica oggi è al massimo grado, sempre più fondamentale sarà l’interpretazione di chi produce vino” chiosa Zanichelli.
Massimo Zanichelli e Peter Dipoli
Acidità, “architrave dei grandi bianchi”, e sapidità sono le caratteristiche che, fuse ai sentori caldi di frutta gialla (“come un’albicocca sapida”) si rincorrono in ogni vino di questa verticale. “Longilineo, scattante, avveniristico”, dice Zanichelli, che definisce la 2019 come “un anelito verso l’assoluto, il senso di Sauvignon trasfigurato, consustanziale, rivoluzionario. Il palato è succoso, modulato, di sottrazione estrema, tutto in levare, fitto di vibrazioni sapide, dal finale fresco e acuminato”. Per tutte e cinque le annate il colore parla chiaro: brillante, ricco, squillante, vivo che più non si può.
Il Voglar è un vino legato alla sua vendemmia; e per questo la 2018 spicca per una fragranza balsamica (“menta”) e d’agrume (“buccia di pompelmo”). La 2015 è stata una annata caldissima e il vino non elargisce certo sapidità, ma i profumi sono pronti, aperti, opulenti quasi. La 2013 all’inverso è caratterizzata da una forte e lunga acidità, motivo per il quale “comincia adesso a maturare” virando verso toni di pietra focaia. Sentore di pietra focaia che raggiunge la perfezione (“profumo nobile, perfetto”, si compiace Dipoli) intrecciato a un delicato richiamo al litchi nell’ultimo vino in degustazione, annata 2010. Vino dal lungo affinamento, ma dotato di una acidità così vibrante che non la si direbbe così lontana dalla 2019.
“Se ama così tanto il riesling”, si fa sentire una voce dal fondo della sala, “perché non si cimenta nella produzione?”. E la risposta, secca e pacata, è già pronta. “In Alto Adige si fanno grandi Riesling, ma a altitudini alte; nella Bassa Atesina, dove sono, le condizioni non sono ottimali per questo vitigno. Un vitigno che ha nobiltà certo, ma anche e delle esigenze specifiche. Coltivando il riesling nella Bassa Atesina – conclude Peter Dipoli con un sorriso sardonico, e quasi quasi amareggiato – si possono fare buoni vini; ma non si faranno mai grandi vini”.
A Merano nonostante il cambiamento climatico, a inizio novembre, le cose non cambiano: atmosfera nordica e briosa, cime innevate, aria frizzante. Lo stesso vale per il suo festival ormai internazionalmente riconosciuto, il Merano WineFestival, giunto questo 2022 all’edizione numero 31. Non cambiano nemmeno le giacche eleganti di Helmuth Köcher, ‘The WineHunter’, il fondatore storico dell’evento; così come la sua fiera espressione, esaltata dalle ormai iconiche sopracciglia.
E non cambia l’altissima qualità dei vini presenti, e l’importanza dei produttori invitati (circa 700). Difficile districarsi in questo labirinto di etichette note e stranote, di vini grandissimi e ormai leggendari. Quest’anno avevo pure deciso un percorso ragionato, una serie prefissata di assaggi sulla base di una costruzione logica, con un fine didattico-lavorativo-critico. E anche in questo, per me, il Merano WineFestival non è affatto cambiato.
Difficile non fermarsi, a esempio, da Quintodecimo, azienda d’eccellenza campana, guidata da Luigi Moio (intervenuto durante uno dei numerosissimi eventi paralleli al festival), e abbandonare dopo soli 5 assaggi la tabella di marcia. Come riuscire a non sostare a bere spumanti metodo classico strepitosi, oltre che costosissimi anche introvabili, come la Madame Martis 2009 edizione limitata di Maso Martis, la riserva Vittorio Moretti 2013 di Bellavista, la riserva Palazzo Lana 2010 di Berlucchi, il Brut Vintage di Cà del Bosco, il Cabochon di Monterossa, il Valentino di Rocche dei Manzoni, l’Excellor rosè di Arunda? Bollicine grandiose derivate da tantissimi anni di affinamento sui lieviti.
E i toscani? Tua Rita e il Giusto di Notri, Montevertine e Le Pergole Torte, Ornellaia, Castellare e I Sodi di San Nicolò, Tenuta Luce, e di Fontodi, ovviamente, il Flaccianello della Pieve (2019). Piemontesi? Pelissero, Conterno Fantino, Pio Cesare, Borgogno, Einaudi, Scarpa, e bastino questi, con i loro cru più identificativi quali Bussia, Cannubi, Ginestra Vigna del Gris, Castelletto Vigna Pressenda.
Ovviamente non mi sono fatto mancare gli Alto Atesini, come sempre in strepitosa forma per l’evento (del resto, giocano in casa). Di Tramin non mi sono perso il Nussbaumer 2012, un gewürztraminer invecchiato (ha vinto la sfida e le ritrosie generali: ma io traminer lungamente invecchiati ne avevo già bevuti, quindi non è stata una sorpresa, bensì una conferma), e nemmeno il Troy 2019 (chardonnay riserva); di San Michele Appiano, selezione Sanct Valentin, sono sempre eccellenti il Sauvignon e lo Chardonnay (2021), ma ho goduto incredibilmente grazie al Pinot Nero riserva Collection 2018. Della selezione Lafoa di Colterenzio ho assaggiato il Pinot Nero 2019, e un caldissimo, pepatissimo, fumeggiante Cabernet sauvignon 2011.
Di Girlan ho tralasciato bianchi e rossi, per favorire un vino che amo e che non definirei con nessun colore: la loro Schiava da vecchie vigne Gschleier 2020 è una carezza imponente e insieme un pugno morbidissimo; vino fantastico per ogni ora e ogni occasione. Un altro Pinot Nero che mi ha fatto godere proprio è il Ludwig 2019 di Elena Walch, succosissimo. Della celebre cantina di Terlano non ho voluto esagerare oltre, e mi sono fatto bastare (per così dire) il suo celeberrimo Sauvignon Quarz.
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Ma il Merano WineFestival non è solo la fiera dei vini arcinoti, anzi, il bello è proprio quello di scoprire vini eccellenti dal nome poco altisonante, vini dotati finezza e godibilità. Qualche esempio. Accanto alle curiosità dei vini georgiani (buonissimi e particolarissimi), dei vini del Mediterraneo (Albania, Cipro, per esempio), si può bere un Grignolino del Monferrato di Altromondo del 2020, le tintilie molisane di Claudio Cipressi, le bollicine della Val di Cembra di Opera, il Vin de la Neu di Nicola Biasi, prodotto con uve coltivate a 1000 metri in Val di Non, il tochì ossia il tocai-friulano San Martino della Battaglia di Patrizia Cadore, il Fumé sauvignon di Englar.
Eppoi capolavori classici, da me particolarmente amati, come la Ribolla di Primosic, il Buttafuoco 2017 del consorzio Club del Buttafuoco Storico, la Vernaccia di Oristano Flor e soprattutto la Vernaccia Riserva 1997 di Contini, il Molmenti di Costaripa e il Lettera C di Pasini, Rosa Valtenesi affinati per lunghissimo tempo; e chissà quanti altri dovrei citarne.
La Sardegna mi attrae sempre comunque e ovunque, e quest’anno mi ha abbondantemente ripagato. Stavo assaggiando le nuove annate del Korem (bovale) e del Turriga di Argiolas, quando l’occhio mi scappa su una serie di etichette icastiche, incisive, penetranti. In esse sono rappresentati dei volti, con un tratto piuttosto attento, ognuna di un colore diverso – una giallo-ocra, una rosso-sangue, una viola-vinaccia, una verde-salvia –, colori durissimi, pugnaci che sembrano rubati alla tavolozza di Chagall.
Rappresentano, queste etichette, il volto dei tre vignaioli dietro la piccola azienda sarda I Garagisti di Sorgono, una piccola cantina appunto proveniente dal paese nel cuore della Sardegna, tra Barbagia e Campidano, in provincia di Nuoro. E i colori così forti, uniti allo sguardo dei tre vignaioli, sembrano quasi voler essere una metafora: ruggire facendosi strada, col proprio vino e col proprio territorio, nel panorama combattivo della viticoltura internazionale. E qui a Merano è una bella arena.
Mandrolisai è una regione storica della Sardegna, fatta di “terra povera” e suolo granitico; in questa terra, a un’altitudine di circa 550 m slm, Pietro Uras, Simone Murru e Renzo Manca coltivano vigne dell’età compresa tra i 60 e gli 80 anni: Cannonau, Bovale e Monica. Sono cinque i vini che assaggio, e tutti mi colpiscono per qualcosa in particolare; ma in tutti ritrovo eguale sottigliezza, persistenza, profondità, equilibrio e, udite udite, beva. Un rosso sardo di grandissima beva? Provare per credere.
In un giorno caldo di un mese caldissimo di un’estate afosa i tanti qualcuno auspicherebbe il mare, oppure l’alta montagna. Io invece continuo a preferire la campagna, specialmente se invasa da vigne, filari e cantine. In un giorno anonimo di fine luglio quindi sono nella Piana Rotaliana, nel cuore della viticoltura trentina, con il termometro che alle ore 9.30 del mattino mi segnala già 30°C, e un’umidità che fa respirare a fatica. Un’altra giornata pazza di un’estate ancora più pazza.
La Pianura Rotaliana è una sorta di triangolo ‘inserito’ tra le pareti rocciose del Brenta, la chiusa di Salorno e una fascia collinare che sale verso la confinante Val di Cembra; è tagliata in due dal fiume Adige e si trova tra Trento e Bolzano: un croce via strategico (tra l’area mediterranea e quella germanica) che ha storicamente caratterizzato il commercio locale. Viticoltura compresa.
Navigare per la prima volta in una realtà con più di venti aziende medie, piccole e piccolissime non è cosa semplice né immediata. Mi affido così alla guida di un amico rotaliano doc, dunque autoctono, come me incorreggibile appassionato del mondo del vino (winelover per gli amici più giovani), titolare di un’enoteca locale, e connoisseur di piccole realtà vinicole: non omologate, indipendenti, tenaci e soprattutto produttrici di vini dalla forte personalità – e di notevole qualità.
Qui le cooperative sociali hanno il monopolio o quasi, o così capisco, e per i piccoli produttori è difficile cavarsela e districarsi in un teatro i cui grandi attori occupano una parte considerevole del palco, i quali in qualche modo hanno condizionato e condizionano la viticoltura; e meglio sarebbe dire che è ancora più difficile, dato che per fare vino, del buon vino, è già dura.
Alessandro Fanti.
Sono informazioni che si accavallano, frastagliate, nel racconto politematico di Alessandro Fanti, vignaiolo dai modi semplicissimi, che mi parla con un eloquio educato e pacato. Mi trovo a Pressano, frazione di Lavis, territorio che si sviluppa su una fascia collinare molto interessante per il vino; qui, sotto una volta a botte spartana che fa da entrata alla cantina, mi accoglie il vignaiolo Fanti, in un outfit francescano fatto di sandali, braghette corte e maglietta più che informale. E pauperistico è il modo con cui mi conduce nella piacevole degustazione dei suoi vini.
Pochi vignaioli si sono tirati fuori dal sistema delle sociali e hanno cercato di cambiare rotta, e lui è uno di quelli, mi dice come per presentarsi: e in effetti dicendo poco ha detto molto. Il vignaiolo è in preda ai lavori, in vigna e in cantina (si sta, fievolmente, allargando). L’Ora, il vento, spinge forte qua, e da parziale giovamento al caldo umido e pressante del mattino.
Bevo bianchi, Alessandro è un bianchista eccellente, e quindi bevo bene, anzi benissimo. La sua prima vendemmia data 1991; il suo primo vino la Nosiola (in purezza, ovviamente). Un vino dalla lunga storia, tortuosa come ho capito, che Fanti mi snocciola con cura. La nosiola è un vino che risponde bene all’affinamento, mi confida, e quello che beviamo rimane a lungo sui lieviti (anche per 8 mesi), in acciaio e legno (mesi) dove affina, e in bottiglia (anni) dove evolve.
Fanti mi piace perché è franco, e perché non snobba lo chardonnay relegandolo a vitigno internazionale. Vero che la nosiola è l’autoctono trentino, mi spiega, ma lo chardonnay qua cresce bene, e è coltivato in Trentino da più di un secolo (si consideri Giulio Ferrari). Continua a versare vino, e più ancora parla e parla molto; è praticamente una lectio sul territorio, la storia e la produzione di Pressano.
Quelli prodotti in questa zona, mi spiega, non sono mai vini ‘seduti’, seppur zona calda, e questo per i suoli marnosi-calcarei (diversi da quelli della vicina Sorni, gessosi). L’aspetto agronomico è quello che più preme a Fanti (ma in genere ai vignaioli), e infatti si dilunga molto. Il vino è fatto (soprattutto) in vigna, lo sapevo perché me lo aveva detto Lino Maga, e ora lo so (repetita juvant) perché Alessandro Fanti me lo conferma: con le sue nozioni e con i suoi vini. Fanti lavora, praticamente da solo, su 4 ettari circa (su una collina, quella di Pressano, che di ettari ne conta 280) per una produzione vicina alle 17.000 bottiglie.
Bottiglie che Fanti mi presenta nella saletta degustazione, praticamente una taverna, molto ospitale. Uno Chardonnay slanciato, un Manzoni bianco brillante (letteralmente e metaforicamente), e un bianco grandioso, sempre base Manzoni, ma stavolta un cru: Isidor è il nome (cioè “dono di Iside”, la dea della fertilità e della terra), uva coltivata in un vigneto a 600 m s.l.m.; uve più mature ma – scandisce bene le parole – ‘non più dolci, ma più mature’, il che è molto diverso. Risultato: sapidità pazzesca, carattere e incisività, acidità vibrante per un vino che più vivo non si può. L’idea, mi confida, (e lo potevo intuire dalla forma renana della bottiglia) è quella di realizzare un vino dal taglio nordico.
Intanto che assaggiamo parla senza freni del suo lavoro, toccando temi tra l’agronomico e l’alchemico. Parla molto, tantissimo anzi solo di terreno e terra; meno e anzi nulla di vinificazione. Naturalmente ci capisco poco, ma mi interessa molto, e allora continua a chiedere, e più chiedo e più si dilunga. Alessandro mi dice che preferisce partire con vini ‘arretrati’, ossia in riduzione, completamente avulsi dall’ossigeno. In ambienti chiusi (botti) sulle fecce, molte fecce e quindi battonage, anche due volte al giorno. Nelle botti il mosto è torbidissimo. Questo metodo sarebbe favorito a sua detta dal tappo a vite, che piacerebbe a Fanti ma che il mercato (purtroppo) ancora lo trattiene.
Chiedo allora sue considerazioni. Per lui i tappi a sughero sono addirittura un ‘dramma’, mi confessa, “bevendo vini a distanza di anni ho capito che dallo stesso imbottigliamento il contenuto è diverso bottiglia per bottiglia…, si può dire che un vino è più buono di un altro”. Un po’ quanto già detto da Franz Haas, Walter Massa, Graziano Prà, e che in Alessandro Fanti trova una nuova dimostrazione, esaltata anche dalla sua faccia sconsolata. Ma lo conforto, il futuro del tappo a vite non è poi così lontano, sicuramente se di vino bianco si parla.
Almeno un breve commento sull’etichetta dell’Isidor lo devo fare, perché ne vale l’attenzione. Di primo acchito, quella macchia cangiante – al contempo disarticolata e perfetta, spigolosa e caotica quanto sinuosa e armonica, una forma impeccabilmente informe – , mi sembrava una di quelle immagini tratte dai dipinti tantrici, uno di quelli, per capirci, esposti da Massimiliano Gioni nel suo straordinario Palazzo Enciclopedico per la Biennale del 2013. Poi ho pensato a una stella di qualche stravagante cosmogonia; e ancora: al biomorfismo di Redon, addirittura all’arte infantile. Niente di tutto questo (come mi capita spesso penso troppo, e come spesso capita pensare troppo non è la soluzione migliore).
Si tratta, più semplicemente, dell’esito su carta della cromatografia del terreno dove maturano le uve dell’Isidor. Un’analisi visiva, qualitativa e non quantitativa, per tradurre visivamente la vitalità del terreno. “Un omaggio alla terra”, mi dice. La terra dunque, ancora una volta.
Redondèl, ovvero Paolo Zanini.
“Prima de parlàr de teroldego bevém en bicér”. Dovrei esser piuttosto sorpreso per il luogo in cui mi trovo, ma in realtà sono perfettamente a mio agio: sono a Mezzolombardo, nella cantina di Pietro Zanini, in una stanza che è insieme sala ricevimento, sala degustazione, sala vendite, living room, magazzino, cucina, studio, ufficio. L’accoglienza è delle migliori, quelle calde e insieme umili, senza vezzi né fronzoli; si capisce immediatamente la semplicità autentica e genuina del contadino.
Siamo seduti attorno a un tavolo di legno massiccio, il tavolo vecchio del nonno mi dice Paolo; tutt’attorno cartoni di vino, scartafacci, carte, cartoline, bicchieri. Sul tavolo – che in quella moltitudine di oggetti e mobili domina assiso in centro alla stanza – gioia per i miei occhi e per la mia gola c’è un salame pronto al taglio, e le bottiglie di vino che andremo a assaggiare (si legga: bere). Piuttosto schivo (o almeno così mi è parso inizialmente) chiedo qualcosa per rompere il ghiaccio: “prima de parlàr de teroldego bevém en bicér”, mi risponde Paolo Zanini con un tono tra il serioso e la sentenza oracolare. “Bisogna savér de col che s’è drio a parlar”, mi dice, e così giù il primo bicchiere.
Paolo Zanini ha 52 anni, e come mi confida è vicino alla sua 38esima vendemmia. Redondèl è il nome della sua azienda agricola, piccola, anzi piccolissima (se si paragona alla realtà delle sociali, dominatrici nella zona) epperò grandissima (se si paragona la qualità delle uve prodotte a quelle delle sociali stesse), portata avanti dopo generazioni (prosegue dal padre, e dal padre del padre). Vanta tra i 3 e i 4 ettari di terreno coltivato e il nome dato all’azienda – Redondèl – , deriva da quello di una vigna storica fatta di 9 filari (e questo è il motivo per cui i cartoni di vino in vendita sono composti, in modo del tutto originale, da 9 bottiglie). Sono circa 20.000 le bottiglie annue, e 4 le etichette: rigorosamente teroldego, chiaro.
Mi parla della storia della sua azienda, del teroldego, e intanto il vino scorre dalla bottiglia nei bicchieri. E Paolo Zanini parla, e più parla (tanta è la passione) più è incalzato. Redondèl è tra le prime aziende a proporre al mercato teroldego da lungo affinamento. Io che fino a ieri ero convinto che il teroldego non esistesse, o meglio, lo snobbavo tanto lo ritenevo un vino cattivo (poca e mala era la mia esperienza ‘teroldeghiana’), rimango sbalordito. Sarà il lungo affinamento, saranno le botti, sarà la mano di Paolo, o forse tutte queste cose, ma i vini che bevo sono straordinariamente equilibrati, succosi, pieni; l’acidità (che normalmente nel teroldego è la bestia nera) qui è ben amalgamata, è piacevole e ben si inserisce in una trama sensibilmente tannica (tannino che nel teroldego comune è inesistente).
Gli acini del teroldego hanno la buccia fine, “è un vino molto difficile, sia da lavorare che da bere” ammette Zanini. Col tempo sarà sempre più particolare, più vicino ai gusti comuni, ma non sarà mai allineato completamente”. Mi fa notare che i vini prodotti sono un vino rosa (l’Assolto), e 3 rossi (l’Indulgente, il Dannato e il Beatome). “Il vino rosso mi permette di lavorare di pancia, e prima o poi esce il mio carattere nel vino che produco, il mio essere , la mia mano, quello che voglio trasmettere”. Io bevo e ascolto Zanini, e più ascolto e più bevo e più identifico l’uno nell’altro.
Da quella persona che pensavo schiva e restia, burbera e rude, riconosco via via un qualcosa di profondo fatto di una spiccata sensibilità e lungimiranza; persona schietta eppure bonaria, s’infervora facilmente (non chiedetegli di disciplinari o di cantine sociali). Proprio come il teroldego, quello buono che scopro oggi, apparentemente ruvido in realtà mansueto, e – “scarpa grossa, cervello fino”, dice il proverbio – persona lucida e di ampia conoscenza. Tant’è che mi ricorda il Domenico Scandella detto Menocchio, il mugnaio friulano bruciato sul rogo nel 1601, reso celebre grazie al best-seller di Carlo Ginzburg (C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, 1976).
“Non ho mai praticato con alcuno che fusse heretico”, dichiara all’Inquisizione Menocchio, “ma io ho il cervel sutil, et ho voluto cercar le cose alte et che non sapeva”. Scrive Gianpaolo Carbonetto in una illuminante prefazione al libro (2003): “Menocchio è uno di quegli uomini liberi che si alzarono – e si alzano ancora oggi, consapevoli del prezzo che dovranno pagare – davanti all’ortodossia del momento, affermando il loro diritto all’identità, e di conseguenza alla diversità mettendo in atto coraggiose scelte di libertà”.
Le scelte di libertà di Paolo Zanini si chiamano: Assolto, un vino rosa dai sapori fragranti di fragola; Dannato, un Teroldego prodotto con uve molto mature, un vino che nonostante il lungo affinamento di 5 anni in botti da 25 ettolitri (sto bevendo un 2015!) preserva il frutto caratteristico. Zanini ne parla come di un vino che “trova il proprio destino nel disegno astrale… tentato nella via naturale”, e altre formule inquietanti. Beatome, un vino creato per essere longevo, qua si parla di 8 (!) o 10 (!!) anni di evoluzione in botti (barriques e tonneaux); un vino pazzesco. E l’Indulgente, un “vino lento” a sua detta, dedicato al padre, il cui affinamento (lunghissimo, chiaro) questa volta è in acciaio. “Il teroldego è fatto di 3 T: Terra, Tempo, Tradizione”, mi confessa il vignaiolo in estasi, come a sintetizzare i concetti lungamente discussi.
Ho bevuto abbastanza, le ore sono volate, e è ora purtroppo di abbandonare il campo. Ma Paolo mi ferma sull’uscio sorprendendomi con una osservazione: ruota un calice di vino con la propria mano, poi porge un calice a me, con all’interno lo stesso vino, chiedendomi di fare altrettanto; mi invita a annusare prima l’uno e poi l’altro e mi stupisce: “lo senti il profumo diverso, nonostante sia lo stesso vino della stessa bottiglia?”. Alla mia, ovvia non-risposta, Zanini continua: “questione di energie diverse”.
Non ho voluto approfondire, perché sapevo che il pomeriggio sarebbe stato molto più lungo. Ma la risposta è ancora in sospeso; e sarà la prima domanda alla prossima visita. Certo, dopo aver bevuto un bicchiere di teroldego, ovvio.
Le etichette, quel giorno, erano innumerevoli. L’occasione era la presentazione a Parma del catalogo 2022 di Proposta Vini, nello spazio fieristico; il numero di produttori esorbitante, più di 200, e i vini che presentavano molti, molti di più. Ma in mezzo a questo tripudio felice di colori, forme, lettere, caratteri, linee, macchie, scarabocchi che accarezzava (vestendole) quelle bottiglie altrimenti spoglie e tutte uguali, ho riconosciuto l’etichetta più bella: quella impressa sul vino chiamato “A” di L’Antica Quercia, un Prosecco Brut Nature Sui lieviti.
Le etichetthe di L’Antica Quercia
Dell’azienda L’Antica Quercia, di Scomigo presso Conegliano (Treviso), e dei vini di Claudio Francavilla ne scrive bene, anzi benissimo Massimo Zanichelli (Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi, 2017, pp. 104-106), il quale ne parla come una “tenuta dal passato illustre, che prende il nome da una quercia secolare”, che già Mario Soldati (Vino al vino) aveva segnalato.
Il vino è ottimo: carbonica delicata con i suoi 5 bar (3 in più rispetto al Colfondo “Su Alto”, rustico eppure gradevolissimo, dalla sapidità pietrosa e una acidità accomodante; non ha né residuo né solfiti aggiunti. Di gran beva come si direbbe in confidenza.
L’etichetta di “A”
Ma ciò che mi ha colpito, come ho introdotto, è l’etichetta: un’etichetta essenziale, pulita, ariosa, liberatoria, leggera. Silenziosa. Di più: è poetica, evocativa, irenica. Se fosse letteratura sarebbe Il piccolo principe, o qualche componimento Haiku; se fosse musica l’album Branduardi canta Yeats del grande compositore milanese; se fosse pittura sicuramente Osvaldo Licini.
L’etichetta, di carta grossolana e tangibilmente materica (qui la bellezza) è completamente bianca: un ampio, immenso spazio bianco, in cui nulla si intravede ma tutto si può immaginare. In questo ritaglio, tuttavia, alcuni esseri volatili, piccolissimi ma altamente definiti, appena percepibili, svolazzano in completa libertà verso chissà dove. Sono gli aironi della località dell’azienda, impressi nero su bianco su un pezzettino di carta bianca. Basta poco, a volte per esprimere e evocare qualcosa, un dettaglio.
Germano Zullo – Gli uccelli – Topipittori editore milano
Mi torna in mente allora un piccolo grande capolavoro, un albo per l’infanzia firmato da Germano Zullo, Gli uccelli (Topipittori, 2010). Un albo muto, o meglio, così vuol essere: pochissime parole ne fanno da cornice evocativa e esaltante. L’albo narra la storia di un signore molto affabile che accompagna con un furgone, in un luogo impossibile, probabilmente dei sogni, un gruppo di uccelli eterogenei eppure tra loro armoniosi alle soglie di un precipizio, al confine ossia tra terra e cielo: qui voleranno, raggiungendo la libertà.
Due immagini tuttavia sono folgoranti, e del tutto affini all’etichetta di “A” de L’Antica Quercia. Stessa è la direzione – verso l’infinito – , medesima l’attitudine – la spensierata leggerezza.
“Un solo piccolo dettaglio può cambiare il mondo” – Germano Zullo – Gli Uccelli
Scrive Zullo, e non importa in quale pagina, che “un dettaglio non è fatto per essere notato. Ma per essere scoperto […]. Un dettaglio è un tesoro. Un vero tesoro. Non c’è tesoro più grande di un piccolo dettaglio. Un solo, minuscolo dettaglio può illuminare una giornata. Un solo, minuscolo dettaglio può cambiare il mondo.”
Basta poco, a volte per esprimere e evocare qualcosa: un dettaglio. Basta poco, ma è un poco che vale moltissimo.
Proposta Vini è una azienda specializzata nella selezione e commercializzazione di vini e distillati. E direi – conoscendola ormai piuttosto bene – soprattutto nella selezione: scrupolosa, attenta, appassionata. Perché questa deriva da una ricerca (capillare) rivolta a produttori che operano nel rispetto del loro territorio e delle loro tradizioni. Promuove e valorizza, insomma, la biodiversità italiana. Questo, in pratica, si traduce proponendo alla vendita produttori che da sempre credono in vitigni dimenticati, tipologie di vino non convenzionali, luoghi ignoti.
E significa quindi tenere a catalogo mostri sacri quali Walter Massa, Marisa Cuomo, Alberto Paltrinieri, Massimo Travaglini, Damijan Podversic (ne parlo qui); ma insieme promuovere e vendere capolavori più sottaciuti come lo Sciacchetrà dei Forlini Cappellini, il Buttafuoco di Andrea Picchioni (ne parlo qui), il Vino Santo di Francesco Poli (e la sua miracolosa acquavite di genziana), la Rossara di Roberto Zeni (ne parlo qui), il Colfondo dell’Antica Quercia, i Fortana di Mirco Mariotti, il Grillo di Hibiscus, i Salina Bianco di Salvatore D’Amico. E per motivi di spazio mi tocca pure essere riduttivo.
Proposta Vini è però anche l’azienda che pubblica uno dei più bei cataloghi di vino che conosca (e non sono pochi); dalla grafica alle illustrazioni, dall’impaginazione all’organizzazione delle sezioni: tutto appare chiaro, accattivante e maledettamente buono (come non assaggiare?).
La presentazione del catalogo 2022 di Proposta Vini si è svolta per la prima volta in uno spazio fiera, a Parma
Ma è l’azienda, Proposta Vini, dei progetti forse più ambiziosi, nati “per dare spazio e visibilità a quei vini che, pur essendo presenti da secoli o da millenni nel nostro paese, lontani da ogni logica di omologazione, non sono ancora riconosciuti dal mercato.”
Cito tra i più importanti: “Vini estremi”, quelli che nascono da altitudini, pendenze, clima del tutto impervi e in cui il lavoro manuale dell’uomo è ardua fatica; “Vini dell’Angelo”, progetto storico di Proposta che ha permesso di recuperare le varietà presenti in Trentino fino alla Grande Guerra; “Vini dalle Isole Minori”, molto curioso e suggestivo, il quale progetto racchiude tutti i produttori delle microisole del Mediterraneo (come l’Isola del Giglio, Vulcano, Salina, Ustica). Non meno interessanti sono i progetti legati ai “Vini franchi” , cioè viti non innestate su vite americana (non toccate nell’Ottocento dalla fillossera quindi), e “Vini vulcanici”, per la peculiare composizione geologica del terreno dove maturano le uve.
E da pochi giorni, grazie a Christian Bauer vengo a conoscenza anche del nuovo, coraggioso e mistico (ciò mi esalta molto) progetto di Proposta Vini: “Vini delle Abbazie”, nato da un’idea del viennese Josef Schuster.
Christian Bauer mi presenta l’ampia gamma dei Vini delle Abbazie
L’occasione è la presentazione del catalogo 2022, per la prima volta in uno spazio fiera, a Parma. Qui, in uno stand (purtroppo molto claustrofobico) Christian mi accompagna in una degustazione che tocca in modo tangibile storia, cultura e religione (cristiana, si capisce) di 8 luoghi di preghiera europei. I vini raggruppati convenzionalmente in questo gruppo sono tutti prodotti da figure religiose all’interno di antichi monasteri nei quali, da secoli, si coltiva la vite. Come è capitato per le antiche fonti greche e romane (poi riscoperte dagli umanisti rinascimentali), anche la vite ci è stata tramandata attraverso il Medioevo grazie a benedetti (è proprio il caso di dirlo)monaci: benedettini, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi, trappisti, etc.
“Se il vino non è scomparso dalle nostre tavole il merito va a quei laboriosi monaci che, anche per ragioni di rito – il vino assieme al pane è l’eucaristia – , dopo la caduta dell’Impero Romano, hanno continuato a coltivare la vite.”
Ebbene, molte abbazie sono ancora attive (si veda l’esemplare abbazia di Novacella) e praticano la viticultura producendo vino, conservando inoltre varietà d’uva storiche che altrimenti sarebbero state perse.
Queste di seguito sono le cantine-abbazie che ho preferito.
Stift Admont, Jarenina
Stift Admont, Jarenina
Stift Admont, Jarenina (Slovenia). Fondata dai Benedettini in Stiria, Austria, nel 1071. Nel 1130 divenne proprietaria del Maso Jarenina, che si trova a 5 chilometri dal confine con l’Austria. Attualmente i monaci lavorano 72 ettari di vigne in diverse zone della Slovenia. Hanno riscoperto il vitigno Furmint, che in sloveno si chiama Sipon. Due le etichette: il rosso fermo è un cru, Ilovci, e affina 16 mesi in botti grandi, mentre il metodo classico affina tre anni sui lieviti.
Clos de Abbayes, Losanna
Domaine Clos des Abbayes – Losanna (Svizzera). Fondato dai monaci cistercensi nel XII secolo; questi crearono i terrazzamenti per coltivare la vite ancora in uso. La vigna Clos des Abbayes è di appena 4 ettari e l’unica varietà coltivata è il Chasselas, che matura molto bene grazie alla luce del sole riflessa nel lago, e dona vino bianco di acidità spiccata e eleganza distinta.
Stift Altenbrug – Limberg
Stift Altenbrug – Limberg suolo
Stift Altenburg, Limberg – Weinviertel (Austria). Fondata dai benedettini nel 1144. I vigneti di Limberg si trovano nella zona più fredda della DOC Weinviertel (zona di Gruner Veltliner straordinari) ricca di boschi. Le viti crescono su una roccia silicea sedimentaria di origine organica: sono i residui fossili di microscopiche alghe marine; questi depositi arrivano fino a 23 metri di profondità. Il suolo è eccezionale e infatti i vini che bevo, un Gruner Veltliner e uno Zweigelt sono molto fini.
Kloster Eberbach – Rheingau
Kloster Eberbach – Rheingau
Kloster Eberbach, Eltville – Rheingau (Germania). Fondato da Bernardo di Chiaravalle nel 1136, è un pozzo di storia, oltre che di vino. Mi dice il mio accompagnatore che nel Medioevo il monastero divenne il produttore di vino più importante della Germania arrivando a 252 ettari vitati (oggi ne possiede 210!). Il vino veniva esportato soprattutto verso l’Europa del Nord attraverso il Reno. Della cantina bevo uno strepitoso e vibrante Riesling, e un Pinot nero carnoso e cupo.
Monasterio de Yuso, Rioja
Monasterio de Yuso, San Millán – Rioja (Spagna). Il monastero è patrimonio dell’umanità UNESCO, conserva le reliquie di San Millan, e in questa zona è stato trovato il primo testo in aragonese occidentale (ossia il primo documento in lingua spagnola datato 900 d.C.). Due le etichette a base di Tempranillo e Garnacha. Un Rioja Crianza molto caldo, quasi allappante, strutturato e molto intenso; e un Rioja Reserva ancora più opulente, ma nel complesso un bel vino da chiacchiera.
Monastero Panteleimon, Monte Athos
Monastero Panteleimon, Monte Athos
Monastero Panteleimon, Monte Athos (Grecia). Culla dell’ascetismo contemporaneo, e dell’iconografia (il primo manuale di iconografia proviene proprio da qua, creato per guidare i monaci nella scrittura delle sacre icone). Vengono coltivati 70 ettari con una esposizione sud-est. Mi dice il mio istruttore che qui viene ancora coltivata la varietà Limnio, “apprezzata già da Aristotele” (lo riporto, anche se ne dubito molto). Il vino rosso prodotto, Agion Oros, infatti è un assemblaggio di questo raro vitigno con cabernet sauvignon.
“Un vino mistico. E piacevole”. Cit.
Bevo un vino estremamente particolare, che cela un qualcosa di indefinito; un vino molto amarognolo, una frutta molto selvatica, di mora poco meno che matura, un’astringenza accennata, un corpo non troppo pieno eppure gradevole, un’armonia indecifrabile: un vino mistico. E piacevole.
Carso: una parola già di per sé pietrosa, composta di cinque pesanti, granitiche lettere: C-a-r-s-o. Quindi non avrei dovuto stupirmi appena varcata la soglia di quel sontuoso, selvaggio, animalesco e inquietante altopiano, che si innalza veementemente a capofitto o in modo ossimorico da Trieste, e compresso alla parte opposta dal confine sloveno.
La mia meta è Prepotto, piccola località sorprendente (da non confondere con Prepotto in provincia di Udine). Restando nel confine italiano si può arrivare da nord, passando per Aurisina, quindi Sales e Sgonico; oppure da ovest, passando per Prosecco, e quindi Gabrovizza; o, infine, da sud, procedendo per Opicina, e quindi Rupinpiccolo. Ma in tutti i casi il paesaggio che si affronta è il medesimo: pietre, pietre, pietre. Muretti a secco ovunque, costeggiano strade o tratturi o sentieri abbandonati o prati incolti; muretti a secco integri o in sfacelo ovunque.
Io passo da Sales, dubbioso (in che misterico posto sono? Devo aspettarmi Sileno?)ma assetato (i vini del Carso sono straordinariamente buoni), e dunque procedo sino a arrivare in un rettilineo lunghissimo; a un certo punto mi si para davanti un’indicazione molto algida: “Prepotto”. Resto sbigottito, non è da lì che mi aspettavo provenissero i fragorosi Terrano e Vitovska. Poi mi accorgo di una stradina a lato, molto stretta e in mezzo al bosco; decido di percorrerla. E infine il tripudio.
Prepotto è un paesino leggermente rialzato dall’altopiano carsico e posto quasi sul cucuzzolo, così che di colpo ci si trova d’innanzi il maestoso golfo di Trieste, blu e scintillante. La strada per arrivarci percorre l’interno del Carso, e Prepotto ne è ‘separato’ da un fitto bosco. Per questo non potevo immaginarmi uno spettacolo simile! Il paesaggio, nel giro di poco è cambiato completamente, adesso è una collina regolare che degrada dolcemente a valle, è un susseguirsi di campagna coltivata a vigna.
Se il paesaggio è collinare, l’aria è quella marina: un dolce sentore salino, come di salsedine, pervade tutto l’ambiente. Ecco da dove deriva – o così mi dicono – quella straordinaria beva e sapidità della Vitovska, vitigno locale e vino che si trova solo in questa zona.
Scrive Mario Soldati, nel suo viaggio del 1970, dopo essere passati – come il sottoscritto – da Trieste: “ci fermiamo in alto, in Carso, tra le vigne riquadrate dai bianchi muriccioli di pietra del Carso, in vista del mare specchiante un gran sole, in vista del golfo dove la pianura padana sembra giungere estenuata e chiudere in quell’aspra dolcezza la sua ampia, lunga, sinuosa forma femminile”. E tutto è ancora immutato, garantisco.
Il paesaggio collinare, quindi, e l’aria ventilata e marina. Il terzo, pazzesco, straordinario (qui tutto è straordinario) fattore che aiuta alla formazione naturale di vini eccezionali è il seguente: il suolo. Un suolo che non si può crederci se non lo si viene a tastare con mano, un suolo che è solo roccia, e veramente solo roccia, che vuole dire mineralità, mineralità e mineralità. Lo provo, lo verifico visitando le cantine della zona, Zidarich, Lupinc, Kant, e soprattutto Skerk, le quali sono scavate all’interno della roccia, in profondità. Sono vere e proprie grotte, caverne mozzafiato. Visitarle provoca un senso di vertigine raramente riscontrabile nelle altre cantine italiane.
Il primo appuntamento è da Zidarich. La cantina è inserita al principio della discesa che corre verso Aurisina, e guarda al mare. Nasce dalla determinazione di Beniamino Zidarich attorno al 1988; cresce negli anni ’90 arrivando a essere l’azienda leader del Carso, o comunque la più conosciuta e prestigiosa. A oggi conta circa 8 ettari di proprietà più 2 in affitto, arrivando a produrre anche 30.000 bottiglia annue. Mi parlano molto del territorio, in quanto “aiuta alla formazioni di vini naturali”. Il lavoro in vigna è tutto manuale, la roccia del terreno è in grado di dare molta mineralità, la brezza che giunge dall’Adriatico mantiene le piante asciutte. “Lavoriamo in collaborazione con la natura”, mi sento dire con entusiasmo. Tutti i vini prodotti (molte le etichette) passano un periodo più o meno lungo di affinamento. Mi ha stupito della cantina il fatto di lavorare con dei tini in marmo (!), un blocco unico di pietra di Aurisina, usati sia per la macerazione che per l’affinamento. “Il vino lavora più lentamente, e quindi in modo migliore, perché la pietra rimane fredda”, mi spiega la mia guida.
Mi colpiscono in particolare i seguenti vini. Vitovska 2017, un bianco pieno, minerale, sostanzioso; ma insieme caldo e avvolgente, sapido e lungo. L’influsso del mare, che mi guarda nella sala degustazione, è evidente. Al palato è un’esplosione di salinità. La Malvasia 2018, affina in botti medie, e è molto più morbido della Vitovska. Appartiene alla famiglia delle malvasie, ma non è così aromatica, anzi! È molto secca (non così secca come quelle di Oslavia), e questo ne provoca un’armonia, un’eleganza e una piacevolezza disarmanti.
L’orizzonte è ampio dalla sala degustazione di Zidarich, che è una terrazza vista mare. Prendo un bel respiro e mi preparo a bere uno dei miei vini preferiti: il Terrano. Un rosso carnoso, polposo anche se è impossibile a dirsi essendo dotato di una acidità e una mineralità esaltanti. Il terrano altri non è che un biotipo di refosco, il cosiddetto refosco dal peduncolo verde. Ma la differenza sta nel suolo in cui alligna, la terra rossa del Carso, e questo dettaglio fondamentale permette al vino di chiamarsi in tal modo. E di essere così buono. Il Terrano 2019 che bevo da Zidarich è molto giovane, è quello appena uscito, ma dimostra già un gran potenziale.
Ringrazio, e proseguo per la mia strada. Lì vicino sta Lupinc, piccolo produttore, la cui cantina è un meraviglioso pendant con l’agriturismo di fronte; l’entrata è unica, il giardinetto è in comune, e tutto è rimodernato. Il padre del proprietario attuale è stato un pioniere della Vitovska insieme a Edi Kante, e quindi, nonostante non abbiamo prenotato provo a intrufolarmi. Il proprietario, gentilissimo, mi ospita accompagnandomi subito a guarda il panorama: anche dalla sua azienda si può osservare uno strabiliante panorama, dal mare a Duino alla Pianura Padana. Si sofferma su Duino, il cui castello appartenente alla famiglia Thurn und Taxis, è noto per aver ospitato Rilke.
Il padre dunque comincia questa avventura vitivinicola nel Carso già nel lontano 1969; il figlio la prosegue con passione con un totale di 7 ettari e 20.000 bottiglie di produzione annue. Poche le etichette, ma tutte di eguale gradevole beva. Spicca, per mio personale gusto, naturalmente, il Terrano, che bevo nella vendemmia del 2019 e successivi due anni in botti di legno per l’affinamento.
Lupinic sta in centro al piccolo paese; ora devo andare da Kante che è di poco spostato verso l’interno, ossia al limite del bosco. Anzi, nel bosco, selvaggio c’è proprio immerso. Il luogo mi pare arcaico, non ci sono indicazioni. Fortuna scorgo due enormi botti e allora capisco che sono arrivato a destinazione. Ci credo non vedevo la cantina – un cilindro nella roccia di tre piani – è tutta interrata! E scende, scende nelle viscere cazzo! Solo la saletta degustazione e gli uffici a vetrate sono visibili.
Mi viene incontro un signore cordialissimo, che facendomi fare un giro della zona mi racconta la storia dell’azienda, illustrandomi di volta in volta gli appezzamenti. A oggi è la cantina che produce più vino di tutto il Carso, grazie ai suoi 20 ettari (divisi a macchia di Leopardo) e le conseguenti 60-70.000 bottiglie. La mia distinta guida si sofferma poi su una cosa che ormai mi è impressa nella mente: le caratteristiche favorevolissime del territorio che aiutano in modo eccellente la produzione del loro vino di qualità, ossia lo iodio, proveniente dal mare, e la Bora, il vento fortissimo che permette un numero molto ridotto di trattamenti.
Degustando i vari vini della batteria noto che questa volta il Terrano è quello che apprezzo meno. È un vino che non fanno ogni anno, ogni vendemmia viene scelto se produrlo o meno in base a come è andata la maturazione. Il Terrano, mi spiega il mio ospite, è un vino complesso da produrre, sia per la buccia delicata sia per le evoluzione non spesso controllabili. La Vitovska è molto grassa nonostante non faccia macerazione, e è molto persistente al palato. Ciò che mi stupisce più tutti in casa Kante è lo Chardonnay, sia nella versione ‘base’, molto elegante, sia nella versione selezione, chiamata appunto Bora. Questa che bevo è una selezione 2012, e fa un lungo affinamento, prima in botti di legno, in acciaio e infine in bottiglia. Uno chardonnay estremamente raffinato e equilibrato, e soprattutto che ha un suo carattere distinguibile dagli chardonnay di altre zone note.
Skerk, l’ultima cantina della giornata, è la cantina più bassa di Prepotto, e anche questa, come Zidarich, è rivolta verso il mare. Azienda relativamente recente, lavora bene, vende molto e investe altrettanto. Il vino è riconosciuto, la qualità dei prodotti non è all’oscuro. Arrivo nel momento giusto perché la cantina è appena stata ristrutturata, praticamente rifatta. La sala degustazione è all’interno di una più grande sala scavata nella roccia e divisa da lastrone enormi, monumentali, mostruose di marmo locale Aurisina. La costruzione mette soggezione; e non ho visto tutto. Il mio accompagnatore con un sorriso mi invita a osserva poco più in là dalle botti, e ecco che le vertigini mi salgono fino a ledermi la testa: in basso dopo una ringhiera di sicurezza si apre una voragine spaventosa, in cui sul fondo soffusamente illuminato stanno delle botti di grandi dimensioni. Di qui partono grotte carniche naturali, e sono l’esemplificazione massima del suolo del Carso.
Sandi Skerk, ingegnere di formazione (e qua mi spiego la struttura e la sua maestosità) comincia a produrre vino dal 2000 circa. A oggi conta 8 ettari e una produzione di circa 20-25.000. Tutti i suoi vini sostano sulle bucce per almeno 2 settimane in tini da 18 ettolitri. Al momento le etichette prodotte sono 5. Assaggio una Vitovska 2019 dai sentori evoluti, un po’ spigolosa ma molto minerale; un bel fruttato contribuisce alla gradevolezza. La Malvasia è più rotonda, morbida, calda.
L’Ograde, a mio avviso il pezzo forte della batteria, è un assemblaggio sapiente di vitovska, malvasia, sauvignon e pinot grigio. Il termine “ograde” indica un appezzamento circondato da muretti a secco, e vuole racchiudere anche il concetto di cru. È un vino macerato, uno di quelli che definiscono “orange wine”, ma al contrario di questi è straordinariamente delicato, la struttura è imponente ma allo stesso tempo limpida, cristallina. Deliziose note di pesca matura, poi, mi fanno sognare.
Assaggio per ultimo, estasiato dall’ultimo vino bevuto, il Terrano in due versioni, quella ‘base’ e la Riserva, prodotta solo nelle annate migliori. Il primo mostra un’acidità elevata, è fresco forse troppo (però penso a quanto starebbe bene con cotechino o altre carni grassissime); il frutto rosso che avverto è molto aspro. Il Terrano Riserva 2018 è un’altra cosa. “L’uva era perfetta” ammette soddisfatto il mio anfitrione. Il vino è polposo, succoso, carnale e, addirittura, ematico.
Il cielo al di fuori, immobile, è soleggiato e terso, ma non così basso pur essendo dicembre; le ombre sono lunghe, la luce pulviscolare. L’atmosfera è stringente e abbastanza conturbante. Tutto intorno è calma piatta, una calma esaltata dal sordo mormorio che proviene dal mare. Pare che tutto si sia fermato, se non fosse per il cinguettio di qualche uccellino. E per il rumore delle ruspe: Prepotto, in virtù delle sue aziende è una località in fermento; ci sono lavori in corso praticamente in ogni azienda. Ben venga per loro che fanno vino, e meglio ancora per noi che lo beviamo.
Intorpidito da così tanta roccia e ammaliato da così tanto vino, opto per fare una tappa al Santuario di Monrupino, posto in altissimo a dominare il Carso e, così mi pare, il golfo di Trieste. Così da quelle alture contemplo ancora un poco il paesaggio, prima di riprendere la strada del ritorno. A contatto diretto con quel suolo e respirando quell’aria tipicamente carsica, credo abbia ancora ragione Mario Soldati quando consiglia nel suo viaggio di non bere questi vini dal “sapore di Carso senza l’aria del Carso”.
Partendo dal Lago di Garda, raggiungere Gorizia significa attraversare importanti città e quindi numerose attività storico culturali. Quante possibilità ho tra le province di Verona, Vicenza, Padova e infine Gorizia? Troppe, e quindi mi limito a una sola, comoda e imponente scelta: la Rotonda del Palladio. Viaggio di domenica e la condizione è delle migliori, nessun camion e poche altre macchine oltre alla mia.
C’è piuttosto freddo e in macchina sull’autostrada me la sto godendo con riscaldamento acceso e Tutto il calcio minuto per minuto su Radio 1 (è domenica pomeriggio), però il clima soffuso e la giornata uggiosa mi mettono voglia di visitare altro. Meta quindi a Aquileia e, di rimbalzo, a Grado. La storia della prima è come se fosse convogliata nella potenza della basilica paleocristiana, imponente, austera, dai pilastri massicci e dal pavimento coperto interamente da mosaico; dalla cripta affrescata alle decorazioni rinascimentali. Accendo un cero, faccio riverenza e ritorno alla macchina.
Ho voglia di un caffè ma voglio cambiare aria; mi rimetto alla guida e mi trovo in poco tempo d’innanzi alle mura di Palmanova, la citta fortezza. Ne bevo uno buono vicino alla piazza. Infine arrivo Gorizia e si è fatta sera, un giro in centro però è d’uopo, soprattutto se si è sotto clima natalizio. Fatta notte viene tardi, e gli impegni del giorno dopo mi richiamano all’ordine.
Villa Almerico Capra (Rotonda) del Palladio
Vista mare da Grado
La basilica di Aquileia
L’interno della basilica di Aquileia
Gorizia centro
Primosic.
Un giorno di pioggia si è trasformato non so come, in una sola notte, nella giornata più bella e limpida che più bel regalo non si poteva farmi. Il cielo è azzurro vivo; solo una leggera foschia percettibile a fondo valle sale piano piano dai colli. Ne approfitto per visitare il luogo, di prima mattina si ha la luce migliore per osservare.
Oslavia per me è zona completamente nuova, e come sempre mi emoziono di fronte a terre nuove e vigneti mai visti. Decido per approfondire di salire a San Floriano, il paese più alto del Collio, là sopra sta una piazzetta con tanto di monumento e chiesetta parrocchiale. E da questo magico punto si ha una veduta praticamente a 360 gradi sul territorio: a nord mi saluta innevato l’arco alpino, magnifico, bellissimo e brillantissimo (giornata limpida, le Alpi Giulie sembrano a pochi chilometri) e poco sotto si intravede Udine, di là poi la Slovenia, quindi Nova Gorica. E tutt’attorno a me vigneti dalla pendenza notevole alternati a boschi incolti, tantissimo bosco quasi a cadenza regolare che, essendo dicembre, si traduce in un ammasso disarticolato di tronchi spogli.
Devo separarmi da questo spettacolo perché ho il primo appuntamento della giornata. Arrivo da Primosic (nomen omen) giusto in tempo; sono accolto con un buongiorno da Chiara, una signorina gentilissima e molto cordiale, con un sorriso vivace stampato in faccia (sarà perché sono le nove e venti del mattino?); un’accoglienza non calda ma comunque confortevole. Mi racconta dapprima la storia della cantina a grandi linee, qualche nozione base, non senza informazioni generiche sulla viticoltura locale.
Il Collio – una mezzaluna collinare di poco a nord di Gorizia, posta tra i Colli orientali del Friuli e il Carso, e che confina, accarezzandola, la Slovenia – conta circa 1500 ettari vitati. Un territorio martoriato in passato dalla Prima Guerra Mondiale, ma che, come già ha scritto Mario Soldati, “chi non sappia, crederà di trovarsi nel più idillico, nel più soave, nel più pacifico angolo d’Europa…” Le parole di Soldati sono di circa cinquant’anni fa, ma valgono ancora.
Oslavia, comune piccolissimo di 650 abitanti approssimati per eccesso, che coincide in pratica con la via che da Lucinico porta a san Floriano, rappresenta il cuore del Collio. In questo paese, che di eccezionale ha poco o nulla se non il vino e i vigneti, ci sono ben sette produttori (più uno), di differente ma eguale qualità, caparbietà e, nonostante i piccoli numeri, forza.
I Davide che tengono alto il nome rispetto ai Golia (penso senza andare troppo lontano ai Livio Felluga, ai Schioppetto, ai Venica&Venica) corrispondono al nome di: La Castellada, Fiegl, Gravner, Primosic, Prinčič, Radikon e Il Carpino (che però sulla carta è sotto San Floriano). Questi (ai quali se ne aggiungerà un altro) negl’ultimi anni sono impegnati, insieme, in campagna volta a valorizzare e promuovere la Ribolla Gialla del territorio e i suoi metodi di vinificazione (ben lontani, a esempio, dalla ribolla gialla spumantizzata in Veneto, sulla quale differenza seppur ovvia, non è scontata). L’idea è quella di una nuova apposita DOCG, che identifichi la sottozona; ma questa è materia per burocrati.
Primosic, con i suoi 30 ettari di terreno vitato (tra proprietà e affitto), appezzamenti suddivisi a macchia di leopardo, è tra le più grandi aziende del Collio. I fratelli Marko e Boris Primosic fondano l’azienda attorno al 1956, ma solo nel 1964 escono le prime ufficiali bottiglie (alcune è possibile osservarle ancora integre in azienda).
È mattina presto ma non mi spavento più di tanto, anche Soldati cominciava a bere di prima mattina nei suoi viaggi. Così Chiara mi presenta una lunga successione di etichette: sono quindici, divisi in due linee, tra classici e macerati, e di cui solamente tre rossi (un merlot, un refosco e un assemblaggio dei due). La giornata è lunga e non posso bere tutto. Faccio un selezione cercando vini che coniughino curiosità e piacere. Attacco con la Ribolla gialla ‘base’: un giusto inizio, perché leggermente acidula, leggerina, gradevole. Chiara mi parla della Ribolla come un vitigno a due facce, un vino dei contadini da un lato fatto per essere bevuto a quantità sostanziose (e mi sembra questo il caso), e dall’altro un frutto dal grande potenziale, considerando l’acidità e, essendo varietà coriacea, lo spessore della buccia (è il caso dei macerati). “Oggi macerano di tutto e di più”, mi dice, “ma non tutte le varietà si prestano a macerazione”. Sacrosanto: dato che ho bevuto vini macerati dei più disparati e molte volte con esito sgradevole non posso che concordare.
Poi sale di grado e mi versa uno Chardonnay riserva, con alle spalle due anni in barrique, un 2017 appena uscito in commercio e quindi freschissimo. Un vino grasso e burroso, “in stile borgogna”, in cui avverto molta frutta secca come di arachidi. Mi pare ottimo per colazione, figuriamoci a pranzo; anche se con un periodo più o meno lungo in bottiglia me lo aspetto ancora meglio.
Prima di arrivare ai macerati bevo un bianco ‘selezione’ che è una vibrante e alternata armonia di tre timbri e sonorità diverse: sauvignon, friulano e chardonnay. Questo vino, che si chiama Klin dal nome del vigneto, è il risultato di un sapiente uvaggio (e non assemblaggio: la differenza è notevole, e Chiara me lo ribadisce): le uve delle tre varietà provengono da vigne piantate nello stesso appezzamento a forma di cuneo (di qui il nome di ‘klin’, dallo sloveno) che si inserisce con la punta al confine con la Slovenia; queste maturano insieme e insieme vengono vendemmiate e fatte fermentare, e successivamente fatte affinare in caratelli di legno. È un’orchestra (talvolta disordinata) di profumi e sapori che ho nel bicchiere, talvolta più erbacei oppure più fruttati, note che si scambiano e si incrociano continuamente. Purtroppo il tempo è poco e non ho la possibilità di verificarne l’evoluzione nel bicchiere in un tempo abbastanza prolungato. Vino di notevole complessità. E eleganza.
Se si bevono i vini del Collio non ci si deve stupire se i prezzi sono più alti della media: il lavoro in vigna, per via delle pendenze e della distanza tra i filari, è tutto a mano. Si aggiunga poi i lunghi affinamenti, solitamente in caratelli o botti o tini che questi vini fanno prima di essere messi in commercio. Ma questo chi beve bene lo sa; e il mio lettore beve bene, e comunque mi propongo di scrivere per un bevitore di senso oltre che godereccio. Non c’è bisogno che mi dilunghi oltre.
Finalmente Chiara mi versa i macerati. Tutti eccezionali per la struttura e al contempo la bevibilità, non mi risultano pesanti o graffianti, anzi la loro eleganza e piacevolezza unita alla succosità e acidità richiamano un bicchiere dietro l’altro. Il friulano ‘Skin’ fa una macerazione di due settimane, un anno di botte e due in bottiglia; le note della sospensione sulle bucce si avvertono fievolmente, unite a note floreali e frutta secca. Nella Ribolla gialla invece sono quattro le settimane di macerazione, due anni in caratelli di legno da 17 ettolitri più anno in bottiglia. Il risultato è insieme esplosivo e suadente, all’albicocca disidrata si uniscono note più tostate e marcate. Il contatto con le bucce nel Pinot grigio è molto minore, una settimana, la tannicità è meno marcata, ma – in virtù certo della varietà – il vino che ho nel calice ospita innumerevoli note e svariate tra loro: dalla frutta matura al balsamico delle erbe officinali. Un vino a due facce, materico e lunghissimo.
La curiosità mi spinge a assaggiare anche il Refosco (li assaggerei tutti, ma come ho detto la giornata è ancora lunga), che al contrario di come pensavo lo trovo molto beverino, leggermente tannico, molto fresco (l’acidità è spiccata, non dirò aspro però). Il refosco, mi spiega Chiara, è un vino di difficile produzione per via dell’alta acidità e del tannino presenti, i quali senza giusta accortezza potrebbero fare diventare il vino eccessivamente duro. Questo di Primosic mi sembra però un Refosco equilibrato, seppur cupo e abbastanza selvatico, con note predominanti (ma chiuse) di mora matura.
È una bellissima giornata, fuori tira una leggera brezza ma il sole è avvolgente, e quindi Chiara si offre di accompagnarmi a visitare qualche vigneto nei paraggi. Ci incamminiamo in un sentiero che porta verso est, scendendo a fondovalle, ossia verso la Slovenia – che è lì vicinissima, proprio di fronte. Mi porta a visitare l’appezzamento che poco fa mi ha spiegato, il Klin. Resto stupito da tale pendenza. E dalla stravagante linea di confine, spezzettata e discontinua. Chiara è un’ottima interlocutrice e il discorso passa allora alla storia del confine, storia di guerra e di sofferenze. Una linea netta sul Monte Sabotino, il monte di confine, si distingue per la sua eccessiva regolarità: è la Strada di Osimo, mi spiega Chiara, una via di comunicazione costruita a seguito dei trattati del 1975, necessaria per collegare i due stati, e per rendere più agevole il percorso di chi doveva andare da una parte all’altra del confine.
Fiegl.
Le nostre strade si separano rientrando; a metà della stradina infatti un bivio ci impone un saluto. Ringrazio la solare Chiara, che con un sorriso mi indica di proseguire sulla destra per la mia meta successiva. Fiegl è poco lontana da Primosic, solo che la raggiungo dal retro e non dalla strada principale. Meglio così perché passo per delle botti e non per il cancello; senza accorgermene faccio un po’come se fossi nel giardino di casa mia, poi mi avvicino alla porta e vedendola socchiusa entro. In cantina un ragazzo mi saluta con un cenno secco di contrariata sorpresa, accompagnato da uno sguardo interrogativo; è Jacopo Fiegl che sta imballando cartoni di vino pronti per esser spediti. Mi presento e mi scuso per l’irruzione, e dopo una risata e una breve visita in cantina mi accompagna nella saletta degustazione, ben riscaldata, con albero di Natale appositamente decorato, e quindi più ospitale. Una vecchia credenza che conserva una batteria di bicchieri atti alla degustazioni è pretesto – come in tante cantine di produttori che ho visitato – per adagiare bottiglie di vino di altre aziende (bevute, ovvio) di eccezionale qualità.
Jacopo è giovane se non giovanissimo ma pare conosca molto del mondo dell’enologia, ma soprattutto del suo vino e della sua terra. I Fiegl, mi dice, sono una famiglia (di origine austriaca, come il guru della zona, Josko Gravner – che qua scopro pronunciarsi anche ‘Grauner’, secondo pronuncia slovena), di viticoltori da otto generazioni, seppur i primi imbottigliamenti avvengo attorno al 1992. Con 35 ettari sono di poco più grandi di Primosic; tra i più grandi del Collio e sicuramente di Oslavia. Vigneti sparsi, non solo nel Collio ma anche nella piana isontina (Doc Friuli Isonzo). Molte etichette anche qua e quindi decisione forzata. Tra le due linee più importanti, la ‘Fiegl’ per i vini classici, o ‘base’ che dir si voglia, e la ‘Leopold’ per i vini di più lungo affinamento, più importanti.
Decido naturalmente di cominciare con una Ribolla gialla di annata, molto varietale ancora, dal profilo leggero; poi un Friulano, molto beverino ma con una accentuata sapidità, caldo (non per la temperatura di servizio che è perfetta, bensì per quel tono avvolgente, effetto tattile dato dai polialcoli), e poco più articolato del primo. Bevo poi una piacevolissima Malvasia istriana, appartenente alla famiglie delle malvasia, ma molto meno stucchevole, meno aromatica, se vogliamo più secca, e sicuramente molto, molto minerale. Per effetto dell’aria che arriva dall’Adriatico e del particolare suolo, questa Malvasia, seppure presenta caratteristiche più morbide e meno spigolose rispetto agli altri bianchi risulta, non dico salina, ma sapida e molto lunga.
Jacopo ha una bella chiacchiera, e nel suo disquisire è pure coinvolgente; quindi lo ascolto volentieri mentre mi parla del Collio e delle aspirazioni future per la Ribolla gialla locale, e soprattutto della sua azienda e dei suoi vini. “Non vogliamo fare vini stucchevoli”, mi spiega confermandomi ciò che ho intuito dagli assaggi, “non vogliamo che i nostri vini stufino; l’acidità, la freschezza, la verticalità sono un marchio di fabbrica; vini troppo pieni, materici sono un difetto”. E leggiadro e snello trovo pure il Sauvignon: un vino che è per me la sorpresa della cantina. Non trovo in questo vini l’agrumato solito; sì, forse leggermente. Non percepisco note erbacee, scorbutiche e neppure l’opulenta e saziante nota di albicocca matura. Questo Sauvignon emana un finissimo e rinfrescante sentore balsamico, che va dalla mentuccia alla melissa, al dragoncello. “Questione di vinificazione”, mi dice, e poi si spinge nel dettaglio con paroloni chimici (dalle metossipirazine ai vari tipi di lieviti) che mi suonano come formule alchemiche, e che cerco di rimuovere il prima possibile.
Passa in rassegna poi la linea ‘Leopold’, il cui nome vuole essere un omaggio a Leopold Fiegl, omonimo politico austriaco che nel Dopoguerra ha contribuito alla costruzione dell’Austria, o almeno cos’ dice lui. Il primo vino è un assemblaggio di Ribolla gialla, Friulano e Malvasia dal nome molto semplice, ‘Cuvée Blanc’, dove prevale il frutto giallo; un vino molto intenso, e degno di interesse.
Mantiene la filosofia dell’azienda il loro macerato (per ora l’unico in commercio). Questa Ribolla Gialla di Oslavia (questo il nome) infatti, con venti giorni di macerazione, è molto delicata, ‘pettinata’; è “un orange wine d’entrata”, mi avverte Jacopo, “insolito rispetto a quelli che fanno qui intorno; è un avvicinamento al mondo dei macerati”. L’estrazione c’è e si sente, o meglio, si avverte in modo delicato. Molta frutta, soprattutto albicocca disidratata e fievole sentore come di amaretto.
Già che siamo in tema (la discussione – ma farei meglio a dire il soliloquio di Jacopo – nel frattempo si è animata), e di macerazioni si parla, mi tira fuori da non so dove una chicca, ancora senza etichetta e senza nome: un vino con più lunga macerazione, più lungo affinamento, e lunga maturazione del frutto in pianta prima di esser vendemmiata. Un vino intensissimo, strutturato e carnale, meno ‘pettinato’ del precedente e più ruspante. Un cru, mi dice, a tiratura limitata, “dalla curva evolutiva ampia, perché si porta dentro tutti i componenti; tutto quello che l’uva di buono può dare è stato preso”. Un vino con un potenziale strepitoso, con l’unico difetto di essere stato ancora poco in bottiglia.
Chiudo la degustazione (o bevuta) da Fiegl con il loro vino di punta, il Merlot. Vino elegantissimo dalla lunga maturazione e evoluzione in legno (sei anni); succoso dai toni tostati quanto bastano. Un gran bel vino.
La Castellada.
Se ho parlato di soliloquio per Jacopo Fiegl, per Nicolò Bensa, fondatore dell’azienda La Castellada insieme al fratello Giorgio, utilizzo il termine vero e proprio di oratio, nella mera accezione antica. Per giungere a questa destinazione anche il navigatore è stato vano. Non un’insegna, non una indicazione minima; fortuna che a Oslavia le cantine sono tutte a fianco della strada e sul ciglio del colle (per usare un’espressione di Soldati). Dopo vari avanti e indietro con l’auto trovo una persona di passaggio (cosa rara) che mi indica la retta via. L’azienda è molto esigua, direi umile, assolutamente non vistosa, per nulla eclatante, spartana e direi nascosta. La struttura mi ha ricordato quella di Walter Massa a Monleale: casa contadina standard, dove al piano nobile abita la famiglia dei vignaioli, e sotto al piano terreno, o seminterrato c’è la cantina con tanto di vasche, botti, e macchine.
Mentre dal cortiletto sono perso alla vista dei continui sali e scendi collinari, una signora intenta a stendere, della cui presenza non mi ero accorto, mi chiede bonariamente se sto aspettando qualcuno. Replico affermativamente, ho appuntamento con Nicolò Bensa, il fondatore dell’azienda e tra i primi ‘visionari’ che hanno reso il Collio quello che è oggi.
Questi esce con pacatezza dalla cantina (è evidente che è sceso da casa passando per qualche scala interna), e dal passo intuisco subito che è lui, seppur non lo abbia mai visto prima. Si avvicina calmo e allo stesso tempo fiero, con una felicità interiore di chi dalla vita è stato ricambiato come voleva, un uomo abbastanza anziano, soddisfatto del suo lavoro; questo mi pare ovvio. Mi saluta e si presenta, i modi sono affabilissimi, educati e solenni; il che fa un certo contrasto con la divisa che penso si immutata da anni, scarponcini, camicia a quadri, cappellino pesante. Rubizzo, stampo da agricoltore e energia da vendere. Le linee del volto, seppure quelle marcate delle vecchiaia, sono tutt’altro che dure e irrigidite; gli occhi azzurri e vispi emanano un moto vivo e sono sinonimo di lucidità, oltreché rivelare una grande passione radicata da chissà quanto tempo.
Un preambolo che suppongo necessario. Perché a seguito del breve saluto il signor Bensa si apre in una parabola senza ritorno in cui la storia dell’azienda si mescola a quella del Collio, alla viticoltura italiana, alla viticoltura biologica, all’economia, alla chimica… Un’orazione vera e propria che io, seppur stretto coi tempi, ascolto quasi magnetizzato. Nicolò è un vero retore, e mentre parla quasi mi compare sul suo viso l’ombra di Renato Barilli, che ci assomiglia per loquacità, per fisionomia e per modi di gesticolare; uguale il modo di parlare (linguaggio fluido e sciolto), e simile l’arte della divagazione (il professor Barilli lo chiamano il ‘Dottor Divago’ per la dote assai rara di passare con competenza di palo in frasca durante lezioni e conferenze).
Sulla semplicissima e malposta domanda: “i vigneti qua sotto sono vostri?” i temi toccati sono stati, non in ordine e in un arco di tempi indefinito: cenere come protezione della uva in pianta; viticoltura della Mancia e vini spagnoli di un suo conoscente; le famiglie di origine austriaca di Oslavia; la rapa acida; consiglio di ristoranti e piatti tipici; conservazione del grasso del maiale; wasabi; ossidazione buona e ossidazione cattiva nei vini; Walter Massa; il Giappone il gusto dei giapponesi; evoluzione in barriques dei vini. E poi qualche passaggio credo di essermelo perso sicuramente, e tutto non sono riuscito a annotare.
Tornando alla Castellada, gestita ora dai due nipoti di Nicolò, e figli di Giorgio, conta poco meno di dieci ettari, con una produzione di circa 20.000 bottiglie l’anno. Il nome della azienda è un toponimo e non c’entra nulla con ‘castello’: si tratta di una collina lì vicino dove tengono il maggior numero di vigneti. Ciò che mi risulta lampante è l’amore per la terra e per la natura di Nicolò. Ricordandomi un po’ Barbara Avellino di Rovescala, mi dice tonante (il “tonante” perché si stava parlando di produzione vinicola massificata): “non hai 10.000 piante per ettaro, ma hai 10.000 individui diversi tra loro… Il segreto per un buon vino è conoscere ogni singolo individuo”. Una filosofia da Buon-Pastore, applicata alla viticoltura.
I vini de La Castellada affinano tutti in legno, piccole o medie botti. Il perché me lo spiega (divagando, naturalmente). In poche parole, il legno “può preservare una flora batterica, cioè dei residui di materia viva, che interferiranno positivamente negli anni seguenti”.
Avrei voluto assaggiare un vino significativo tra le etichette offertemi. Poi però, trasportato dalle sue parole, li assaggio tutti. “Prediligiamo la consistenza”, mi confessa Nicolò Bensa, “la sapidità, la corposità, anche a discapito di fattori come acidità”. Vini profondi, meditativi, che hanno da dire addirittura più di chi li fa… e spero di aver reso almeno un po’ l’idea.
Radikon.
Uno strano ‘tepore’ comincia a pervadermi, ma considerato che è dicembre forse tepore non è. Comunque scalpito perché il prossimo appuntamento è in Località Tre Buchi, numero 4, e l’azienda è quella di Radikon. Radikon! Pazzesco. Da anni è per me un mitologico vino che ho bevuto in modo del tutto fortuito in occasioni ancora più disparate, in annate diverse, contesti diversi, predisposizione più o meno adatta. Mai una volta che uno di quei vini mi abbia evocato anche solo lontanamente il precedente medesimo, eppure, ogni volta, a ogni bevuta o meglio assaggio, la sensazione è stata quella di bere qualcosa di mistico, contemplativo.
Il parcheggio è ampio e anche questa azienda dà sulla strada da una parte, e sui vigneti declinanti (esposti a sud) dall’altra. Al mio arrivo il sole già accenna a tramontare, e la visione che mi si presenta d’innanzi è un affresco tardo-mediovale, in una rivisitazione che si addice pienamente ai nostri giorni. L’affresco a cui penso è il mese di settembre del celebre ciclo dei mesi della Torre dell’Aquila, castello del Buonconsiglio, Trento. Discendendo dal parcheggio arrivo in un cortiletto ben tenuto, dove ho una deliziosa visione. Due ragazze, forse due cariti in forma agricola – o forse amazzoni in tempo di pace –, lavorano attorno a un tino pieno d’uva; una terza, idem come sopra, sta manovrando un trattore. È quest’ultima che si fa incontro, con lei ho appuntamento.
È Ivana Radikon, sorella di Saša e figlia di Stanko, il visionario produttore di vini a lunga macerazione (così il Gambero Rosso: “produttore controverso, estremo e geniale, tra i papà degli orange wines del Collio friulano insieme a Josko Gravner”) mancato nel 2016.
Dopo una breve saluto e un’ancor più breve presentazione mi invita a fare un giro tra le vigne. Realizzato che quella che ho di fronte non è Demetra, né sono in un harem felliniano versione vitivinicola, la seguo e comincio a ascoltare. È giovane, ma nonostante l’approccio recente al mondo del vino è molto preparata. Mi illustra le vigne, che hanno una pendenza sorprendente; mi fa notare il particolare sistema di coltivazione ‘a candelabro’; mi spiega il metodo di potatura che è quella della scuola di Marco Simonit e Pierpaolo Sirch (“Metodo Simonit&Sirch”, appunto), una particolare potature che allunga il ciclo vitale della vite rendendone più sana la pianta. Ivana è molto pratica, asciutta ma esaustiva; direi molto laconica, e dunque chiara. Mi parla con riguardo come nessuno prima del particolare suolo che in quelle zone si può riscontrare, ossia la Ponca, un terreno in cui si alternano marna e arenaria, e a cui il Collio deve la propria identità.
Le varietà coltivate nei 23 ettari complessivi, e talvolta nello stesso appezzamento, sono quelle già viste sul Collio: ribolla gialla, friulano (anzi, tocai: orgogliosamente qua la varietà tiene il nome originario, prima che l’imposizione normativa impedisse all’Italia tale nome per la somiglianza con Tokaj, in Ungheria, e il famoso vino dolce che qui si produce), chardonnay, pinot grigio, sauvignon, merlot e una sorpresa, il pignolo, una varietà rossa locale che dà vini molto concentrati e tannici.
Dopo aver visto anche la cantina con i tini in rovere di Slavonia dove i prodigiosi vini prendono piano piano vita, sono condotto in una sala degustazione dotata di una vista estatica sul territorio: filari che scendono e salgono, scaldati da una luce calda di un sole che ormai è stanco, e scende. Cominciamo a officiare (anche questo termine lo rubo a Soldati, ma mai è stato usato meglio, credo) e, nemmeno a dirlo, i vini offerti me li bevo tutti con calcolata avidità. Tre le linee di produzione in base ai tempi di macerazione: la Linea S con una macerazione più esigua, circa dieci giorni, la Linea Blu, che arriva anche a quattro mesi e le selezioni.
Le selezioni, ossia il Merlot e il Pignolo (chiamato “Pignoli”, con “i” finale per futili questioni burocratiche) sono vini dionisiaci. Ma è con i macerati bianchi che lo spirito è appagato e una nuova forma di serenità mi si forma tutta dentro. La Ribolla prima, poi Oslavje (ossia Oslavia, in ricordo dell’origine slovena della famiglia) e infine Jakot, dal nome provocatorio (semplicemente “Tokaj” letto al contrario). Vini inebrianti, dai milleeuno profumi e milleeuno sapori. Mi riappare Demetra, iniziano le visioni. Prima che scappi un ditirambo rivolgo i miei ossequi, e, facendo attenzione a non svegliare Sileno, torno all’auto.
Damijan Podversic.
Un’ultima, importante destinazione m’impone solerzia. Devo raggiungere la nuova cantina di Damijan Podversic che dista una ventina di minuti da dove sono, per stradine di campagna. È un’altra collina rispetto a Oslavia quella che devo raggiungere; quindi torno a Lucinico e mi inoltro, salendo, o meglio arrampicando, sul Monte Calvario. Nome prolettico, esemplificativo: una serpentina strada di curve, di buche, di terra che forse una volta era asfalto conduce in un lugubre bosco, ascendendo verso una fine che non si sa dov’è. Una strada iniziatica, che solo il puro discente del vino deve percorrere – faticando – se vuole abbeverarsi alla fonte: questo il messaggio, penso mentre mi avvicino. A un certo punto il bosco si infittisce, si fa buio, la strada si raddrizza facendosi pianeggiante. Un istante dopo ecco la meraviglia. Sul crinale di una collina perfettamente lavorata, in cui da una parte e dall’altra filari di vite disegnano regolari prospettive verso fondo valle, una struttura sinuosa e in conciliazione con l’ambiente circostante mi dice che sono giunto da Podversic.
Anche qui una ragazza (oggi sono fortunato) mi viene incontro con un passo placido e dei modi così distesi che appacificherebbero anche la persona più irrequita. È Tamara, figlia di Damijan, unica dei tre figli come mi dice che lavora in azienda. Capelli chiari e occhi chiarissimi, dalla parlata fluida e soave, mi accompagna nella parte alta dell’edificio, l’unica parte completamente fuori dal terreno. Qui mi spiega non senza pathos la storia travagliata di Damijan e sua moglie, delle fatiche patite nei primi anni quando la vinificazione avveniva in edifici scomodi e lontani dai vigneti; fino ai primi risultati, al riconoscimento internazionale dei vini e alla nascita, recente, della nuova cantina.
Questa è un piccolo capolavoro di architettura: l’autore è Ignazio Vok, come lo definisce lo stesso Damjan, un visionario, “architetto di professione e passione sempre alla ricerca del bello, anche nei minimi dettagli”. Si tratta di una struttura essenziale e minimalista a ellisse, che a sua volta all’interno è suddivisa in tre ellissi più piccole. E questa soluzione, oltre che a una funzione estetica, è proficua anche per questioni pratiche, come mi riferisce la mia ospite.
Tamara mentre passeggiamo e guardiamo giù verso i vigneti, attraversati da un leggero riflesso arrossato, donato da un sole ormai arreso che si divide all’orizzonte, torna a parlarmi del terreno, della Ponka, che è come un “cracker friabile” mi dice. Fattosi completamente notte mi conduce in cantina, dove una serie di tini dai 20 ai 48 ettolitri perimetrano l’area.
Tamara entra nel vivo cominciando a parlare dei vini prodotti a partire dai quasi 12 ettari di vigneto di proprietà, molti dei quali appena osservati lì attorno. La sua voce si fa ancora più suadente e lenta, dal timbro sempre più basso e monocorde; il tutto acuito dall’eco della sala. L’atmosfera soffusa poi rende il colloquio ancora più cerimonioso. E allora ascolto questa Vestale di Bacco in religioso silenzio, perché le cose che dice sono puntigliose.
I vini che assaggio sono prelevati tutti direttamente dalle botti; li assaggio cioè in versione più o meno fresca, senza affinamento. Inutile dire che già si riconosce il potenziale, e altrettanto sterile sarei se dicessi che tutti i vini che ho assaggiato hanno una qualità notevole. Bevo, in ordine: Kaplja (ossia ‘goccia’ in sloveno, omaggiando l’origine slovena della famiglia), un assemblaggio di chardonnay, friulano e malvasia, un vino che fermenta in presenza delle bucce dai sessanta fino ai novanta giorni. Evolve in botti da venti o trenta ettolitri per tre anni e affina almeno un anno in bottiglia. Grande raffinatezza, grande sostanza, grande eleganza. Lunghi affinamenti anche per il Nekaj (friulano) e per la Ribolla Gialla. Eguale il risultato.
Soggiogato dalle ultime parole di saluto di Tamara, pasciuto dalla giornata sul Collio, riprendo la via del ritorno: più leggero; e forse sì, anche leggermente alterato.
Dal 27 al 29 novembre 2021 si è svolto il decimo Mercato dei Vignaioli Indipendenti (Fivi), presso l’Expo della città emiliana. È una fiera, questa, diversa dalle altre (come Vinitaly o Merano Winefestival). In primo luogo perché si può comodamente noleggiare un carrello e acquistare, dopo averlo assaggiato, il vino desiderato, direttamente dal produttore. Si parla con il vignaiolo (almeno, nella maggior parte dei casi: talvolta, con le aziende più grandi, si ha a che fare con i responsabili marketing, a esempio Gianfranco Fino); e i modi sono meno formali, “terra-terra”, per così dire.
Altra differenza sostanziale (non per noi che beviamo, ma per loro che vendono) è quella di pagare lo spazio espositivo in relazione agli ettari vitati (cosa che come capisco piace molto a tutti). Questo spazio poi è uguale per ogni azienda: 1 vale 1, e quindi ogni produttore ha a disposizione uno spazio che equivale a quello di un tavolo (circa 170×50 cm), disposti consecutivamente su più file, in un unico, enorme padiglione – diversamente dal Vinitaly quindi, dove più paghi e più lo stand è grande.
È una fiera poco “didattica” in cui però ci si diverte; non ci sono regole di disposizione (come la classica divisione per regioni), dove si può trovare uno dietro l’altro: Sagrantino umbro, incrocio manzoni trentino e gaglioppo calabro. Un esercizio per le papille gustative, diciamo così.
È un mercato dedicato al pubblico privato, per persone non del settore (ristoratori, stampa, sommelier) e lo capisco dall’attenzione che questi vignaioli dedicano ai molti, famiglie comprese, con il carrello. È, soprattutto, un evento di vignaioli per vignaioli: c’è scambio, confronto tra loro, un modo di ritrovarsi e aggiornarsi sul’annata; un reciproco rapporto di fratellanza che si ripete e si rinnova.
Nel complesso ho degustato qualcosa, appreso novità e bevuto molto, e talvolta molto bene. Di seguito qualche appunto di degustazione dei migliori vini assaggiati e dei vignaioli conosciuti (non esaustiva, chiaro).
Piacenza. Lì, 27-29 novembre 2021.
Voglio iniziare andando sul sicuro, e quindi bevo il Mat della Cantina Concarena, un riesling camuno di espressività notevole e carattere (è un riesling parzialmente botritizzato); vino di punta del giovane vignaiolo Enrico Angeli. Lì vicino c’è Paolo Pasini dell’azienda omonima, direttamente dal cuore della Valtenesi; i vini già li conosco quindi bevo il suo straordinario metodo classico rosè Ceppo 326, un dosaggio zero che mi stimola l’appetito (e la sete).
Klinger, trentino. Azienda abbastanza recente, nata solo dal 2018; Lorena Pilati (è un’azienda di famiglia, di cognome fanno tutti Pilati) mi fa assaggiare le 3 etichette al momento disponibili (uscirà un Trento Doc). Tra tutte annoto un gewürztraminer interessante, molto minerale e fresco.
A seguire, lì a fianco (!) vengo a tu per tu con l’azienda agricola Il Ghizzo (Piacenza, Val Nure) e in particolare coi sui 3 tipi gutturnio: vivace, e superiore, e riserva. Molto interessante la riserva, tosta ma comunque piena e fresca.
Thomas Niedermayr. Una simpatica realtà di San Michele Appiano (vicino a Bolzano), che produce quasi tutti vini da Piwi, ossia da varietà resistenti. Mi piace subito il sauvignern gries molto rotondo e profumato eppure delicato. Tutti i vini sono sui 13-14 gradi. Non mi dice niente il solaris, che fa parziale fermentazione sulle bucce. Nel complesso sono bei bianchi, molto intensi e caldi, molto alcolici e strutturati. Il sonnrain, parente del gewürztraminer, è molto, troppo aromatico. Notevole, invece, il pinot bianco 2017 con alle spalle un prolungato affinamento (acciaio e bottiglia). Un commento meritano pure le etichette, una grafica molto raffinata e essenziale basata su texture decorative.
Incontro poi Vosca, un’azienda relativamente piccola, al confine con la Slovenia. Bevo una ribolla gialla molto leggerina, un friulano di carattere, una malvasia delicata e lunga, e per chiudere (in bellezza) un riesling rotondo, minerale (e fresco).
Se trovo bonarda frizzante mi fermo sempre, quindi mi trattengo dall’azienda Il Molino, produttori di Rovescala (Oltrepò) e bevo una Bonarda frizzante molto vivace e una bonarda ferma, nella loro linea classica. Poi della linea più alta, i cru, bevo Olive di Levante, rosso frizzante base croatina e 8 mesi di rifermentazione; un corpo pazzesco e una bolla piacevolissima. Altro grande vino dell’azienda, che è un altro cru è Povromme, ossia “povero uomo”, riferito al contadino che lavora quel campo (i vigneti nell’Oltrepò hanno una pendenza elevata): una croatina ferma intensa ma non scorbutica, rotonda (il tannino è levigato, pare setoso). Annoto subito con un *.
Non ho un ordine logico, se non scorrere di tavolo in tavolo. Così ritrovo Rado Kocjančič (San Dorligo della Valle, Trieste) e mi fermo. Vitovska fresca e mineralissima. Malvasia istriana 4 giorni di macerazione e 1 anno di legno grande, delicatamente aromatica, è idem molto mineralite. Poi Brezanka, un blend di 15 varietà e 1 anno di botte, vigne storiche: un bianco intenso, rotondo e caldo, grasso e largo che sicuramente devo mangiarci qualcosa. Ma rimando, perché mi offre Pasik, che è un suo particolarissimo passito da moscato giallo.
Lupinc (Prepotto, Trieste). Qua bevo sicuramente uno dei due rossi che più mi hanno impressionato in questi giorni (l’altro è un cru di Maccario, un rossese di Dolceacqua). Si tratta di un terrano, 2018, leggero frutto appena accennato, profondo, lunghissimo, carsico (a pensarlo lo sento ancora in fondo alla gola). Lo bevo dopo una vitovska, 14 giorni di macerazione, epperò molto delicata e per niente invasiva.
Ritorno al Gutturnio, con Barattieri (Val di nure, Albarola, Piacenza), classico taglio 60% barbera e 40% croatina (bonarda, come la chiamano loro), gustoso con acidità elevata. Bevo poi un incantevole Vin Santo, appassito da malvasia aromatica di candia: un nettare succoso e profondo, dai profumi evocativi e esotici di datteri e frutta candita. Appassimento su dei graticci per 4 mesi circa, 8 anni in caratelli 2 in bottiglia. Eccezionale.
Ci passo davanti e non posso snobbarlo, Graziano Prà. A servire c’è il figlio; mi limito a bere il Soave d’annata e il Soave 2016, cru del Colle Sant’Antonio, il quale raccolto passa 2 anni in botte grande, più affinamento in bottiglia, prima di entrare in commercio.
Zohlhof, Valle Isarco (Chiusa), Alto Adige. Piccolissima realtà di circa 3 ettari o poco meno, 10.000 bottiglie di produzione, praticaemnte quanto bastano per il Mercato Fivi penso. Bianchi della zona (come Sylvaner), molto minerali e freschi.
Faedo (Trentino) è un paese piccolissimo poco sopra San Michele all’Adige eppure sono presenti quasi 5 aziende atte alla produzione del vino. Pojer e Sandri è quella più rinomato; oggi però scopro Graziano Fontana, una azienda familiare da circa 20.000 bottiglie l’anno. Bevo vini d’annata e diffusi nella zona, muller thurgau, sauvignon, chardonnay, pinot nero e lagrein.
È grande gioia quando vedo aziende friulane (e goriziane), soprattutto se non le conosco. La bella sorpresa è Ferlat (Cormons, provincia di Gorizia). LA sorpresa della sopresa sono i suoi due pinot grigi macerati (che non sono ramati, ma proprio arrossati). Fruttatissimi di lampone, avvolgenti, vini eleganti oltre che divertenti. Il prima, la “base” fa solo 7 giorni di macerazione, il secondo è una riserva dedicata alla figlia, il nome è infatti Rosa Carlotta, caratterizzata da un’etichetta molto bella che colpisce l’occhio immediatamente. Della stessa azienda trovo notevole il verduzzo, in versione secca (comunemente è utilizzato per vini dolci),il quale fa 7 giorni di macerazione e 1 anno di botte: molto erbaceo e grattante, ma il cui abbinamento al cibo potrebbe essere molto curioso. Anche il moscato fa 7 giorni di macerazione e, inoltre, cosa ghiotta, passa un anno in botti scolme. Una bella chicca.
Di palo in frasca come mai; dopo il Collio passo al Cilento. Luigi Maffini, Giungano, Salerno; vicino a Paestum. E infatti i nomi si richiamano tutti alla tradizione dell’antica Grecia. Kratos è un fiano molto elegante; Pietraincatenata, è sempre fiano ma che passa in barriques, il nome deriva da una leggenda di un paese vicino, Trentinara, e è interessante quanto il vino stesso. Poi bevo l’aglianico nelle 3 versioni che producono3 etichette. Kleos la “base”, Cenito, dal nome della località, che matura 10 mesi in barriques di primo passaggio, il cui risultato è un tannino sì molto marcato ma anche smussato, con una confettura di frutta rossa notevole. Per ultimo il Siopé, ossia “silenzio”, e si riferisce al silenzio presente in vigna dove nasce questo cru, località Giuliano.
Vedo Marco Comai dell’azienda agricola Comai di Riva del Garda, conosco già i prodotti e provo a resistere e so che si va sul sicuro (per altro ho assaggiato di recente le nuove annate); tuttavia, come sempre succede sono debole e ci casco, e inoltre, come si dice, repetita juvant. Bevo il suo prodotto più recente, un rosso da taglio bordolese classico, che non credo sia nemmeno in commercio, sicuramente non ha ancora nome e nemmeno etichetta: solo l’essenza: grande carattere, un imponente contenuto, un grande potenziale; il resto è ausiliario.
La psicoanalisi mi sta sulle balle, Freud non lo sopporto, ma da Gianfranco Fino mi fermo a bere lo stesso. Assaggio il Se, primitivo vigna giovane, e già mi soddisfa; Es, primitivo per gaudenti è vino per gaudenti, mi rasserena. Io è un negroamaro dalla nota fortemente balsamica. Infine, assaggio il suo Primitivo dolce naturale, dolce e tannico allo stesso tempo; molto interessante e non credo ci sia questo bisogno di abbinarlo per forza a qualcosa.
Lì di fianco sta Gabriele Furletti della Cantina Furletti, Riva del Garda. Conosco e bevo già i suoi ma non ho assaggiato le nuove annate quindi ne approfitto. Beve due strepitosi bianchi, due riserve, pinot grigio e incrocio manzoni. Bevo infine il pinot nero e lo rivaluto, avendo il ricordo di pinot nero dell’anno prima più scorbutico.
Grosjean, Val d’Aosta. Notevoli rossi tipici della zona alpina. Ma sono incazzato perché non mi hanno fatto assaggiare il pinot nero (sostenendo di averlo finito).
I fabbri, zona del Chianti Classico. Li chiamano i “montanari” perché la zona di Lamole si trova a un’altitudine di 450-680 m slm, praticamente la zona più alta dedicata alla coltivazione del sangiovese. Qua assaggio Chianti gustosi e molto fini.
A un certo punto vedo due angeli che servono vino e affabilmente lo spiegano; pensavo di avere una visione invece scopro che sono le due ragazze della cantina Mustilli, le figlie dei proprietari, preparate quanto aggraziate (una delle due sembra uscita da un quadro di Raffaello). La cantina si trova in provincia di Benevento e produce dei strepitosi vini sanniti, dai propri 15 ettari. Bevo falanghina, versione bianco fermo e poi metodo ancestrale; un greco, molto tondo. Degno di nota è il piedirosso, sia nella versione classica che in quella riserva.
Messnerhof (Bolzano), che già conosco e so che è una cantina piccolissima (2,5 ettari). Poche bottiglie ma tutte di media qualità. Il sauvignon è fragrante e succoso.
Passeggiando scorgo Cristina Inganni e dunque non posso non fermarmi a salutarla, anche i vini di Cantrina li bevo spesso; con il fascino che la contraddistingue mi serve il rosso di struttura Nepomuceno, nell’annata appena uscita in commercio (2017), che mantiene la balsamicità che già conosco e il pinot nero, polposo e intenso, che ancora non sa se far uscire (nel frattempo mi tengo pronto).
Con Pojer e Sandri sarò veloce perché non c’è dire poi chissà che; già si sa. Bevo muller 2020, Faye bianco, Faye rosso, e Essenzia (che non ricordavo, e che quindi mi ha colpito in modo estremamente positivo come la prima volta che l’ho bevuto).
Castel Juval (Naturno Val Venosta, Alto Adige), idem come sopra. Riesling forse tra i più equilibrati in Italia.
Nello spazio che ospita la Cantina del Vesuvio una ragazza incantevole mi serve Lacryma Christi in versione bianco (100% caprettone) e rosso (100% piedirosso). Vini ottimi sia nella linea classica che in quella riserva (che matura in botti di legno).
Di sfuggita passo da Picchioni (Canneto Pavese, Oltrepò), perché tutti i suoi prodotti sono di notevole qualità e quindi non si può non approfittarne. Però sono bravo e (ri)assaggio la sua selezione di Buttafuoco, Bricco Riva Bianca.
A circa 100 m di distanza riconosco un sorriso singolare che ben conosco, stampato su una faccia che non si dimentica; è sicuramente Davide Lazzari della cantina omonima di Capriano del Colle (Brescia). Sono patriottico e allora con vado a salutarlo approfittandone per bere il suo Bastian Contrario (trebbiano botritizzato) a cui segue un Fausto vendemmia 2016.
Piero Pan è tappa obbligatoria, per la freschezza e la mineralità dei suoi vini. Soave classico 2020, 85 garganega e 15 trebbiano. Calvarino cru, 70 garganega 15 mesi in cemento. Piro Pan è un’azienda piuttosto grande, 70 ettari e 650.000 bottiglie prodotte l’anno. La signora Pan è molto affascinante, elegante e distinta. Assaggio anche Valpolicella e Amarone (della cosiddetta Valpolicella “allargata”) ma non mi entusiasmano.
Torno nel bresciano e assaggio i riesling dell’Agricola Valcamonica in una mini ma preziosa verticale 2018, 2017, 2015 e infine, a sorpresa, un 2013. Bevo inoltre della stessa azienda l’incrocio manzoni, il Piwi sauvigner gries, e un opulento marzemino, che però non mi emozionano come i riesling.
Torno nella Piacenza collinare, in Val Nure, perché scorco in tralice la celebre azienda La tosa. Lo stesso Stefano Pizzamiglio, proprietario tanto modesto dai modi semplici mi fa una rassegna dei suoi prodotti. Tutti dimostrano qualità notevole; segnalo per mio gusto personale il Gutturnio frizzante Terrafiaba.
La sardegna del vino è molto varia e tutta allo stesso modo meritevole di assaggio. A Nuoro c’è una bella concentrazione di vini eccelsi. Qui al mercato vedo Berritta Dorgali e quindi faccio tappa. Bevo il panzale, un bianco autoctono dalle notevoli potenzialità di invecchiamento; senza tralasciare le loro varie interpretazioni di cannonau.
Valla Viticoltori (Piacenza, Val tidone, confinante con l’Oltrepò). Bevo un ottimo Ortrugo (“Dieci Lune”) rifermentato in bottiglia, un giorno di macerazione, da cui ne deriva una bella matericità un carattere personalissimo. Interessante anche il Gutturnio (“Come una volta”) rifermentato, 15 giorni macerazione.
Da Cesconi sorvolo, avendo in programma una visita direttamente in cantina; però non sono un allocco e mi permetto l’assaggio del loro vermuth Lynx. Un vino (il vermuth è vino, seppur aromatizzato) da uve lagrein ecaratterizzato da infuso di artemisia. Delicato e strutturato insieme; note officinali e invitanti. Perfetto credo per qualsiasi occasione e qualsiasi momento del giorno.
Ancarani. Qui scopro una bella azienda, sita tra Faenza e Forlì. Assaggio un trebbiano rifermentato Indigeno. Bel rifermentato, con sentori di lieviti e non riduzione (zolfo). Famoso Le signore, aromatico, molto fruttato come di albicocca, (il vitigno famoso è della famiglia delle malvasia). Poi Albana Perlagioia molto più grasso e caldo. Santa Lusa, albana che cresce sulla sabbia, con un po’ di macerazione sulle bucce che conferisce una tannicità leggera. Andataeritorno macerato, stile ossidativo, albana e famoso con piccola percentuale di trebbiano. Infine il centesimino (stessa famiglia del cannonau e della grenache in genere), un rosso appena speziato, dal tannino morbido; caldo, floreale, dotato di un leggero accenno di frutta rossa.
Da Maccario Dringenberg (San Biagio della Cima, Imperia) bevo il rosso più sorprendete della giornata (non perché sia il più buono, ma perché le aspettative della zona e del vitigno erano bassissime). Una bella signora mi serve di seguito 6 vini da sei bottiglie diverse con etichette nobilitanti, facilmente riconoscibili. Sono tutti vini rossi da uva rossese, varietà a bacca rossa tipica della Liguria. La differenza sta nei terreni. Infatti le 5 etichette (la sesta è un assemblaggio) rappresentano 5 diversi cru (il rossese è marcatore di territorio, mi spiega la signora, come può essere il nebbiolo). Bevo allora Settecammini, Posaù, Namenlos da terreni calcarei; Luvaria da un terreno argilloso (e questo è il mio preferito) e Curli da zona più minerale e ferrosa.
Della cantina Mos (Valle di Cembra,Trentino), bevo un riesling e uno chardonnay; ma segnalo le importanti e ben fatte etichette in onore di Fortunato Depero.
Dal 5 al 9 novembre si è svolta la trentesima edizione del Merano Winefestival. Un’edizione contingentata per il covid e minorata rispetto agli anni precedenti, e che proprio in virtù di questo non è andata male, anzi! Un numero ristretto di persone significa più utenza selezionata, quasi se non completamente del settore, tutt’al più sinceri appassionati e quindi conoscitori medio-buoni. Un numero basso significa soprattutto meno baccano, più convivialità tra degustatori e ambiente più vivibile. Non a caso, questa esperienza sarà esemplare (così ci annunciano dall’ufficio stampa) anche per le successive edizioni: nel 2022 – già definite le date dal 4 all’8 novembre – si aspira a un massimo di 1500 persone al giorno.
Kurhaus
Per chi scrive sono stati giorni intensi, di divertimento e insieme di conoscenza, di didattica e al contempo svago. Ma, in breve, è della giornata di martedì il mio ricordo migliore. Anche se ero abbastanza acciaccato dalla giornata precedente, ancora imbottito da quei pochi toscanoni che mi son concesso – bevuti forse in preda a qualche demòne – e presenti come sempre in gran numero (toscanoni che però attirano un gran pubblico, e mi permettono di bere Collio e Isonzo in tutta serenità), la mattinata è partita al meglio. Cielo limpido che più azzurro non mi aspettavo, sole acceso che evidenziava le infinite sfumature autunnali dei monti attorno a Merano, e brillava riflesso dal candore delle cime innevate.
Una cornice atmosferica ideale all’evento, che meglio non poteva augurarsi il genio di tutta questa incredibile macchina che è il Merano Winefestival, ossia The WineHunter, ossia Helmuth Köcher: praticamente un dandy alto-atesino, un elegante perenne, impeccabile, un connoisseur attento e sapiente, amante – naturalmente – del vino e di tutto ciò che gli ruota attorno.
Helmuth Köcher
Una cornice che ben si abbina nondimeno alla sede dell’evento, la Kurhaus di Merano: un edificio elegantissimo, costruito in varie fasi tra Otto e Novecento, in pieno clima di Secessionismo viennese (infatti l’architetto che progetta la rotonda e la sala principale, la cosiddetta Kursaal, appartiene allo Jugendstil) e dove nella stessa Kursaal si è tenuto, il 23 novembre 1969, il congresso della Südtiroler Volkspartei durante il quale è stato approvato il cosiddetto pacchetto per l’Alto Adige, e quindi l’autonomia della provincia.
Ma i motivi della mia visita, e sicuramente di tutti i miei colleghi, alla Kursaal sono più edonistici e meno politici, chiaro. Il martedì, fanalino di coda della manifestazione meranese, è dedicato alla Francia e allo Champagne (con qualche stralcio malamente posto di bollicine italiane): il cosiddetto Catwalk Champagne, evento cardine accompagnato dalla sezione bio&dinamica Naturae et Purae nelle salette adiacenti.
Non che mi aspettassi Salon, Bruno Paillard, Krug, et simila; però un po’ più di ricerca forse sì. Tralasciando gli onniscienti amici di Encry (che bevo sempre volentieri), due solamente le maison che mi hanno entusiasmato, e tutte e due mai bevute prima. Una mi ha attirato perché importata dalla cantina Terlan (quindi per forza doveva esser buono) e soprattutto per la signorina che mi offriva le spumeggianti bolle, una ragazza sorridente e dagli occhi azzurri, di netto stampo mitteleuropeo (Champagne Legras et Haas, Chouilly); l’altra cantina mi ha incuriosito per il numero di bottiglie prodotte, circa 3.000 annue (!), praticamente imbottigliate solo per le fiere, con un solo prodotto che si è rivelato un bellissimo vino (Champagne Gallois-Bouché, Vertus).
Per emozionarmi sul serio però ho dovuto cambiare sala, e girare e rigirare per i piccoli produttori italiani della Nature et Purae. Qua, tra gli altri, segnalo: un Vermentino eccezionale di Tenute Olbios (Olbia), In vino veritas Vermentino di Sardegna Doc 2008, dal sapidità spiccata e dalla gentile aromaticità combinata all’effetto ossidativo dato dall’evoluzione in botti scolme; un Etna Doc Scalunera 2017 (nerello mascalese e nerello cappuccio) di Torre Mora (Catania). E naturalmente i Barolo di G.D. Vajra, presenti con due cru (Ravera e Bricco delle Viole).
In particolare però, nella giornata che esaltava la Francia e le bolle D’oltralpe, ho riscoperto due vitigni autoctoni italiani, mie vecchie passioni, che avevo messo da parte oramai da parecchio, troppo tempo. Ho riscoperto così il tazzelenghe in primis, e poi il verdicchio, nella versione jesina.
Conte D’Attimis-Maniago, Tazzelenghe
Il Tazzelenghe l’ho bevuto nella versione composta e distinta di Conte D’Attimis-Maniago, azienda di Buttrio, Udine. È una delle loro selezioni (insieme allo Schioppettino, al Pignolo e a un bordolese) il cui profumo è immediatamente stuzzicante. Colore intenso che preannuncia un impatto al palato dirompente. Tazzelenghe deriva da “taglia lingua”, e così è stato chiamato per le sue caratteristiche di indomabilità sul piano tattile: acidità e tannino elevatissimi che, se non bilanciati e in armonia col resto del vino, lo rendono scorbutico (un vino per questo di difficile e delicata produzione che mette alla prova il vignaiolo: non lo si smetta di ringraziare il temerario che lo continua a produrre!). Questo di Conte D’Attimis-Maniago mi è parso però molto armonioso e bilanciato, quasi di una piacevolezza esagerata. I tannini e soprattutto l’acidità si sono fatti notare da subito (ho bevuto un 2013) e lo stesso vino dell’annata 1997 ha dimostrato quanto potenziale ha questo rosso imponente.
Colonnara, Verdicchio dei Castelli di Jesi Cuprese
Un altro vino che ha tenuto sorprendentemente il tempo è il Verdicchio dei Castelli di Jesi Cuprese di Colonnara (Cupramontana, Ancona), che ho avuto la fortuna di assaggiare nella versione del 1991. Molta forza, ossia sapidità e freschezza ancora vive, eppure grande gentilezza che si traduce in morbidezza e cremosità al palato; il tutto avvolto da un manto di aromaticità, seppur lieve. Molte caratteristiche che ritrovo, con le dovute differenze, nello stesso Verdicchio di annata. Il verdicchio è un vitigno a bacca bianca che deve il suo nome al colore degli acini, e viene coltivato quasi solamente nelle Marche (dove si può trovare anche nella versione di Matelica). Si presta per diverse tipologie di vino, è adatto sia agli spumanti, ai bianchi di pronta beva e – mio primigenio e ritrovato amore – ai bianchi da lungo, lunghissimo affinamento in bottiglia.
Lunga vita ai piccoli autoctoni italiani, infine! E in particolare in una giornata dedicata ai presuntuosi francesi.
Ogni volta che supero Bolzano, direzione Brennero, mi sento confortato, anzi esaltato da tutte quelle chiesette dal tetto aguzzo come una ago, da quelle case sparse attorniate da un’isola verdeggiante e inclinata, da quegli edifici dal tetto spiovente, spioventissimo come le pendenze vertiginose di questa valle.
La Valle Isarco, infatti, o Eisacktal in tedesco, è un affascinantissimo territorio lungo circa 80 km e percorso dal fiume omonimo, fatto di rocce verticali, antri scoscesi; in cui la mano artificiale e sapiente dell’uomo la si vede dalla lavorazione estrema e estremamente abile dei vigneti: e conferma la superiorità dell’artificio umano (usato con criterio) sulla natura selvaggia. Così, almeno, per me, e per come la vedrebbe Baudelaire.
Sono nel territorio più a nord d’Italia in cui si produce vino, e non è poco. Ringrazio la mia curiosità, il mio interesse (e la mia sete), per avermi permesso di approfondire una tale regione vitivinicola.
Kuenhof.
Il primo appuntamento della giornata è previsto per la piccola azienda familiare Kuenhof, sita qualche chilometro prima di Bressanone. Mi ero preso del tempo qualora non fossi riuscito a trovare subito l’indirizzo, e si sa, passare per ritardatario è il primo dei miei problemi. La strada però per arrivare è facile, e raggiungibile velocemente dopo l’uscita dall’A22. In anticipo decido quindi di fare un giro e mi inerpico – letteralmente – tra i vigneti quasi a strapiombo nei paraggi, e arrivo a Velturno, sede del castello: paesino tipico alto-atesino, scritte in tedesco, facce spigolose e pallide, capelli biondi: che non sono più in Italia mi era chiaro da un pezzo.
L’arrivo in cantina, appuntamento ore 10.00, è confortante. La prima cosa che vedo sono i vigneti che allignano in terrazzamenti dal muro a secco; secondo un crocifisso enorme e ben fatto sulla facciata dell’edificio. Simon, figlio dei proprietari Peter e Brigitte, accogliendomi con un grande sorriso mi spiega che ci troviamo in una sede storica, sia per la Valle che per la produzione di vino. Il maso infatti storicamente era proprietà del vescovo di Bressanone, a cui apparteneva anche il grande crocifisso ereditato che vedo all’esterno.
Il tempo è uggioso e, nonostante il calendario mi dice di essere a metà aprile, il meteo annuncia neve. Non giriamo per vigneti, ma questi sono ben visibili dal cortile del maso; così Simon ci indica lì sopra, con una pendenza spropositata delle antiche vigne di gewürztraminer. Terreni scistosi soprattutto, oltre a quarzo, sono i principali protagonisti per la creazioni dei straordinari vini bianchi che assaggerò.
Simon, mentre ci accompagna per la cantina, ci spiega la storia e la filosofia di Kuenhof. “Prima di renderci produttori indipendenti conferivamo le uve all’Abbazia di Novacella, come tantissimi altri contadini della zona. Dalla fine degli anni Novanta però, prendendo consapevolezza della qualità delle nostre vigne abbiamo deciso di fare il grande passo”. Attualmente Kuenhof possiede circa 6,5 ettari di vigneti, altitudine media tra i 550 e i 680 m s.l.m., con una produzione in annate buone sulle 40.000 bottiglie.
Produzione essenziale, che riscontro nell’architettura dell’edificio: minimal direi, i cui materiali sono solamente legno, cemento, pietra, e ancora legno; legno ovunque. Un’essenzialità nelle varietà prodotte, solo quattro, e nella grafica, a mio parere bellissima, delle etichette. Bianchi estremamente verticali e minerali che passano parzialmente (in base all’annata) in legno d’acacia, “più delicato, non mi dà aromi eccessivi, e fa comunque evolvere il vino in maniera elegante”, mi riferisce Simon, che dal 2007, tra i primi produttori in tutta Italia, ha scelto il tappo a vite: e non uno qualunque, s’intende, ma il massimo della tipologia, ossia lo STELVIN® LUX; molto più efficiente, e decisamente più elegante.
I vini che degusto nella nuovissima sala degustazioni di alto design sono di notevole qualità, anche se ammetto le nuove annate pe me ancora troppo giovani (ma comunque ne intuisco il potenziale). Il Riesling Kaiton, ossia letteralmente “bosco” in lingua celtica, deve il suo nome alla zona di produzione, versante opposto, esposizione sud-ovest. Il Sylvaner è quello in cui sento più il varietale, un vino molto lungo e autoctono del territorio. Notevole anche il Gruner Veltliner, un bianco tipico dell’Austria ma che per le caratteristiche della Valle Isarco è in grado di produrre ottimi vini anche qua. Ultimo vino che assaggio, con sorpresa, è il Gewürztraminer: diversissimo dai suoi simili prodotti in zona Termeno, molto più lineare, speziato, fresco; meno opulento e decisamente più bevibile.
Abbazia di Novacella.
Complesso strepitoso e immenso, a nord di Bressanone, ancora attivo e fortemente vissuto. Si tratta di una abbazia agostiniana, formata da edifici religiosi e civili. La storia di questo istituto è ricca e complessa, a partire dall’anno di fondazione, il 1142, grazie al beato vescovo della diocesi di Bressanone, Hartmann. Già da allora si cominciò a produrre vino, e proprio per questo l’Abbazia è considerata tra le cantine più antiche d’Europa; esattamente la seconda, essendo la toscana Ricasoli fondata un anno prima.
Ci si perde quasi, senza cartina o indicazioni. Infatti, rapito dalla curiosità mi sono lasciato andare allo smarrimento, e ho fatto bene. Molta cultura, tanta storia, tantissima arte. C’è un cimitero curatissimo, una basilica sontuosa dove tutt’oggi si celebra la messa, il Castello dell’Angelo è un’imponente e severa cappella dedicata a San Michele; e poi un giardino storico, un museo e, a coronamento di tutti gli edifici, pendenze vitate.
Mi accoglie Elias, persona ospitale e simpatica, che dà da subito l’impressione di saperne piuttosto bene riguardo il suo lavoro. Purtroppo non c’è tempo per visite nel luogo (ci vorrebbero due giorni), ma il pomeriggio non è vano, soprattutto se lo si passa in una enorme sala degustazioni fatta di enormi vetrate, soprattutto se la temperatura esterna rasenta i 2°C, e sta cominciando a piovere misto neve.
L’Abbazia di Novacella non è una cantina sociale, bensì un vero e proprio privato che possiede sia vigneti di proprietà ma che compra molto anche da conferitori. Per questo le zone di provenienza sono varie e coprono un areale esteso: da Cornaiano e Appiano a esempio, più a sud, provengono uve di schiava, pinot nero, moscato rosa; oppure da Bolzano, zona caldissima, il lagrein. Mentre i bianchi, ovviamente, da zone della Valle.
La degustazione è gargantuesca, immensa come il complesso abbaziale in cui mi trovo; e però molto gradita e molto utile. E molto piacevole: tutti i vini dell’Abbazia di Novacella hanno una notevole eccellenza; soprattutto i bianchi, ma anche i rossi. Riportare tutte le mie impressioni su tutti i vini risulterebbe noioso a chi legge, e stancante per chi scrive. Sui circa 25 vini degustati mi limiterò a qualche segnalazione.
Tra la “linea base” notevole è il Kerner, che preferisco di gran lunga alla sua versione riserva; freschezza acidula lunghissima, succo esotico al palato e finezza entusiasmante, in virtù della grande mineralità. Tra la linea riserva Preapositus (nome dedicato agli abati, cioè “preposti”) il Riesling è un capolavoro assoluto. È una degustazione e devo star calmo, essere serio e non fare figuracce; quindi mi trattengo. Avvolgente, limonoso il dovuto, lievemente erbaceo, sentori di idrocarburo accennati e verticalissimo. Sorprendente, vitale, elegante. Il Moscato Rosa, che andrebbe comprato e bevuto solamente per la rarità di questa uva e ancora più rara la produzione. Acidità sostenuta, tannino fievole, floreale; è nettare pregiato, degno finale di questa spettacolare degustazione.
Villscheider.
Come Kuenhof, anche Villscheider era un conferitore dell’Abbazia, ma che valutando la qualità delle sue uve ha deciso di produrre da sé i propri vini. E ha fatto la scelta giusta. Per arrivare al maso di Villscheider la strada è più complicata ma allo stesso tempo più intrigante, suggestiva, misteriosa. Si sale da fondo valle per una strada tortuosa e non proprio ottimale, ripida e serpeggiante; a un certo punto (che ancora non mi è chiaro) si sbuca in una zona aprica, meno ripida e tutta verde, coltivata.
Mi sta aspettando Florian, il proprietario dell’azienda insieme al figlio. Mi sorride con un sorriso che la dice lunga sul mio ritardo (sta volta sì, tantillus puer et tantus peccator, beccato in flagrante), ma cerco di far finta di nulla e chiedo subito di visitare i vigneti: sono sui vigneti più belli forse della Valle Isarco, nel pieno della viticoltura eroica e lì dove nascono di “vini estremi” altoatesini, appellativo di Proposta Vini, e voglio poter dire di esserci stato.
Nel vigneto poco vicino al maso di colpo cessa il persistente vento da nord (il versante è il sud): non mi stupisco: sono in equilibrio come un funambolo su una parete che stento a crede essere coltivata; fortuna soffro di vertigini, così che mi emoziono ancora di più. Florian mi spiega, intanto che camminiamo tra i filari, la storia dell’azienda.
Ufficialmente nasce nel 2007; 4 ettari vitati in totale, ma in ampliamento continuo, e circa 30.000 le bottiglie. Altitudine delle vigne massima è di 750 m s.l.m., sorprendente. Conoscevo i vini di Villscheider per il loro equilibrio esemplare, bilanciamento quasi perfetto tra acidità e morbidezza (ovvero 7 g/l acidità totale e 7g/l zuccheri riducenti), e nella degustazione che Florian ci ha riservato per le nuove annate ritrovo questa sensazione piacevole, occhi naso e bocca.
Le etichette sono minimal e abbastanza austere: nero con una linea oro che sta a indicare la chiesetta poco distante di San Cirillo. Tutti i vini evolvono solamente in acciaio, tutti tappati a vite (STELVIN® LUX, ovvio), mentre il Riesling tappo a sughero, ma un sughero ottimale, di qualità. “Perché così ha un’evoluzione particolare, che a noi piace molto”, mi spiega Florian, notando il mio dubbio. Sono sincero: sono in questa cantina per il Riesling, che amo molto; ma a sorprendermi è, anche qui, il Kerner. Incrocio artificiale tra riesling e schiava, il kerner è una uva particolare, che alligna bene e solamente in Valle Isarco per questioni climatiche. È molto minerale ma insieme sprigiona note molto rotonde di frutta esotica, come ananas e papaia. Per confermarmi la grande qualità del vino Florian mi fa assaggiare anche una versione del 2014; convincendomi completamente.
Villscheider produce altri due vini, il Sylvaner, territoriale, e lo Zweigelt, letteralemte “due soldi”, un rosso leggero e piacevole di origine austriaca, anche questo prodotto solo in regioni montane. Un vino di poco corpo, ma gradevole, tutt’altro che imponente e grosso; si fa largo delicatamente tra i bianchi (quelli sì, di carattere), e mi ricorda che la vita è più bella se leggera e semplice.