I cimiteri sono luoghi e al tempo stesso non-luoghi, luoghi di passaggio (fisico e simbolico) quindi sacri, ma anche parte integrante del paesaggio e pertanto, nella maggior parte dei casi, belli. Belli e affascinanti, tenuti più o meno bene, vialetti curati, natura variegata (fiori, quando non finti, e piante, tanti cipressi), e i più fortunati dotati di vista panoramica. Ospitano le tombe dei nostri cari, di conoscenti, di persone famose. E al cimitero anche la persona più insulsa in vita è degna di una preghiera, un ricordo, un pensiero.
I cimiteri rinfrescano e innalzano la memoria dei defunti, e al contempo possono giovare al sopravvissuto. Sia esso un familiare, un conoscente, o uno sconosciuto. Il camposanto è un luogo di consolazione, non solo pianto ma anche sorriso, sorriso benevolo oppure di scherno (si pensi all’ Amici Miei, Atto II di Monicelli, dove il cimitero divento scenario per uno scherzo). È comunque sempre luogo di silenzio inverosimile, un silenzio quieto, saziante, tranquillo che tranquillizza; è un luogo meditativo, quasi metafisico.
Monicelli, Amici Miei Atto II, Lo scherzo al vedovo
Ugo Foscolo forse esagerava. “Non vive ei forse anche sottoterra, quando/ gli sarà muta l’armonia del giorno,/ se può destarla con soavi cure/ nella mente de’ suoi?” scriveva, in uno dei passaggi preferiti (Dei Sepolcri, 1807). Il sepolcro foscoliano è un fatto politico, civile, sociale, patriottico; insieme elemento materiale (il marmo, la foto, i fiori) e eterno (i simboli, la memoria, la sacralità). Per Foscolo le tombe sono come altari destinati a perpetuare, insieme alla memoria dei defunti, l’emulazione delle loro virtù; ossia “i sepolcri degli uomini illustri” fomentano (o dovrebbero farlo) in noi vivi le passioni civili e portano (idem) le persone a imitare l’eroe commemorato.
Un amante dei cimiteri, un grande amante intendo, è Camillo Langone. Non manca novembre in cui non lo ricorda nella sua rubrica La Preghiera, sul Foglio; sono molti gli spunti che si ricavano dalla sua sintesi estrema. “I cimiteri sono una grande, silenziosa sacca di resistenza alla cancellazione culturale” (02 novembre 2021) scrive Langone, definendo “iconoclastia assoluta” la cremazione, pratica opposta alla sepoltura. Non commemorare i morti significa dimenticarli, e dimenticare i morti è un po’ come cancellare il passato. Chi va al cimitero (non necessariamente il 2 novembre) prolunga, perpetua la cultura, la storia, la civiltà.
Mi ricorda, lo stesso Camillo Langone, che la morte senza un monumento (in senso etimologico: ricordo) è tristezza, immensa tristezza: “la morte del Ventunesimo secolo”, dice, è “la morte raddoppiata dalla cremazione, la morte senza corpo e senza ricordo materiale, la morte davanti alla quale non si può sostare, pensare, pregare. La morte di una civiltà che spreca la morte, che non impara nulla dalla morte, e che muore” (2 novembre 2022). Meditare sul defunto allieva la vita, solleva dalle fatiche quotidiane; e tante volte mette pure umore. I cimiteri, inoltre, al contrario di certe chiese o altri edifici di culto, “non attirano i turisti” (2 novembre 2017), e sono quindi i meglio adatti alla preghiera.
Consiglia poi, Langone, una visita al cimitero a ansiosi e depressi, “insomma i vivi” (16 novembre 2019). “A differenza degli psicofarmaci”, scrive, “i cimiteri sono gratuiti, non richiedono ricetta e non hanno effetti collaterali. Ricordando la brevità della vita, le tombe ricordano la brevità del dolore e dunque dell’inutilità del preoccuparsi”. Nei cimiteri “abbondano religione, arte, storia. Che lezioni i cimiteri.”
Cimiteri di provincia.
Appassionato di cimiteri lo sono anch’io; e più che assiduo frequentatore mi definirei un flâneur cimiteriale. Io pure, nei miei viaggi o viaggetti, tendo a sostare in cimiteri sconosciuti, piccoli o piccolissimi, di paesini o borghi di provincia. Li reputo i migliori : so bene che nei monumentali cittadini l’arte e l’architettura funeraria raggiungono l’apice; ma i dettagli, le bizzarrie, la delicata decadenza, la fascinosa imperfezione dei cimiteri provinciali nascondono delle bellezze ineguagliabili.
Cimitero di Bagolino
Innanzitutto è una profusione di nomi, che alla lettura dell’uomo contemporaneo suonano arcaici e bislacchi. Non può non sfuggire un sorriso leggendo nomi, per fare qualche esempio, come Zita, Luigia, Irma, Dina, Bruna, Gelsomina, Rosmunda, Oreste, Bice, Anita, Avellino, Ersilia, Clateo, Ermenegilda, Girolamo, Ermida, Bortolo, Vittore, Lodovico (con la “o”), Egidio, Dirce, Elvira Celestino, Cesira (da un cimitero del bresciano). Leggendo poi la menzione “Primo” mi torna in mente il memorabile prologo de La spartizione di Piero Chiara.
Il racconto esordisce con un excursus di nomi stravaganti della provincia, e delle origini di questi. Si legge la storia degli “Emerenziani e Emerenziane”, un caso “come quello di alcuni di Cuvio che si chiamavano Divo perché i parenti avevano letto sulla facciata della chiesa Divo Martino Martiri Patrono”. C’era poi chi “si chiamava Ferito per colpa di una canzone del tempo: Garibaldi fu ferito…”. Oppure il caso ancora più esaltante dove, “dopo la guerra 1915-1918 altri apparvero, nel Veneto, che si chiamavano Firmato perché in fondo ai bollettini di guerra di leggeva Firmato Cadorna”. E chissà quante curiose storie ci sono dietro quei nomi bizzarri apposti sulle lapidi più vecchie.
Cimitero di Sermerio
Cimitero di Sermerio
Cimitero di Sermerio
Tra i miei cimiteri preferiti spicca sicuramente quello di Bagolino, con tutto quella rapsodia disordinata di cappelle esterne, lungo la strada che corre veloce verso il Gavia e quindi il Passo Crocedomini; sicuramente devo menzionare il cimitero di Sermerio, piccola frazione di Tremosine sul Garda, un intimo e piccolissimo camposanto, dove le anime pare proprio che stiano in beatitudine perpetua. Qui a Sermerio inoltre è degna di nota una singolare tomba, unica posta al suolo al centro e contornata da tutte le lapidi a muro, la cui ricercatezza artistica (una statua bronzea dalla forma di una ninfa, in posa pudica eppure sensualissima) si discosta completamente dal pauperismo paesano dell’ambiente.
Cavedago
Cavedago
Cavedago
Un altro cimitero cui la visita è d’obbligo è quello di Cologna di Tenno. Questo è posto sulla strada che da Riva conduce a Tenno, e la posizione strategica permette di godere di una vista strepitosa sul Lago di Garda. Da circa due mesi nel mia classifica dei dieci migliori cimiteri provinciali del Nord Italia si è aggiunto quello di Cavedago, paesino della provincia di Trento, si può dire approssimativamente tra La Paganella e la Val di Non. Mi ha colpito per tante cose, in particolare: 1) l’ordine e il rigore generale, 2) la ieratica e maestosa croce al centro, 3) la vista sulla valle, in cui la natura montana si mischia benissimo all’artificio umano di case, casette e meleti, 4) la chiesetta qui posta e 5) il muretto a secco che perimetra il camposanto, creando a tutti gli effetti un hortus conclusus.
Cavedago
Cavedago
Lapide
C’è un altro dettaglio poi che ha colpito la mia attenzione: sulla sinistra, affissa sulla parete della chiesetta, una umilissima, semplicissima lapida recita le seguenti parole: “PIETRO VIOLA ∙ OSTE ∙ ”. Ho ammirato particolarmente il fatto che il signore abbia voluto farsi ricordare insieme al suo mestiere, e ancor più mi sono esaltato perché il signore abbia voluto eternare quel mestiere. Onore, dunque, a Pietro; onore, sempre, all’oste!
In principio non era nulla; poi, di colpo, l’immagine.
Un giorno, compreso fra tre e due milioni e mezzo di anni fa, un australopiteco della Valle di Makapan in Sudafrica restò attratto e turbato da un ciottolo di diaspro: una conformazione vagamente simillima al volto del primate bastò a convincere l’australopiteco a portarlo con sé, e riporlo con cura nella sua grotta. Un po’ più tardi, nel Paleolitico, un uomo tracciò sulla roccia della Grotta del Pech-Merle, a Lescaux, il profilo di un corpo, lasciando che un’ondulazione della parete esprimesse il cranio e la proboscide dell’animale.
Poi arrivò l’homo sapiens sapiens. In Mesopotamia era praticata la lecanomanzia, un gesto, anzi una vera e propria pratica divinatoria per cui a seconda della forma che originava dall’olio versato in un bacile d’acqua (serpente, toro, etc.), era esposto il presagio. La pratica si diffuse in Persia e in Egitto – e non morì mai (si pensi alla lettura del fondo di caffè, nelle tazzine).
Il ciottolo di diaspro della Valle di Makapan, Sudafrica
Caffeomanzia (Comunicaffe.it)
Con più cognizione di causa, Filostrato l’Ateniese, tra il II e il III secolo d.C., osservò che la “‘facoltà mimetica’ che permette di contemplare la pittura è la stessa che permette di vedere lupi e centauri in quelle figure di nuvole che ‘passano per il cielo senza alcun significato e affatto a caso’.” A Bisanzio era tradizione decorare le pareti delle chiese più importanti (e si veda restando vicini San Vitale a Ravenna) con lastroni di marmo tagliati ‘a libro’ di modo da avere le venature speculari; tale tecnica esaltava la capacità di ‘vedere’ figure durante la preghiera.
L’interno di San Vitale a Ravenna. In primo piano, ai lati, i marmi tagliati e ricomposti ‘a libro’
Poi l’Umanesimo. Leon Battista Alberti nel De statua (1462) contempla e teorizza, in una prosa chiara e netta, la pratica del completamento di immagini fortuite per renderle più leggibili. A Piero di Cosimo piaceva passare del tempo negli ospedali per scrutare gli sputi sui muri, perché in quelle macchie scorgeva battaglie. Nel Trattato della pittura (ca. 1540), Leonardo da Vinci elogia le macchie sui muri, la cenere del fuoco, le nuvole, i fanghi perché “vi troverai dentro invenzioni mirabilissime, che lo ingegno del pittore si desta a nove invenzioni”. Da parte sua, Albrecht Dürer realizzò a china una serie – ludica, ma molto meticolosa – di sei cuscini dalle cui pieghe sorgono volti grotteschi.
I sei cuscini di Albrecht Dürer
E ancora. Amleto, nella celebre tragedia shakespeariana (terzo atto, scena seconda), induce Polonio a immaginare animali guardando una nuvola. Alexander Cozens, pittore inglese del Settecento, formulò un metodo per la composizione di paesaggi a partire da macchie, da lui chiamate “artificial blots”. Tale L. M. Budgen, autore o autrice completamente ignoto, nel 1867 pubblicò un libro singolarissimo e misterioso il quale parla di immagini che si formano nei caminetti quando vi arde il fuoco, ossia nella vampe, nel fumo e nei carboni.
Un esempio di artificial blots di Alexander Cozens
Il Novecento impazzisce. Max Ernst era ossessionato: il tema del completamento di immagini fortuite lo perseguitò per tutta la sua vita artistica, e se ne ha un ragguaglio nei Frottages. Paul Klee si divertiva, e giocava realizzando opere insieme astratte e figurative. Pierre Bonnard, geniale pittore autodidatta della prima metà del secolo, dissolveva le figure nei sui quadri quasi a farle assorbire allo sfondo e agli oggetti circostanti. Il suo modo di pitturare – visionario, profetico – poneva (e pone tutt’ora) il problema di stabilire se queste sagome appartenessero alla figurazione o all’astrazione. Ossia: non distinguiamo il limite di quelle figure perché evanescenti; oppure da quella pittura in disgregazione creiamo noi mentalmente le figure?
Max Ernst e i frottages
Il godimento di Paul Klee
Pierre Bonnard e l’evanescenza della pittura
E poi, Jean Dubuffet.
Dubuffet è la chiave di lettura, il punto cruciale attorno a cui si sviluppa il rivelatorio libro di Adolfo Tura, Breve storia delle macchie sui muri. Veggenza e anti-veggenza in Jean Dubuffet e altro Novecento (Johan & Levi, 2020). Un libro che aspettavo, di cui sentivo il bisogno, e che finalmente ho letto; un libro conciso, essenziale, e bello. Sia per la qualità dell’oggetto (ma questo è merito della casa editrice Johan & Levi), sia per la qualità della scrittura, semplice e pulita; sia per la qualità del contenuto, i cui richiami sono vastissimi e mirabilmente collegati. L’esposizione è ottima, convincente. Insomma: un piccolo capolavoro di teoria dell’arte, come raramente se ne possono trovare.
Jean Dubuffet
Jean Dubuffet, dicevo. Certo, perché questo autore, che qui è analizzato in tutte le sue diverse sfumature (è stato un artista che ha sperimentato praticamente ogni campo, attorno agli anni Cinquanta del XX secolo), permette a Tura di condensare la sua teoria, brillante e, almeno mi pare, del tutto nuova: nella storia possiamo raggruppare in due filoni il modo di approcciare a quelle immagini indeterminate che chiamiamo ‘non figurative’ o ‘deformi’ (come le venature del legno, le pieghe dei vesti, o appunto le macchie).
Da una parte il principio della “veggenza”, ovvero la capacità di formare nella nostra mente, sulla base della nostra conoscenza e della nostra cultura, una immagine definita a partire da una non-definita per “eccesso di senso” (e si parla di paranoia). Dall’altra parte, viceversa, per “privazione di senso” (e si parla di schizofrenia) partiamo da una immagine figurativa e delineata e la dissolviamo col circostante facendo della porzione di mondo che stiamo guardando un infinito indeterminato. Quest’ultimo è il principio dell’“anti-veggenza”.
Non mi dilungherò a spiegare i motivi per cui Dubuffet rappresenta il cardine (o il giro di boa) di questa strepitosa visione, che può essere letta altrimenti come una piccola, particolarissima storia dell’arte. L’autore lo fa già bene, non ha bisogno di parafrasi. Adolfo Tura non è professore, è un libero professionista che sguazza nella ricerca e nella divulgazione artistica. Ciò spiega molto: la prosa è non è volutamente difficile e gli interventi che potrebbero farmelo pensare un accademico sono rari. Paiono leggeri pure termini quali “fissità distratta”, “realismo iconico”, “fraintendimento percettivo”, “facoltà paranoica”.
Il libro però, ammeto non senza un certo sconforto, non è completo. Ma, credo, appositamente: lascia al lettore ordinare le sue conoscenze e inserire appositamente i suoi autori. Tura infatti tralascia molti nomi; e allora li aggiungo io. Di seguito il mio compendio aggiuntivo.
La filosofia. Lucrezio nel De rerum natura (I secolo a.C.), per provare a spiegare le somiglianze con il mondo figurato che talvolta si incontrano in natura, sostiene una “teoria delle immagini che si staccano dalle cose come pellicine”; le nuvole, ad esempio, sono immagini in continuo divenire “e non smettono di mutare aspetto sciogliendosi/ e di trasformarsi in profili di figure d’ogni tipo”. Le immagini esistono già, bisogna solo prelevarle dal deforme naturale. Oltre alle nuvole Lucrezio parla di minerali e pietre.
Agata blu
Le pietre. Roger Caillois in La scrittura delle pietre, saggio del 1970, analizza da critico d’arte “l’immagine” che si forma all’interno della sezione di diaspri, ametiste, agate, septarie, calcari, di provenienza varia, dalla Cina, al Messico, all’Italia; si sofferma anche su quelle che chiama “paesine” in Toscana e “pietre di sogno” in Cina, ovvero quei particolari dipinti su pietra che prendono spunto dalle varie venature o maculature per trasformarsi in personaggi e ambienti, come pastori, madonne, alberi, monti, etc.
Jurgis Baltrušaitis dal canto suo, in Aberrazioni. Saggio sulla leggenda delle forme (1996), tra il fantastico e l’onirico, con estrema erudizione, considera le pietre come una fonte inesauribile di iconografie. Sta tutto nell’aggettivo del titolo, “aberrante”: le possibilità di creazione della natura sono illimitate, perché sempre strane, anomale, diverse.
Umanesimo, ancora. Leon Battista Alberti nel De pictura (1435) afferma che già di suo “la natura si diverte a fare la pittrice”. Botticelli invece ha un metodo pratico per raccapezzare le idee: lanciare una spugna impregnata di colori su una parete, e dalle chiazze che si formano casualmente prendere ispirazione. In questo modo, il grande pittore delle veneri e delle ninfe, “è riuscito a cogliervi interi universi di teste umanoidi, di animali, di battaglie, scogliere, mari, nubi e boschi” (Bredekamp, 2010).
Georges Didi-Huberman, in un saggio ormai celebre del 1991, ci dice che il Beato Angelico dipingendo il famoso affresco nel convento di San Marco a Firenze (tra il 1438 e il 1459), ha adoperato un sistema intenzionalmente non figurativo, ovvero delle “macchie multicolori”, per creare alcuni dettagli di personaggi e ambientazioni.
Test di Rorschach, Tavola 1
Devo poi parlare delle ultime Ninfee di Monet? Del Test di Rorschach? E esempi ce ne sarebbero ancora moltissimi. Del resto, come dice Tura, “la propensione a scorgere figure e volti nelle nuvole, nelle radici degli alberi, nelle conformazioni rocciose”, etc., è una “attitudine che ha sempre accompagnato l’uomo e che a ognuno è capitato di sperimentare qualche volta”. E allora, la situazione è terribile e esaltante allo stesso tempo: i casi sono infiniti, come infinite sono le immagini che l’essere umano dall’irriconoscibile può riconoscere.
Le etichette, quel giorno, erano innumerevoli. L’occasione era la presentazione a Parma del catalogo 2022 di Proposta Vini, nello spazio fieristico; il numero di produttori esorbitante, più di 200, e i vini che presentavano molti, molti di più. Ma in mezzo a questo tripudio felice di colori, forme, lettere, caratteri, linee, macchie, scarabocchi che accarezzava (vestendole) quelle bottiglie altrimenti spoglie e tutte uguali, ho riconosciuto l’etichetta più bella: quella impressa sul vino chiamato “A” di L’Antica Quercia, un Prosecco Brut Nature Sui lieviti.
Le etichetthe di L’Antica Quercia
Dell’azienda L’Antica Quercia, di Scomigo presso Conegliano (Treviso), e dei vini di Claudio Francavilla ne scrive bene, anzi benissimo Massimo Zanichelli (Effervescenze. Storie e interpreti di vini vivi, 2017, pp. 104-106), il quale ne parla come una “tenuta dal passato illustre, che prende il nome da una quercia secolare”, che già Mario Soldati (Vino al vino) aveva segnalato.
Il vino è ottimo: carbonica delicata con i suoi 5 bar (3 in più rispetto al Colfondo “Su Alto”, rustico eppure gradevolissimo, dalla sapidità pietrosa e una acidità accomodante; non ha né residuo né solfiti aggiunti. Di gran beva come si direbbe in confidenza.
L’etichetta di “A”
Ma ciò che mi ha colpito, come ho introdotto, è l’etichetta: un’etichetta essenziale, pulita, ariosa, liberatoria, leggera. Silenziosa. Di più: è poetica, evocativa, irenica. Se fosse letteratura sarebbe Il piccolo principe, o qualche componimento Haiku; se fosse musica l’album Branduardi canta Yeats del grande compositore milanese; se fosse pittura sicuramente Osvaldo Licini.
L’etichetta, di carta grossolana e tangibilmente materica (qui la bellezza) è completamente bianca: un ampio, immenso spazio bianco, in cui nulla si intravede ma tutto si può immaginare. In questo ritaglio, tuttavia, alcuni esseri volatili, piccolissimi ma altamente definiti, appena percepibili, svolazzano in completa libertà verso chissà dove. Sono gli aironi della località dell’azienda, impressi nero su bianco su un pezzettino di carta bianca. Basta poco, a volte per esprimere e evocare qualcosa, un dettaglio.
Germano Zullo – Gli uccelli – Topipittori editore milano
Mi torna in mente allora un piccolo grande capolavoro, un albo per l’infanzia firmato da Germano Zullo, Gli uccelli (Topipittori, 2010). Un albo muto, o meglio, così vuol essere: pochissime parole ne fanno da cornice evocativa e esaltante. L’albo narra la storia di un signore molto affabile che accompagna con un furgone, in un luogo impossibile, probabilmente dei sogni, un gruppo di uccelli eterogenei eppure tra loro armoniosi alle soglie di un precipizio, al confine ossia tra terra e cielo: qui voleranno, raggiungendo la libertà.
Due immagini tuttavia sono folgoranti, e del tutto affini all’etichetta di “A” de L’Antica Quercia. Stessa è la direzione – verso l’infinito – , medesima l’attitudine – la spensierata leggerezza.
“Un solo piccolo dettaglio può cambiare il mondo” – Germano Zullo – Gli Uccelli
Scrive Zullo, e non importa in quale pagina, che “un dettaglio non è fatto per essere notato. Ma per essere scoperto […]. Un dettaglio è un tesoro. Un vero tesoro. Non c’è tesoro più grande di un piccolo dettaglio. Un solo, minuscolo dettaglio può illuminare una giornata. Un solo, minuscolo dettaglio può cambiare il mondo.”
Basta poco, a volte per esprimere e evocare qualcosa: un dettaglio. Basta poco, ma è un poco che vale moltissimo.
L’anno è il 1988, il luogo è il salotto pubblico di Mixer Cultura, storico programma che, se non fosse per Youtube e per le ammirevoli persone che caricano queste chicche, non potrei nemmeno immaginare di poter vedere in Tv. Tra i personaggi qualcuno già allora era abbastanza noto, altri ancora nell’ombra, e precisamente: Vittorio Sgarbi, già allora esimio storico e critico d’arte; Achille Bonito Oliva, critico e promotore d’arte; la professoressa Marisa Volpi; lo “scrittore d’arte” Antonello Trombadori; Lucio Amelio, importante gallerista; e, giovanissimo ma già chiaramente un distinguibile dandy, Philippe Daverio, nella figura di “mercante” emergente. Conduce la puntata uno strepitoso Arnaldo Bagnasco.
Il tema della puntata è, in pratica, la definizione delle figure – attori – dell’arte contemporanea (critico, gallerista, artista), il rapporto tra loro e il rapporto tra questi con il pubblico, quindi con la mediazione culturale, che si traduce nel linguaggio e nella divulgazione verbale. Un tema che si è pressappoco sempre affrontato, ma non è mai stato così considerato come negli ultimi anni (si pensi solo all’attenzione che dedicano i mirati corsi universitari.
Il conduttore Arnaldo Bagnasco
L’abbrivio della puntata, il pretesto, è una focosa lettera di Von Hofmannsthal scritta dopo aver visto, restando folgorato, una mostra di Van Gogh, senza sapere chi fosse Van Gogh, in cui si scioglie in una spassionata confessione, un amore, un colpo di fulmine per quelle opere. “Vienna, 1907, un giorno qualunque. Il poeta, drammaturgo, scrittore, saggista, Hugo von Hofmannsthal si sta recando al lavoro..”, apre il conduttore. “Mio caro, il caso non esiste; io dovevo vedere quei quadri…” scrive nella lettera il poeta.
Achille Bonito Oliva
Viene poi presentato Achille Bonito Oliva che il primo piano inquadra con una faccia serissima, immobile e antipatica; quell’antipatia del superbo, lecitamente disprezzabile. “
“Sono indispensabili i critici?”, chiede Bagnasco.
“Questa reazione [quella di Von Hofmannsthal] dimostra proprio quello che scriveva Longhi, ossia ‘critici si nasce, artisti si diventa’” risponde Oliva. “Cioè, per esser critici ci vuole una attitudine, che si sviluppa nel tempo… nel critico c’è uno sguardo, una capacità analitica che evidentemente possiede e gli permette poi di sviluppare da grande a livello professionale”.
(Piccola nota. C. Baudelaire, Salon 1846: “E tuttavia quanti artisti del nostro tempo devono solo a lei [alla critica d’arte] la loro misera fama!”)
Poi il discorso passa alla file chilometriche delle mostre mainstream (altro tema attuale: oggi sarebbero quelle di Monet) e il presentatore chiede se è merito dei critici o degli appassionati. “Le folle sono attirate dal valore commerciale dei quadri”, risponde ABO.
Vittorio Sgarbi
Poi entra Vittorio Sgarbi. E, argomentando da Sgarbi, ci illumina su molte questioni. “Per lei Van Gogh cosa rappresenta?” chiede Bagnasco. “Per me come uomo nulla, per come critico purtroppo, sono costretto a fare i conti anche con Van Gogh, quindi è uno degli autori che non si può fare a meno di guardare per motivi che sono esterni alla mia sensibilità ma che sono interni sua; per cui, credo che non scriverò mai una riga su Van Gogh oltre a quelle che mi competono cronista d’arte. Viceversa se lei mi chiede un parere estetico su Van Gogh ho le mie opinioni che non posso non avere.”
Il senso delle parole si Sgarbi è questo: il critico è e deve essere super partes, e deve valutare artisticamente qualsiasi artista.
Poi si dilunga in una concisa e esauriente osservazione. “L’opinione è questa: Van Gogh è un autore la cui grandezza si misura per la prima volta nella storia dell’arte più sulla quantità che sulla qualità. Cioè per capire la grandezza di Van Gogh deve vederne tante di opere; 40opere non lo spiegano. L’altra cosa che penso è che è il primo artista nella storia della pittura che quando di dipingere invece di godere soffre, invece di liberarsi patisce (rapporto conflittuale con la tela); la terza cosa è il primo artista in cui il brutto prevale sul bello, la cattiva pittura che poi diventa la chiave dell’arte contemporanea.” Applausi (non del pubblico, ma miei).
Sgarbi Vs ABO
L’argomento passa al linguaggio e alla comunicazione dell’arte, ossia alla mediazione culturale.
Domanda Bagnasco a Sgarbi: “di solito di fronte all’arte contemporanea la reazione della gente è: prima di tutto incomprensione, e talvolta anche quella di dire di fronte a un quadro “potrei farlo anche io”. Lei ha scritto “l’arte non è facile, ma la critica fa di tutto per non farla capire”.
Sgarbi: “questo è il problema centrale… anche se a me il problema non riguarda, io sono un critico che scrive chiarissimo, sono un critico elementare. Il problema di fondo riguarda che ci sono alcuni scrittori d’arte che hanno una prosa che cerca di far capire quello che l’arte dice; e ci sono scrittori d’arte invece che non semplificano ma complicano, o addirittura dicono altra cosa rispetto a quella che si vede.”
Poi interviene Oliva, e anche le sue osservazioni non sono da trascurare.
Nell’obiettare(ma più che obiettare aggiunge) a Sgarbi, dice: “però spesso c’è una difficoltà obiettiva nell’opera che il critico va a analizzare, va riconosciuto… se mettiamo, per ipotesi, che l’arte spesso scavalca il presente e cavalca il futuro, anticipa delle cose… Il critico, che è un uomo contemporaneo, cioè legato al tempo, alle comprensioni e incomprensioni del proprio tempo, spesso incontra delle difficoltà obiettive in quanto si trova di fronte a una nebulosa che non è chiara da perforare con lo sguardo. Quindi, se la vita non è facile perché dovrebbe essere facile l’interpretazione dell’arte?”
Sgarbi: “la critica [il critico] molte volte affronta degli argomenti che non è in grado di spiegare. Che poi gli argomenti siano presenti o passati non parliamo di quello; il suo linguaggio è inadeguato al linguaggio dell’opera. Quando noi pensiamo ai grandi maestri come Berenson nei suoi diari o addirittura nei suoi elenchi, freddissime liste di opere d’arte, e poi arriviamo a Roberto Longhi, scrittore impareggiabile, abbiamo un equivalente letterario del testo figurativo che abbiamo di fronte. Il problema è che molte volte la critica d’arte contemporanea (e tante volte anche quella storica) dà un testo che non corrisponde all’immagine che si vede. Certamente molte volte dipende da chi scrive; ma si può anche dire che molte volte dipende dal fatto che l’opera non ha nulla da dire, e quindi col nulla si commenta. Questi sono i problemi di fondo.”
ABO: “però bisogna dire un’altra cosa: che è sbagliato porre questa simmetria e dire che all’opera deve corrispondere un valore speculare della critica [piccola nota per i non addetti ai lavori: Achille Bonito Oliva, pone la figura del critico d’arte al di sopra di qualsiasi altra]. Fare del critico uno scrittore statistico e notarile che trascrive un giudizio di valore sull’opera, significa ridurre la soggettività creativa del critico che esiste, e quindi giudicarlo in base alla grandezza dell’opera mi pare che sia riduttivo per la critica.”
(Altra piccola nota. C. Baudelaire, Salon 1846: “Credo in coscienza che la migliore critica sia quella che riesce dilettosa e poetica; non una critica fredda e algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento; ma quella che ci farà vedere un quadro attraverso lo specchio di uno spirito intelligente e sensibile, se è vero che un bel quadro è la natura riflessa.” Ma ancora: “perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti”. Libidine pura.)
E continua ABO: “non esiste il rapporto crociano dell’opera, ossia l’opera innanzitutto è stata concepita, intuita, e poi si fa la lettura… esiste un rapporto di emotività del critico con l’opera. Esiste un valore letterario nella scrittura del critico”. Ponendo la questione, che in Manganelli raggiunge il culmine, della critica (artistica o letteraria) come genere letterario.
(Sulla questione, inoltre, si legga su tutti, T. Labranca, Vraghhinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte. Oppure il puntuale C. Giunta, Come non scrivere, del 2018. Dopo aver citato un testo di presentazione a una mostra, scritta malissimo e in modo incomprensibile, Giunta scrive: “Non si capisce niente. Non che non si intraveda, sotto la superficie delle parole, un senso nebuloso, un concettino che cerca di farsi strada in mezzo al fumo, ma perché lo sforzo di chiarificazione dovrebbe farlo il visitatore, che ha già pagato il biglietto? Perché non lo fa invece l’organizzatore della mostra, che è stato pagato? Risposta: per snobismo, insicurezza, e anche perché l’organizzatore della mostra che ha scritto questo testo di presentazione ha assorbito all’università l’idea balorda che la cultura non sia tale se non si ammanta di questo linguaggio velleitariamente esoterico (e in realtà puerile).”)
Sgarbi interdetto mentre ABO spiega alcuni quadri
Il conduttore, poi, invita ABO a spiegare in diretta tre quadri, nel caso specifico della Transavanguardia.
Poi il gelo che s’avvicina. Arnaldo Bagnasco: “Sgarbi, lei ha visto le opere proposta da Bonito Oliva. Lei cosa ne pensa?”
Sgarbi: “Nulla.”
Bagnasco: “eehhm no vabbé..”, imbarazzo.
Sgarbi: “non penso niente. Cioè, io devo dire che se c’è un argomento su cui non ho mai espresso una opinione è la Transavanguardia e spero di poterlo continuare a fare. Cioè continuo a vivere come se non esistesse e mi transitasse sulla testa. Per un motivo che adesso dovrò spiegare. Perché ritengo che quella postulazione secondo la quale l’arte della Transavanguardia è un ritorno alla pittura dopo anni di astinenza è una invenzione in qualche modo pericolosa; perché i grandi pittori sono esistiti lungo il periodo delle avanguardie e anno fatto opere straordinarie [poi ne citerà alcuni], pittori che hanno sempre fatto ciò che la Transavanguardia presume di poter fare con strumenti pittorici inadeguati. Non che non abbiano talento; ma se l’agone è la pittura, che dipingano.”
(Faccio notare che questa dichiarazione non cozza con quella più sopra, in quanto quello di Sgarbi è un sagace, sottile, affilato, terribile e vincente ossimoro.)
Poi Sgarbi fa Sgarbi ma meglio di Sgarbi, e strapazza ABO in maniera pittoresca e epica. “Io ho una grande ammirazione per te; io ritengo che il tuo ruolo nella nostra cultura sia stato di grande positività. Io credo che se c’è un essere umano che può essere paragonato, benché da lui diversissimo, a D’Annunzio sei tu. Cioè tu hai avuto un’influenza pericolosissima nel gusto – sai che il dannunzianesimo è un fenomeno deteriore…”.
Tensione. È guerra aperta.
Poi prosegue contro la Transavanguardia: “io ho un giudizio negativo su alcuni fenomeni dell’arte contemporanea; positivo sul fatto che attraverso di loro noi possiamo riguardare con libertà una fetta di figurazione che tu misconosci ma che in realtà è quella che vediamo qui.”
ABO replica: “la cosa grave è che Sgarbi è colui che pensa che aver studiato tutte le date giuste significa avere l’intelligenza per capire i quadri. Sgarbi, dalla scelta dei suoi pittori è un critico necrofilo. La pittura ha anche un suo corpo, un suo erotismo”.
Critico contro critico. Bagnasco quasi non li tiene più. La figura è la medesima, ma tra i due si avverte un notevole stacco
Sgarbi lo accusa (non difficilmente) di non saperne nulla di pittura. E lo sfida a riconoscere un falso da un vero in diretta. ABO non sa che dire; “la tua è una visione antiquariale” replica fiaccamente e imbarazzato. “Tu non hai niente a che fare con la pittura” dice allora Sgarbi, e lo dimostra in diretta, facendo passare Bonito Oliva come una figura paradossale.
Passa così in rassegna delle immagini. Antonio Lopez Garcia (“ha perseguito la ricerca di cui parlava prima Bonito Oliva nel momento di quella che secondo lui era la silenziosa assenza di figurazione”), Gustavo Foppiani, Lucien Freud, e – facendo scoppiare la tempesta – Wainer Vaccari.
Osserva sardonico Sgarbi: “questo pittore è stato scoperto, monografato, da Bonito Oliva, e era il più talentuoso pittoricamente della Transavanguardia: è stato dimenticato, cancellato e abbandonato da Bonito Oliva perché il suo mercante Mazzoli ha deciso che non andava più bene…. Appena trovi uno che ha le qualità pittoriche non lo chiami più, perché? Perché trascuri i valori della pittura.”
Per Sgarbi, insomma, non esistono avanguardie che impediscono la figurazione, come invece sostiene ABO, che è il pretesto da cui fa partire la Transavanuardia.
Il tema che si sviluppa successivamente è il seguente: si può creare il mito di un artista pagando il critico e pubblicizzarlo in una galleria?
il gallerista Lucio Amelio
Il conduttore presenta una nuova figura: il gallerista (o mercante, il cui termine è un francesismo), nella veste di un esagitato Lucio Amelio. Sulla domanda “il critico crea l’artista?”, o “è più importante il critico o il gallerista?”, risponde secco: “bisogna dire subito: è più importante il gallerista”. “L’artista fa un gesto di ristabilire la dignità dell’uomo. Questo gesto si esplica in uno spazio che si chiama galleria d’arte.”
Nel caos, Minoli presenta un giovanissimo Philippe Daverio che, già allora, con la sua pacatezza placa le acque portando silenzio e serenità nello studio.
Philippe Daverio, Marisa Volpi, Antonello Trombadori
Ora tutti lo ascoltano, tutti gli sguardi sono rivolti verso di lui. Si disinteressa dell’argomento e parla dei due critici, dando osservazioni brillanti e lucide: “se dovessi dare un giudizio su loro due [Sgarbi e ABO]: Sgarbi ha dichiarato suo padre e suo nonno, Longhi e Berenson, due critici e storici principalmente dell’arte antica; Bonito Olivo non li ha dichiarati, quindi tento di intuirlo io, e se dovesse avere due nonni gli darei Baudelaire e, più che D’Annunzio, Totò.”
E la grande conclusione: “in sostanza il discorso qual è: esistono due modi di fare critica dell’arte: uno è l’analista e l’altro è il promotore. Cioè, l’analista è colui che si mette e studia le cose e decide come stanno, le ricolloca; il promotore è quello che crede in una cosa e la sostiene. Sono due modi diversi di guardare le cose.”
Applausi (sempre i miei).
Philippe Daverio
Puntata densa e fitta. E la chiude, a sorpresa, la figura fondamentale, ma che non a caso è lasciata per ultima: l’artista. (ce n’eravamo dimenticati tutti, sì).
Viene presentato Carlo Guarienti, un signore placido e distinto. Prova a spiegare, ma continua a essere interrotto. “Perché non lo fate parlare il pittore?”, dice, sconfortato. Del resto, non è un caso che nel libro illuminante di Francesco Poli, Il sistema dell’artecontemporanea (Il Mulino, 1999), l’artista compare solo nell’ultimo capitolo.
Sul finire Bonito Oliva accenna prima come battuta (molto sottile devo ammettere) ma poi chiaramente, a un fenomeno di cui non bisogna dimenticarsi: il sistema dell’arte. “Il pittore si affida al suo prodotto… il fatto è che esiste un sistema dell’arte entro cui l’opera si situa; l’opera non è salvifica da sola.”
Un altro tema interessante lo accenna Trombadori, rivolto all’arrogante Amelio: “lei vuole fare il pilota dell’arte, non il mediatore”. In altre parole, l’arte talvolta è pilotata e non mediata dalle figure del critico e del gallerista; ossia, con altre parole ancora, il giudizio non è mai completamente obiettivo, ma sarà sempre presente una percentuale più o meno alta di soggettività.
Poi la conclusione, granitica.
Guarienti: “Il pittore è estremamente solo. E il critico, che dovrebbe fare la mediazione con il pubblico, purtroppo – e qui ne abbiamo avuto una prova stasera lampante – vuole essere un protagonista”.
Bagnasco: “Questa è perfetta. Questa è una conclusione evidente.”
In mezzo all’Italia c’è un luogo incredibile, un luogo che non è un luogo ma l’idea di questo. È un posto senza tempo, e apparentemente (o davvero?) non toccato dall’artificio umano; il remoto s’incontra col presente e si incastra con tutti i tempi. È un luogo in cui l’arte diventa natura, e la natura è storia, ingegno, poesia. Questo luogo, sperduto nel Centro Italia, è il Sacro Bosco di Bomarzo, in provincia di Viterbo.
Salgo in continuazione per arrivare al paesino di Bomarzo, posto su un’altura abbastanza anonima. Quello che noto all’entrata del parco, che comunque è ben segnato, è tutt’altro da quello che pensavo. Viali sporchi, siepi tenute malissimo, un degrado generale. Ma è un degrado ricercato, mi accorgo poi, la natura è lasciata – accuratamente – a se stessa per una ragione ben precisa: che è quella propria del Sacro Bosco.
foto dell’autore
Entro nel parco, insomma, e sono immerso in una selva ombrosa, umida e tetra, dove il muschio ricopre quasi tutto. La natura selvaggia prevale sulla lavorazione umana, penso inizialmente. Dopo la prima analisi e una prima veloce occhiata, però ecco la sorpresa: creature gigantesche in pietra, dall’aria grottesca e fantasiosa (ma è difficile descriverle, trovarle una collocazione) sono disseminate ovunque, nei posti più strambi, di questo bislacco bosco. Questa statue sono state ricavate dalla pietra, direttamente in loco: la roccia è animata dall’artificio umano, con la volontà di farle sembrare elementi venuti dal nulla, o riemersi dopo millenni e provenienti da chissà quale civiltà primitiva.
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Mi suggeriscono sia un luogo surreale; sì, anche. Il percorso è volutamente labirintico, ossia non è ciclico e immediato, si deve girare un po’ a casaccio – e con conseguente fastidiosa sensazione di non aver visto tutto. Ogni angolo nasconde una o più apparizioni, spaventevoli e amene allo stesso tempo. E non c’è logica in questo ambiente; inutile sbattersi per cercare simbologie, spiegazioni. La stramberia è creata ad hoc da una mente geniale, spiritosa e acculturata: il parco infatti è nato grazie alla mente di Vicino Orsini, il signore di Bomarzo, e all’architetto Pirro Ligorio, attorno alla metà del Sedicesimo secolo. Il periodo barocco quindi ha influito sicuramente sull’opera, anche se è giusto segnalare che il Sacro Bosco, come mi dicono, è “un unicum” nel genere dei giardini all’italiana (caratterizzati da geometria, razionalità e prospettiva mirata, nettezza, chiarezza).
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Qui, oltre a essere, nel complesso, sconnesso, confuso, scoordinato – in una parola: libero –, tutto è enigmatico, ma appositamente. Non voglio cercare una interpretazione, che facilmente non esiste, ma godere solamente del luogo. Allora sì, in quest’ottica, e sulla scorta dell’arte dei ’60 e ’70, questo è un brillante esempio di proto-Surrealismo (si pensi a Dalì), o addirittura di proto-Land Art. Il caso più eclatante è la casa inclinata: qui, entro con cautela e subito sono disorientato, provo un forte senso di disagio, mi vengono le vertigini, perdo il senso di stabilità. È certamente un caso di ambiente artistico, di arte immersiva, di happening (si pensi, per fare un esempio, all’arte interattiva e agli ambienti del Gruppo T, fruibili a Milano alla Galleria del Novecento).
Enormi statue quindi, che spaventano e divertono al contempo. In un’area in cui tutto appare sciupato, accortamente sciupato, e dove si ha l’impressione di vivere in un ambiente remoto, non del Cinquecento, ma arcaico, forse dei Maya, forse degli Egizi, non si sa. Un luogo rudimentale ma, soprattutto, ludico: viva l’arte, viva il gioco, viva la fantasia umana (alla faccia della natura!).
Dopo Pasticceria Veneto, dopo San Carlo, ora la Pasticceria Andreoletti è ufficialmente la mia nuova pasticceria preferita; a Brescia, s’intende. La nuova sede – dico nuova perché pochi anni fa era da un’altra parte, ci andai a fare colazione e non mi entusiasmò – si trova in Corso Cavour, civico 32. Si trova proprio nella parrocchia di Sant’Alessandro a due passi dalla chiesa dedicata, dove si può osservare tra gli altri il capolavoro ricolmo d’oro di Jacopo Bellini, una delle più belle rappresentazioni dell’Annunciazione dell’arte moderna in Italia.
Così dopo aver fatto due passi, dopo essermi goduto la pregevole opera veneziana, e fattomi venire un appetito dignitoso, mi intrufolo nella pasticceria dalla nuova veste.
Sarà l’accogliente color Tiffany delle pareti (a grosse righe che mi ricordano Buren) con cui sono avvolto; o per la divisa delle giovani ragazze, gentilissime, che mi servono, in camicetta bianca e fiocchetto nero al collo; o per la qualità dei pasticcini. Naturalmente per tutte queste cose.
La crema con cui sono farcite le veneziane è libidinosa e giustamente equilibrata, i macarons sottilmente e impercettibilmente croccanti all’esterno si sciolgono in bocca, la sfoglia delle sfogliatine croccantissima. Peccato per il cappuccino, troppo schiumoso, tessuto grande della montatura che sembra un compattato d’aria. E per le tazzine grosse e grossolane che mi danno una sgradevole sensazione sulle labbra.
Ma le qualità superano i difetti, e così pasciuto pago il conto, soddisfatto e un po’ più dolce.
L’origine delle principesse Disney è umana o divina? E non mi riferisco all’origine mitologica o leggendaria, quella che ha a che fare con la narrazione, cioè con la storia – fiaba, leggenda o favola che sia – di cui sono protagoniste.
Sì sa, spesso queste sono di nascita regale, travagliate durante l’adolescenza da figure parentali subalterne e malvagie (come matrigne), il cui destino però riserva un epilogo felice e festoso. Questo è per la Biancaneve dei fratelli Grimm, per la Sirenetta di Andersen, la Cenerentola di Perrault, per citarne alcune. Ma poco c’entra. L’origine a cui mi riferisco è di matrice iconografica e iconologica, estetica e artistica (nel senso di tékhne).
La Sirenetta, 1989
Per anni, da bambino, mi pascevo – inconsciamente – nella convinzione che i protagonisti dei film animati di Walt Disney, e in particolare le principesse, tutte diverse ma a loro modo tutte incantevoli (nel mero senso del termine), fossero esseri assoluti e sempre esistiti. Era impossibile pensare che quelle creature fossero disegnate da mano d’uomo: ma come, esseri così puri, dai colori squillanti, nitidi, perfetti; principesse meravigliose, dai grandi occhioni e dai tratti sinuosi e armonici, create dalla mano volgare dell’uomo?
Nella mia eccitazione bambina, senza saperlo ammiravo delle figure sullo schermo allo stesso modo dei mistici in contemplazione delle icone sacre acheropite, ossia di “origine soprannaturale”, “non eseguite” da artisti o altra persona umana. In altre parole, guardavo alla bella e bionda Cenerentola un po’ come i bizantini guardavano alle loro Madonne dell’iconostasi – ma non per pregarle, ovvio.
Non credo mi sia mai posto il problema sull’origine delle principesse e dei disegni animati della Disney. Ma sicuramente me lo pongo ora, dopo aver visitato la mostra al Mudec di Milano, dedicata alla Disney e in particolare al procedimento con cui l’idea diventa disegno e infine animazione.
Disney. L’arte di raccontare storie senza tempo (dal 2 settembre 2021 – 13 febbraio 2022, promossa dal Comune di Milano-Cultura e prodotta da 24 ORE Cultura-Gruppo
24 ORE, a cura della Walt Disney Animation Research Library, con la collaborazione di
Federico Fiecconi, storico e critico del fumetto e del cinema di animazione) è una mostra strutturata in modo tale da essere coinvolgente per il bambino e attraente per l’adulto. Divisa per temi (fiabe, leggende, favole) e quindi per film (Pinocchio, La spada nella roccia, Biancaneve e i sette nani, La sirenetta, I tre porcellini; per citarne alcuni), permette la visione dell’abbozzo iniziale a matita, ovvero l’idea che parte di autori citati, del passaggio su fogli acetati e della risultante animazione.
Biancaneve, 1937
Di qui sorge il dubbio: può da un volgare seppur eccellente schizzo a matita, dal tratto sprezzante, compendiario e veloce, nascere l’ammiccante e fulgida Sirenetta? La candida e pacata Biancaneve? La malinconica e puerile Bella Addormenta nel bosco?
Quella del Mudec è una piacevolissima e suggestiva mostra, senza dubbio; ma anche amara. Ah, mie principesse… quale disillusione!
Mi stavo arrovellando sopra uno dei tanti libri di Ugo Fabietti, emerito accademico italiano, in particolare sulla sua introduzione all’antropologia culturale (Elementi di antropologia culturale, Mondadori Università, 2015), poi però ho capito che è sufficiente qualche colazione in locali svariati per comprendere al meglio usi e costumi, ossia le differenze principali tra le culture e società di oggi.
Si prenda, a esempio, una mattinata passata tra una delle sedi della famosa catena americana, onnisciente e omologante, e la Pasticceria Marchesi, in via Montenapoleone a Milano.
Dalla prima, e penso alla sede di Piazza Cardusio, non ho che un ricordo algido: fila lunghissima per andare alla cassa, ordinare, pagare, fare la fila di nuovo, richiedere il prodotto pagato, portarselo al posto perché è escluso il servizio al tavolo (un percorso automatizzato e macchinoso); un fastidioso rumore che è la somma del mugugnare di molti e il vociferare di altri (quando non lo schiamazzo di alcuni); un ambiente reso alienante non solo dall’esorbitante numero di clienti ma anche e soprattutto dalla sala immensa e dispersiva, arredata con un design forzato e anonimo; dal cappuccino che è praticamente un secchiello di latte tiepido e caffè slavato (e del mangiare non parlo nemmeno).
Poi vado da Marchesi (pasticceriamarchesi.com), e è tutt’altra cosa: un ambiente intimo e assai accogliente, in cui mi rilasso e mi godo la colazione al meglio delle condizioni (stando seduto comodamente al mio posto). Sarà per le pareti tappezzate di verde veronese? Per la scansione ritmica e ordinata di vetrinette, su cui scorgo adagiati contenitori di piccola pasticceria in latta, stile vintage? Sarà per la qualità dei prodotti, per la crema pasticcera della veneziana, per il latte del cappuccino che è montato nel modo corretto (la tessitura è molto fine, il mio cappuccino è cremoso come deve essere)? O per l’eleganza e la cordialità di chi mi serve, per la loro divisa in livrea che fa pendant con le pareti?
Mentre medito sugli interrogativi, immerso in una verdissima e calda stanza, guardo ai miei compagni di colazione. Di fronte ho un gruppo di signorine, distinte e ben vestite, quasi certamente studentesse universitarie (una tra loro è accuratamente truccata e pettinata, bionda dai lineamenti est-europei, indossa un copricapo invernale e mi sembra Tamara de Lempicka). Oltre a un portamento composto, dimostrano capacità colloquiali, chiacchierano bene e gesticolano meglio.
Niente a che vedere con i frenetici, compulsivi e ansiogeni frequentatori filo-anglofoni di Piazza Cardusio, per lo più turisti mordi-e-fuggi, signorotti e signorotte esterofili maniaci dell’internazionalismo a tutti i costi, ragazzini dipendenti dalle geolocalizzazioni, camerieri frettolosi con le cuffiette…
È certamente, in entrambi i casi, un bellissimo e gustoso spettacolo, che è altresì una lezione antropologica, chiara e immediata… insomma, dimmi dove fai colazione e ti dirò chi sei.
Mangiare il Casu Martzu è un’esperienza purtroppo che pochi hanno l’opportunità di provare, e che dovrebbe diventare consuetudine, una “merenda” (come mi fanno sognare), se non fosse per la sua persecuzione ingiusta e ingiustificata.
Prodotto desueto e rarissimo, difficilissimo da reperire ma non impossibile, il Casu Martzu (ossia “formaggio marcio” in sardo) è forse tra gli ultimi baluardi di resistenza al conformismo culinario (e non solo) che sta uniformando e appiattendo il gusto delle nuove generazioni.
Non è cosa per chi è avvezzo a verdurine e hamburger di soia; ma non si addice nemmeno a chi mangia pollo e cotolette inscatolate del supermercato. È un cibo estremo e per i pochi che ancora apprezzano la gastronomia vera e diversificata delle varie regioni, soprattutto italiane, dotata di così tante sfumature che nemmeno si può averne una idea.
Il profumo è acre, pungente e dilagante e potrebbe allontanare una buona parte di persone; se tra queste poi qualcuno resistesse, si lascerebbe impressionare facilmente da tutte quelle mosche e larve incastonate come pois sulla superficie della forma.
Questo straordinario formaggio, infatti, normalmente pecorino, è il risultato dell’azione della cosiddetta piophila casei, ossia la mosca casearia: questa nel periodo favorevole della primavera e dell’estate depone le uova all’interno della forma; le larve che da esse fuoriescono trasformano, tramite enzimi particolari, la pasta casearia in morbidissima crema.
Il cibo a me non schifa mai, soprattutto se è così raro, soprattutto se rappresenta la secolare storia di un popolo (quello dei sardi) e di un Paese (il mio, l’Italia). Qui si incrociano la cultura all’aspetto sociale, l’antropologia alla gastronomia, la Bibbia (si legga il secondo libro di Samuele 17,29) al costume. Solo lo stolto può storcere il naso (e chiudere la bocca).
Mangio il Casu Martzu in modo a me non consueto, ovvero con parsimonia perché voglio godermi al palato ognuna delle mille sensazioni che mi esplodono in bocca a ogni imboccata. È una strana estasi quella che provo; poi subentra l’orgoglio patriottico, e poi la sazietà (è cibo piuttosto pesante).
Infine sono appagato: ho mangiato la storia e, insieme, la resistenza in forma culinaria all’uniformazione massificata del gusto.
Sarà per un’eccessiva sensibilità di chi scrive: ma se al ristorante sono servito (il termine è gergo, pace per i politicamente corretti) da una cameriera mirabilmente e soavemente profumata, la mia cena è rovinata. E si pensi se la cameriera è pure avvenente e imbevuta del miglior profumo che a una ragazza si possa regalare!
Scrive Lorenzo Villanesi, il grande profumiere demiurgo, che “una fragranza… è un mondo fatto di visioni, emozioni, immagini e ricordi altrimenti difficilmente definibili, mai veramente traducibili, indecifrabili”. Il profumo crea “mondi e visioni sempre nuove, accompagnate da una profonda carica emozionale e di sensualità” (G. Squillace, Il profumo nel mondo antico, Olschki eidtore, 2020).
Io sono facilmente vulnerabile, e così, se sono al tavolo e per giunta di un notevole ristorante e la cameriera è avvolta da un aroma lezioso e provocante, la mia attenzione è confusa, ridotta, deviata dal sublime profumo prima (e, eventualmente, dalle seducenti forme poi). Non riesco a apprezzare appieno le prelibatezze che ho nel piatto; il vino “respira” (rubo il termine a Luigi Moio), provo a inalare e non sento nulla, assuefatto da chi mi ha servito.
Tanto valeva un panino d’asporto: meno carica emozionale, ma più libidine per il palato.
Luciano Cardo
Nella foto: Shelly Johnson (Mädchen Amick ) nella serie televisiva I segreti di Twin Peaks, David Lynch