GOYA, L’ARTISTA CHE INCARNÒ IL SUO TEMPO. A Palazzo Reale di Milano il percorso del maestro che ha coinciso con la trasformazione della sua epoca

Metà mattinata di un giovedì anonimo, fine febbraio; piove, umidità e fa piuttosto freddo. È la giornata ideale per inoltrarsi nel centro di Milano, il giorno giusto per vedere con tranquillità una mostra. Infatti in Piazza Duomo l’area è per lo più sgombra, resistono i soliti esotici da foto in posa (povera Madunina, ridotta a sfondo per selfie), ma niente fermento, niente caos. Strano! Che bello!, penso andando in sollucchero. Ma infatti è solo l’illusione del provinciale: Palazzo Reale è stracolmo, ahimè.

Mi trovo a Milano perché sono gli ultimi giorni della mostra Goya. La ribellione della ragione, a cura di Víctor Nieto Alcaide, e allestita a Palazzo Reale (fino al 3 marzo). Io le mostre sono abituato, o a guardarle (con gli occhi della ratio) prossime all’apertura se non addirittura in anteprima, oppure, a seconda dei sentimenti, del tempo, del tema o della voglia preferisco beneficiarne (con gli occhi dei sentimenti e delle emozioni) verso la loro fine. Essere tra gli ultimi partecipi di una mostra è ancora più emozionante che esserlo tra i primi: la quiete e la pace di ciò che è stato, la decadenza di ciò che sta per finire; i commenti, le parole, i passi di chi è passato come se fossero racchiusi ancora tra quei muri.

Ma stavolta niente atmosfera, niente poesia. Quello che incontro varcando la biglietteria ha del tragicomico, del fantozziano: gente frettolosa e nervosa, pensionati distratti, vecchie coppie sposate intente a installare l’app delle audioguide (senza fortuna), scolaresche ingombranti e dal chiacchierio fastidioso, studenti da chat deambulanti. Provo a farmi largo stando attento a non fare del male a nessuno, muoversi nella penombra senza precauzioni potrebbe essere pericoloso. In tutta questa accozzaglia mi viene più semplice ascoltare e vedere il pubblico che non Goya.

Cosa avrebbe detto Huysmans? Mi sembra sentirlo in un quelle sale affollate.. pane per i suoi denti; chissà. Ma niente, espletata la piccola polemica… Goya.

Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828), per noi ora grazie a Dio solo Goya, fu artista colto, pittore di corte e della monarchia spagnola, testimone visivo degli eventi succeduti tra il secolo XVIII e il secolo XIX, direttore della Reale Accademia di San Fernando e, soprattutto, ideatore di iconografie e linguaggi pittorici inediti sino a allora. Fu integrato così bene alla sua epoca (certo grazie alle solide amicizie di intellettuali illuminati – correva a gonfie vele l’Illuminismo), tanto da incarnarla come artista.

Un’epoca tormentata, di cambiamenti, trasformazioni, avvenimenti politici, sociali, ideologici, che per Goya significano trasformazione stilistica, razionale, pittorica, iconografica. Accademico esemplare prima, via via rinuncia ai modelli topici per crearne di nuovi e personali; spezza la pennellata consuetudinaria, scegliendo un tocco identitario, gestuale, emotivo e al contempo mentale (niente di improvvisato: come la razionalità dell’Illuminismo, tutto andava provato, esaminato, confermato). L’arte di Goya si identifica con la sua vita, fatta di evoluzione e mutamento continui fino alla morte.

Bambini che giocano alla corrida, 1785

L’allestimento della mostra è un tutt’uno con l’apparato critico. L’itinerario simbolico “dalla luce al buio” equivale alla progressiva trasformazione artistica del maestro spagnolo, dai dipinti accademici (dalla cromia più chiara e luminosa) agli orrori della guerra (molto dark). La divisione in stanze come in capitoli mette in evidenza, in modo piuttosto didattico, l’opera lunga e variegata di Goya. C’è tanto gioco (bene, perché Goya lo si pensa solo pittore di tenebra e terrore), tanti bambini che si divertono (bene, perché Goya lo si pensa pittore di soldati crudeli), qualche fanciulla (bene, perché rasserenano e rendono più accattivanti le mostre), tanti ritratti.

María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán, 1804

Il maestro spagnolo, ovviamente, è anche formidabile elogiatore della corrida (tauromachia moderna). E non solo. Goya è precursore dell’antiaccademismo, nonostante, o anzi in virtù del ruolo di direttore. Non sapevo fosse così brillante insegnante. Dice ai giovani allievi dell’Accademia: “non ci sono regole in pittura… l’obbligo servile di far studiare  o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino” (1792).

Rende nel piccolo formato come nel grande, nell’olio come nell’acquaforte (sono parte importante di questa mostra le stampe e le matrici, restaurate per l’occasione), su commissione sia sciolto da committenza repressiva. La cattura di cristo, del 1799 anticipa il Novecento: il non-finito, la pennellata sprezzante, la pittura compendiaria. La Vergine con Gioacchino e Anna (1786) è il passo intermedio tra Masaccio e Felice Casorati.

Emergono aspetti caratteriali notevoli. Si atteggiava da Vate, e la dannunzianissima lapidaria sentenza “ho ormai stabilito uno stile di vita invidiabile, e se qualcuno vuole qualcosa da me deve venire da me” (1786), ne è testimonianza gagliarda. Il contatto con l’Illuminismo dilagante e pervasivo lo fa colto, lo coinvolge nella politica e nell’attualità. Con questa è come se gli occhi gli si fossero aperti un’altra volta, vedesse in modo altro: una nuova realtà, più criptica e enigmatica, che necessita di un cambio di stile. Di colore, di sentimento. In Gaspar Melchor de J. (1798) recupera il tema iconografico della melanconia, dandone inedita vita.

Gaspar Melchor de Jovellanos, 1798

Sarò noioso: ma la parte più interessante per me resta il truce, violento e folgorante periodo dei mostri,  della morte , delle tenebre. A partire dai Capricci del 1797 si avvia un mondo tutto suo (il suo sentire che esce allo scoperto), ermetico, sordido e angoscioso, dove l’incubo è realtà e la realtà incubo. Flagellanti, inquisizione, matti e manicomio, soprusi, sadismo, malvagità in genere. Un De Sade molto raffinato (che era per altro suo contemporaneo), e un Pasolini delle 120 Giornate prima di Pasolini (si veda Il manicomio, 1812). Grottesco terrificante e depravato. Come il ritratto di Tio Paquete, somigliante al Salvatore – Ron Perlman del Nome della Rosa (Jean-Jacques Annaud, 1986), celebre per il suo “penitenziagite”.

Il manicomio, 1812

Mentre squilla un telefonino con suoneria altissime (sigh!),  e una guardia invano rimprovera la vetusta signora colpevole del misfatto (che vuole avere pure ragione), mi trasporto – sempre stando attento a non pestare i piedi a nessuno o a inciampare – alla sezione dedicata alla guerra. Buio completo. E strascichi rosso sangue alle pareti. Perfettamente incastonate in questa cornice, le opere di Goya mi fanno tornare in mente, e sentirle fisicamente,  la voce indelebile del colonnello Kurtz – Marlon Brando, “l’orrore… l’orrore” (Apocalypse Now, regia di F. F. Coppola, fotografia di V. Storaro, 1979). Infatti pittura di guerra in Goya coincide con pittura dell’orrore. Fucilati, storpi, stragi, popolazioni massacrate, mutilati, corpi squarciati, pezzi di braccia a penzoloni… un macello di vite umane.

Il Colosso, 1808

Goya aprirà la porta a una strada dell’arte contemporanea; l’altra, parallela, sarà aperta dal contemporaneo Turner. Un’artista che conosce perfettamente il passato, spalanca il futuro, e si identifica col suo tempo; mi viene da pensare: abbiamo, o avremo, un goya che incarni la nostra, di epoca?

DP

AL VITTORIALE DEGLI ITALIANI RIVIVONO LE AMANTI DI D’ANNUNZIO. “I Censurati”, la mostra di Camillo Langone. E un libro, che scotta ancora, di Giordano Bruno Guerri

Arrivo alle porte del Vittoriale degli Italiani, Villa Adriana dei tempi nostri, in quello splendido comune di quello splendidissimo luogo del Garda che è Gardone Riviera, e un pensiero mi torna alla mente, caldo e limpido come fosse lì lì reale e concreto. Lo rileggo: “a volte, l’offerta supera a tal punto la domanda che d’Annunzio preferisce negarsi. L’affollamento al cancello del Vittoriale lo spinge al sacrificio della cernita”. Sono le parole di Giordano Bruno Guerri prese da un libro, un classico ormai indispensabile, che a prenderlo in mano ancora pulsa, scotta, di vita e bellezza, manie e vizi, amori, passioni: mai nessuno, credo, è riuscito a penetrare la vita del Vate così profondamente nel suo intimo e a restituircela – coinvolgendoci come se fossimo partecipi collaboratori, comparse della stessa pièce – come ha fatto Guerri ne La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele d’Annunzio (Mondadori,2013).

Ma “affollamento”, addirittura! Si sa che d’Annunzio era grande amatore, aveva avuto tantissime amanti; ma tanta richiesta, la fila fuori da casa! Ma quanti anni ha vissuto d’Annunzio? secoli!? E quante donne ha avuto!? Eppure a rileggere Guerri la cosa – per il Vate, è chiaro – è scontata. Generoso (ricopriva di regali, costosi e raffinati, ogni amante), esteta, formidabile a letto, uomo di fama e prodigi (in tutto l’Occidente se ne parlava come grande letterato e come eroe coraggioso, si veda l’impresa di Fiume)… quale donna avrebbe rinunciato a diventare sua “badessa” e chiudersi per un “capitolo notturno” nella sontuosa Stanza della Leda, il luogo sacro e profano in cui si consumavano gli incontri amorosi?

Quanta pazienza, quanto rigore nel libro di Guerri, in cui la sprezzatura dello storico riesce a nascondere il grande lavoro di ricerca e riordino delle fonti (diari e lettere per lo più) a favore di una narrazione romanzesca (che di romanzo non ha nulla) con una visione insieme distaccata e affettuosa. La base del libro sono le memorie di Aélis, ossia Amélie Mazoyer, la sua cameriera (e amante, è ovvio) di fiducia, “la donna che più di tutte e più a lungo assistette alle sue imprese erotiche”, per usare le parole dell’autore. Di qui un’avventura, o meglio, una storia di infinite avventure – squisitamente erotiche ma per nulla pornografiche – che si dipanano lungo tutta la permanenza del Vate nella sua dimora, dal 1921, a 58 anni, fino alla morte, avvenuta di colpo (“si era sempre augurato una morte folgorante e fuori dal letto, e ottenne anche quella”) l’1 marzo 1938.

Roberto Ferri, Le tentazioni di sant’Antonio, 2023

Avventure che rivivono ora grazie a una mostra curata da Camillo Langone, I Censurati. Nudo e censura nell’arte italiana d’oggi – il  motivo per cui mi trovo al Vittoriale –  in cui ogni opera è accostabile, almeno secondo la mia viziosa fantasia, a ognuna delle amanti possedute dal Vate e tanto bene descritte da Guerri. Un valido memento delle imprese amorose consumate in questi locali, insomma. Una mostra in cui a prevalere sono la figura e la pittura (del resto il curatore lo ha ribadito poco tempo fa: “la pittura è la sintesi delle arti, linguaggio immediato e universale capace di concentrare il mondo in un metro quadrato di tela”, scrive a proposito del Premio Eccellenti Pittori – Brazzale). E dove c’è tanta, tantissima carne, tantissime “artistiche tette”, un carnevale di capezzoli.

Immagino che anche Langone abbia dovuto effettuare una grande cernita di opere di nudo (“l’affollamento al cancello” dev’essere cospicuo). Titolo e sottotitolo sono esplicativi: la cornice tematica della mostra è in sintesi la censura da parte dei social di alcune opere di artisti viventi, il cui mezzo di comunicazione però è fondamentale per il proprio lavoro. “I pittori viventi nei musei non ci sono e per loro la vetrina di Instagram è vitale”, scrive Langone, “un  quadro  che  non  compare  su  internet praticamente non esiste… Bloccare il profilo di un pittore è molto vicino a impedirgli di dipingere”.

E aggiunge, sempre il curatore: “la censura è cronaca, un fenomeno che digitale e correttezza politica hanno rilanciato e oggi si rivela in espansione in ogni parte del mondo e in ogni ambito culturale. Pertanto I Censurati è mostra di urgente attualità: espone i nudi recenti, censurati o comunque censurabili, dei migliori artisti italiani viventi che si sono cimentati con tale classicissimo genere”.

Sulla rapporto tra censura e arte contemporanea, arte e politicamente corretto tanto ci sarebbe da pensare e da dire (così veloce mi vengono in mente due titoli, L’arte sotto controllo di Carole Talon-Hugon e La cultura del piagnisteo di Robert Hughes, editi qua in Italia rispettivamente da Johan&Levi e Adelphi. E qualche artista; per fare qualche nome: Woody Allen, Balthus, Schiele, Waterhouse). “Destituire il capezzolo sia destituire la donna, la maternità, la riproduzione sessuata?”, si chiede Langone. Insomma, attualità buia e distopica cronaca: questioni troppo stressanti. E poi ciò mi porterebbe a vedere la mostra con occhiali tristissimi , e io sono più avvezzo al bicchiere mezzo pieno (e sono di quelli che lo vorrebbe sempre pieno), e quindi nella mostra del Vittoriale ci vedo solo edonismo: sofisticato e dannunzianissimo edonismo.

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I Censurati è un’esposizione chiara, pulita, essenziale – come il bianco della pareti dell’edificio, come il catalogo edito da Liberilibri, come la prosa del curatore – e il contrasto tra l’ambiente ascetico di questa con l’horror vacui della Prioria rende ancora più interessante l’impatto all’entrata di Villa Mirabella. La mostra si svolge idealmente tra due poli, tra due opere di due artisti tra i principali del panorama italiano contemporaneo, opposti tra loro, ma egualmente formidabili: Enrico Robusti – dal vorticoso e spaesante dinamismo, dalla spumeggiante e scoppiettante energia, tutto un turbinio di cose, quasi fosse un lambrusco rifermentato in bottiglia (infatti l’artista è emiliano) – e Giovanni Iudice – dall’atmosfera distesa e languida, morbida e calda, e setosa (un passito di Pantelleria?).

Proprio come il ritiro gardesano di d’Annunzio, dipanatosi tra le figure di due donne per temperamento, carattere e provenienza diametralmente opposte, ma unite dal comune affetto e dalla stessa passione per il Vate (entrambe lo accompagneranno, nonostante tutto, fino alla morte): Aélis e Luisa Baccara.

Di Aélis, l’autrice del diario sopramenzionato, la governante “amica-servitrice”, la confidente numero uno del ‘priore’, col tempo pure l’amante, la “complice, ruffiana e all’occorrenza terza di un triangolo”, si sappia che deve il suo nome a, per usare le parole di Guerri, “un’abilita non comune nella fellatio”. Il nome ‘aélis’, infatti, è un richiamo al francese hélice, elica. Tra tutte le donne del Vittoriale è l’unica che rimane sempre al centro della scena, e quella che viene trattata con un rispetto singolare, quasi di affettuosa amicizia. Una donna di origini umili, ma dal carattere autorevole, ricca di vitalità, mai ferma, briosa.

Di Luisa Baccara, detta Smikrà, la convivente veneziana, l’amante ‘ufficiale’ si potrebbe dire, pianista e di origini altolocate, l’immagine si fa più melanconica. Innamorata di un amore autodistruttivo e praticamente inutile, gelosa e rancorosa, Luisa non sarà mai capace di lasciare il Vittoriale, facendosi abbandonare a una dolce sofferenza, fatta di speranza e ricordi (d’Annunzio la paragonava nel corteggiamento alle figure di Giorgione).

Ecco perché mi compiaccio del mio personalissimo doppio accostamento: Aèlis-Robusti e Baccara-Iudice.

Daniele Galliano, Senza titolo. Collezione Adele Barbetta, Nardò, 2022

Esiste tra le amanti ‘quotidiane’, per così dire, la cameriera Emilia. L’immagine che se ne ricava non è delle più virtuose, anzi, è piuttosto viziosa la ragazza. È testarda e spesso mette il muso, di qui il nomignolo di ‘caporale’; fa uso di droga (colpa di d’Annunzio), è nostrana, gardonese “di piacevole aspetto, molto disponibile alle necessità sessuali del Comandante”. E ben si identifica con la ninfetta di Daniele Galliano, una giovanissima vicino a certi soggetti di Casorati, dallo sfogo eloquente di un amore sfrenato e passionale, il cui stile compendiario del pittore e lo sfumato dell’acquerello ne accentuano ancora più la voluttà. Morirà, poveretta, di tubercolosi.

Daniele Vezzani, Donna che scende le scale, 2020

È fatto minore che il Vate si sposò giovanissimo e ebbe figli nel fiore della gioventù e della carriera letteraria (sono gli anni de Il piacere), a Roma e di nascosto (scappando) con una ragazza di origini nobili, figlia di duca, ingenua e innamorata: Maria Hardouin, “bionda, delicata, esile, occhi celesti”. Non più ripagata dal marito e di conseguenza ai suoi comportamenti tentò il suicidio. Col tempo la prende con filosofia, capisce che avercela col marito sarebbe stato dannoso per lei e lo lascia alla sua vita. È soddisfatta comunque del successo del poeta, e non mancarono le visite al Vittoriale. Discreta e elegante abbandona la scena con leggerezza e disinvoltura, come la Donna che scende le scale di Daniele Vezzani.

Giuseppe Vassallo, Risacca , 2020

È risaputo, invece, che d’Annunzio era fissato col divismo. Il rapporto con Eleonora Duse, la “morta venerata”, è però un mistero; e tale resterà. Così come ignoto rimarrà il rapporto (rapporto?) tra la coppia di giovani di Giuseppe Vassallo.

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Il Vittoriale ai tempi di d’Annunzio, a leggere il libro di Guerri pare un porto di mare: amanti che vanno e vengono, donne, ragazze di ogni età, nazionalità, estrazione sociale. Ci passa una Melitta, specie di Lolita popolana, una ninfa plebea di Rea ma gardonese. Già sposata varcò le soglie della Leda la prima volta a fine giornata lavorativa (in merceria a fianco del marito). Ragazza gracile e nominata ‘la piagnucolosa’, dopo un periodo focoso è presto relegata a subalterna, a soluzione di riserva. Ma non rinuncia Melitta, né ai ‘capitoli’ né ai generosi regali che ne scaturivano. E attende, come la donna distesa a terra, stralunata e impassibile del Self Portrait di Michele Moro.

Michele Moro, Self Portrait , 2019

Sempre di Michele Moro è il ritratto in poltrona di una donna matura, dal portamento distinto e dallo sguardo sicuro, penetrante. Segno di carattere forte, sicurezza di sé; lo sguardo e il portamento di una donna appagata che ancora sa cosa vuole, e sa come ottenerlo. Un po’ come Margherita Keller, sposa del conte Piero Besozzi di Castelbesozzo, amante del Vate a più riprese con il nome di Fiammadoro. “Per quanto lunga, la relazione fu saltuaria, benché la donna fosse avventurosa e nobile, bella e disinibita, come piaceva a lui”.

Michele Moro, Come spiegare la pittura ad un’anatra morta, 2018

Da grande esibizionista, a d’Annunzio piace chi sa esibirsi; fra le sue concupite spesso ci sono attrici. Maria Antonietta Bartoli Avveduti, “incarnazione della seduttrice”, è una di queste. Brava attrice, scaltra e esibizionista è capace di fingere, entrare nei ruoli via via ordinati dal Comandante. Elena Sangro – questo il nome da amante – “ha il fisico giusto per interpretare ruoli scabrosi”, annota Guerri, “donna fatale o ninfa dei boschi, fibra vegetale o bestia rapida”. Perfetta. O meglio, quasi perfetta: commette il grave errore di lucrare sui doni del Vate, e quindi oltraggiare la sua generosità. Finisce alla porta senza remore. E sì che recitava bene (appare in un film per l’ultima volta in 8 ½ di Fellini); come bene recita la nuova Ophelia “Post-Pre-Raffaellita” di Jara Marzulli.

Jara Marzulli, Poetica della liberazione, 2020

Nella Stanza della Leda si alternano nobildonne a prostitute miserande, senza distinzioni di sorta. Perciò non stupisce la presenza di Esther Pizzuti, ribattezzata Lazzarina, una prostituta di origini milanesi dotata di un’innata bellezza. Invano l’Esteta le rimprovera il cattivo gusto, l’ostinazione riottosa, la “vita volgare” passata tra “trattorie vinose”, e l’avidità. Si ammalò anche lei di tubercolosi, e il Vate si premurò di coprire tutte le spese per i due anni di sanatorio, dove soggiornò, fino alla morte.

Non mancano amanti bizzarre. Consuelo Gòmez Carillo detta la Spagnola non è bella, ma ha dalla sua un lato animalesco e perturbante. Viene appellata come “maschia”, definita come una “scimmietta con orecchie da asino”, “una giovane barbara, originaria d’una tra le più feroci tribù messicane”, si atteggia con “balzi di lupa cerviera”, beve champagne mescolato a profumo, “alterna atteggiamenti da svampita ninfomane a pentimenti pudibondi e tardivi”… insomma, un’invasata. Si sposò due anni dopo aver conosciuto d’Annunzio con l’autore del Piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry.

Ma le diavolette sbucano da ogni parte, e non mancano certo nella piccola Gardone. Qui infatti troviamo una giovane sartina, una ragazza di basso ceto “più voluttuosa e frenetica dell’Alba”. Si chiama Angela Panizza, ma a leggere il Vate “Angioletta è più diabolica… non ho mai visto una tale estasi e una tale adorazione languida e furiosa, di volta in volta, davanti al Principino”. Libidine.

Riccardo Mannelli, “l’artista più censurato d’Italia, il Maestro della Carne, il supremo di segnatore di nudi femminili, più anatomista perfino di Courbet” (Langone), coi sui ritratti evoca con eloquenza queste tre satanasse del sesso.

Tra le infinite relazioni di Gabriele d’Annunzio si segnalano anche alcuni  due di picche. Il più celebre è certamente il rapporto non-rapporto con Tamara de Lempicka. È già una pittrice famosa quando conosce il letterato, infatti si trova al Vittoriale “per sfruttare un mito, non per venerarlo”. È bella, giovane ma soprattutto ha un “fascino da capricciosa che conosce la malia della ritrosia”, una femme-fatale, benzina per il Vate. Tamara è ambigua, dice e non dice, “annunzia e poi ritratta, si propone e si ritira”, e Gabriele “finisce per cedere all’errore comune di ambire con ansia sempre maggiore a una preda che si nega, leziosa con le sue moine”. Un tira e molla per anni e anni, che lascerà a d’Annunzio l’amaro in bocca, la triste realtà di non avercela fatta a compiere l’impresa. Tamara si comporta un po’ come la protagonista di Black Box 3 di Tommaso Ottieri: lei la camicetta te l’ha aperta; ma siamo sicuri che poi te la dia?

Tommaso Ottieri, Black Box 3, 2023

Al Vittoriale tra il 1937-1938 si presenta un evento che come un uragano scuote e sovverte tutti gli ordini all’interno della “cittadella”: l’arrivo di Emy, la “tedesca”, una ragazza “bionda, evanescente come un fantasma”, una “enigmatica valchiria”, ignota e “glaciale”. Una spia? Si dice sia stata inviata al Vittoriale per uccidere a poco a poco d’Annunzio, somministrandogli a piccole dosi veleno e droga. Tale ipotesi non è mai stata confermata, e nemmeno smentita. Resta il mistero, come misteriosa è l’identità della donna a cui appartiene il latteo seno de L’isola, del gardesano Giuliano Guatta.

Giuliano Guatta, L’isola, 2023

E d’Annunzio? A giudicare con piglio da maliziosetti pare che più che il Vate il vero protagonista delle memorie gardonesi sia il suo organo sessuale. E infatti lui lo aveva ribattezzato, personificandolo, in vari modi: “Perno del mondo”, “Gonfalon selvaggio”, “Catapulta perpetua”, “Principino”, “Diavolo”, “Monachino di ferro”.

Omar Galliani, Iokanaan, 2003

E dunque eccolo rappresentato in forma monumentale dal maestro del disegno su tavola Omar Galliani in Iokanaan. Che ci sia pure una correlazione tra il  san Giovanni Battista della Salomè di Oscar Wilde e d’Annunzio? E quelle mani di chi sono? L’affollamento al cancello del Vittoriale era tale…

DP

SCUOLA E BELLEZZA SONO INDISSOLUBILMENTE LEGATE. Un libro di Enrica Buccarella per Topipittori ce lo ricorda

Ho letto, con imperdonabile ritardo, La scuola è un posto bellissimo di Enrica Buccarella. Il libro –  uscito qualche mese fa per Topipittori – è un delizioso cocktail di ingredienti fini e ricercati, sapientemente dosati e miscelati tra loro. Il pretesto dell’autrice è chiaro: riportare come in una sorta di diario la sua lunga esperienza di maestra, in cui far convogliare riflessioni, pareri, opinioni personali legati al mondo dell’insegnamento e della formazione dei più piccoli.

Ma grazie a un testo vivace e snello, scopro via via un supporto per laboratori artistici, uno strumento-guida da cui l’insegnante può attingere idee (e quante sono!) o comunque ispirarsi per attività e tecniche. Ma è anche un libro pregevolmente illustrato (e faccio notare che l’avverbio non è sempre, purtroppo, scontato) e per questo un libro per godere, uno stimolo alla fantasia. E poi sì, il libro della Buccarella è pure un manualetto teorico (competentemente sintetizzato) dalla ricca bibliografia, dove si approfondiscono, tra il resto, l’ arte infantile, la storia grafica degli alfabeti murari, gli illustratori e gli albi per l’infanzia (da cui l’autrice spesso parte per le sue attività, facendoli propri).

Si capisce, nei laboratori la maestra non tartassa i suoi studenti con nozioni; sulla scorta di Rothko (lezione 2: “attenzione a non reprimere la creatività di un bambino con una formazione accademica”; lezione 5: “pensa a coltivare pensatori creativi”), Buccarella si fa discreta aiutante e attenta osservatrice:  “Io mi sono limitata a fare domande”, scrive, “offrire materiali, invitare, incoraggiare e stimolare, e poi ho fatto da spettatrice”.

Non manca la verve polemica. Molto bene, e molto bella e molto accurata l’analisi dell’arte infantile analizzata a partire dal saggio dello storico dell’arte Corrado Ricci, L’arte dei bambini; e molto bene il monito della stessa autrice sul chiacchiericcio del bambino-artista-puro. A parte l’accusa – giusta e coraggiosa – su certa sciatteria, sulle fotocopie (!), e in generale al “modo in cui a scuola si offre ai bambini la possibilità di disegnare”, che “non aiuta il disegno espressivo”; all’uso della matita grigia piuttosto che direttamente dei colori, che nel disegno impedisce “l’espressività del segno, l’immediatezza e la freschezza dell’immagine e ne compromette gli aspetti dinamici”. Ma i bambini vanno guidati sempre, perché non dispongono di innate abilità artistiche come alcuni presumono. “Si tratta di un’idea che nasce da una visione idealizzata dell’infanzia”, spiega l’autrice, sostenendo che “tali idee siano ingombranti ingenuità adulte”.

In La scuola è un posto bellissimo, comunque, il filo conduttore lungo gli otto distinti capitoli è uno: trasformare il momento dell’imparare in meraviglia. I bambini vogliono sapere, ma non sempre vogliono imparare: ecco allora che diventa essenziale la figura del maestro. “Maestro è chi agisce per rivelare la meraviglia della scuola con tutte le opportunità che rappresenta”, scrive l’autrice con un tono profetico e iniziatico. Nel testo, a tratti molto (troppo) descrittivo e a tratti molto lirico (“…nascono virgole, semi che volano, fili d’erba, gocce di pioggia… le associazioni sono immediate”), tra citazioni importanti, riferimenti alti (Paul Valery, Chagall, Matisse, Klee…), e considerazioni illuminanti, scopro tante cose.

Nel primo capitolo, a esempio, dedicato al segno che “fa il disegno e anche la scrittura”, mi pascio dei molti “giochi” estetici dedicati allo scarabocchio, essendone un grande cultore (ottimo il riferimento a Munari, e al suo Prima del disegno), al punto e alla linea.

“Tracciare una linea è già raccontare. Una linea, come una storia, ha un punto d’origine, un inizio, e si svolge nello spazio come nel tempo. Attraversando il foglio, nel suo svolgersi continuo o interrotto, dritto o mosso, suggerisce a chi guarda vari accadimenti: avanzare, fermarsi, riprendere il cammino, cambiare direzione, salire, scendere, volteggiare, incontrare.”

Non sapevo nemmeno che Benjamin, il notissimo Walter Benjamin che conoscevo per la Scuola di Francoforte e altre cose noiose, avesse scritto un libro dedicato agli abbecedari (e che bello vederlo accostato a Gillo Dorfles e non a Adorno o alla “riproducibilità tecnica”, per una volta). Il capitolo in cui se ne parla, degli alfabetieri e abbecedari intendo, è il secondo (Maestra, cosa ho scritto?), e per me è il più bello e il più edonistico di tutti.

È un tripudio di grafica, di meraviglia, di bellezza. “Confesso di non riuscire a prescindere, nella didattica, dalla bellezza”, scrive Buccarella. “Sono convinta che dove vi sia bellezza ci siano anche, sempre, senso e logica. Per questo ritengo che l’aspetto didattico non debba essere disgiunto da quello estetico”.

Scuola e bellezza sono indissolubilmente legate; se quest’ultima manca, la scuola si riduce a freddo e sterile contenitore, in cui sciatte nozioni passano inerti da bocche piatte e rimproveranti a piccole orecchie curiose ma, inconsapevolmente, indisposte. Ben vengano i libri come questo che, ogni tanto, ce lo ricordano.

Damiano Perini

VEDERE KLIMT PER CONOSCERE LUIGI BONAZZA. Appunti sulla mostra “Klimt e l’arte italiana” al Mart di Rovereto

Ho fatto poco caso alle due opere di Gustav Klimt (1862-1918) esposte eccezionalmente al Mart di Rovereto in questi mesi. Giuditta II appartiene alla collezione di Ca’ Pesaro di Venezia, Le tre età della donna invece alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; entrambe sono capolavori del Novecento, è chiaro, e rappresentano il culmine dell’opera klimtiana, quella del periodo aureo. E c’ho fatto poco caso non tanto per pigrizia, ma perché la mostra allestita ora al Mart (Klimt e l’arte italiana, ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Beatrice Avanzi, fino al 18 giugno) vuole presentare al pubblico non le opere del maestro austriaco, bensì lo straordinario influsso di questo suo linguaggio innovativo sugli artisti e sull’arte italiana, specialmente nel Nord-est (Venezia, Trieste, Trento, Verona).

Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma

È un’idea tutta sgarbiana che da anni prosegue il Mart (ossia da quando Sgarbi ne è presidente), quella di far emergere artisti minori a partire da contesti più conosciuti. Klimt e l’arte italiana si va a abbracciare ora alla sua mostra gemella Giotto e il Novecento (concepita con la stessa idea, prorogata fino al 4 giugno) andando a formare un duetto complementare, importantissimo e anche eccitante (per gli studiosi, per i comunicatori, per gli insegnanti, o semplicemente per gli amanti del bello) che in Italia non ha eguali.

(Del resto, la riproduzione monumentale di Andrea Ravo Mattoni, il San Sebastiano che ci accoglie nel grande cavedio del museo, Eco of Antonello da Messina, è un memento-monumento, un omaggio al grande maestro e alla mostra su Antonello prodotta nel 2013 che, per la prima volta, proponeva un dialogo tra classico e contemporaneo.)

Andrea Ravo Mattoni, Eco of Antonello da Messina

Così come nella mostra dei giotteschi, in Klimt e l’arte italiana sono i klimtiani a dire la loro. Le due opere di Klimt sono il perno su cui ruota tutta la mostra e l’apparato critico, testimoniano il suo passaggio in Italia, insomma ci fanno capire da dove parte tutto. Che poi non è nemmeno troppo vero: perché a sua volta Klimt fu profondamente rapito, nei suoi viaggi italiani, Ravenna e Venezia in particolare, dall’arte antica del nostro Paese (i mosaici ravennati e della basilica di San Marco lo illuminarono: lo splendore e la bidimensionalità dei mosaici di San Vitale sono tutt’ora vivissimi e percepibili nelle opere di Klimt), generando quello che Avanzi definisce un “folgorante cortocircuito” – che in questa mostra è bene esibito.

Corteo di Teodora, mosaico a San Vitale, Ravenna

Klimt a parte, la mostra si apre con un’opera travolgente: A Babilonia di Cesare Saccaggi (1905), in dialogo con la Giuditta II, è la sintesi perfetta del simbolismo fin-de-siecle: esotismo, pietre preziose e femme fatale. Questa opera ci parla grazie alla seduzione, alla sensualità, alla sontuosità. L’uomo è ridotto a una povera fiera dominata da una donna superbamente ingioiellata e avvenente, dispotica e sicura di sé (la regina Semiramide, infatti).

L’ambito klimtiano veneziano è ben rappresentato. La mostra è anche una epitome di Vittorio Zecchin (1878-1947). Di Zecchin si può ammirare praticamente tutto, i ricami su mussola, le fiabe a olio su tela: piattissime quanto vive figure che fanno sognare luoghi bellissimi e impalpabili, fatti di bellissime silhouette femminili e gioielli ovunque; sagome dai colori squillanti e nitidi che animano il sogno, aiutano a vagheggiare. E poi i vetri soffiati, gli arazzi ricamati dai paesaggi incantati e sospesi, i mosaici, e ancora le principesse e damine eleganti e bizantineggianti, i ricami su organza per una tovaglia degli anni ‘20, bidimensionalità e ornamento (tanta l’eco dei Nabis). Figure elegantemente allungate, vestite con tessuti decorati da motivi a rosoni con dorature in rilievo: in Zecchin sta tutto il “fasto” e la “rigida opulenza” (M. Lenz) di Klimt.

Ma la mostra è anche  una panoramica su Galileo Chini (1873-1956) e le su monumentali tele decorative, una gradevolissima incessante pioggia di frutti, colori e donne. Tantissime donne, posate, dagli sguardi ammiccanti che rapiscono. L’influsso di Klimt, qui, è particolarmente evidente nella profusione di motivi ornamentali che alternano forme circolari e triangolari. Eclettico come Zecchin, Chini aspira all’arte totale e all’annullamento dei confini tra le arti. In lui l’antico si mischia al Preraffaellismo e al Liberty (mettendo le basi per quello che sarà l’Art Déco). Le dimensioni gigantesche delle tele amplificano la percezione di tutta questa profusione, rende tangibili i profumi che si animano dal fluire delle decorazioni; un tripudio di colori che fa perdere la testa, suscita meraviglia e insieme inganna (Metastasio), stordisce, tocca. Chini è per edonisti: frutti e fiori, scollature e sguardi voluttuosi: libidine pura.

Sorprendente è il caso di Felice Casorati (1883-1963). Prima di approdare al Realismo Magico che tutti conosciamo, infatti, nel periodo veronese (1911-1915) fa suo lo stile secessionista dando vita a opere originali, dove la rarefazione e la spiritualità si incontrano in paesaggi onirici e sospesi. “Sono diventato un visionario, un sognatore e non dipingo più che le immagini che vedo nei sogni: le notti stellate, gli esseri invisibili, gli spiriti puri, le allucinazioni…” scrive l’artista nel 1913, in una lettera a un’amica. Anche se il gusto per le fanciulle in fiore è qui già presente (si veda il nudo del 1913 che ne ricorda tanti altri: come quello conservato dallo stesso Mart, o come quello del Museo del Novecento di Milano), è iconica, in questo senso, l’opera esposta appartenuta alla Gam di Verona, La preghiera del 1914. Molto Giappone, molto Klimt, molto di onirico. Un’opera straordinariamente fine, delicata, lieve e raffinata.

Felice Casorati, La preghiera, 1914, Musei civici di Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti

Pare un ossimoro, data la sua leggerezza: ma ha un gran peso in questa rassegna pure Adolfo Wildt, il “Klimt della pittura” (Antonio Maraini),con le sue sculture e disegni, cariche di pathos, dall’esile linearità; e con tanto oro, ovviamente: ma, “se in Klimt la preziosità di questo materiale è una sorta di “inno alla gioia”, alla felicità dell’arte e al trionfo della sensualità, in Wildt, invece, è simbolo di santità, proprio come nella tradizione più antica dell’arte cristiana”. Poi ci sono tanti altri artisti, ovvio, come i cugini Marussig, Teodoro Wolf Ferrari, o Vito Timmel (Viktor von Thümmel), il più macabro e inquietante, lisergico quanto spaventoso.

La sorpresa più grande della mostra, però, è stata scoprire il trentinissimo (si badi al cognome) Luigi Bonazza (1977-1965). E dire che una delle opere esposte appartiene alla collezione permanente del Mart, e l’ho vista più e più volte; ma si sa, vedere non è guardare, e il contesto critico-filologico e quello spaziale giocano un ruolo fondamentale. Bonazza è praticamente allievo indiretto di Klimt. Nato a Arco di Trento, frequenta la Kunstgewerbeschule di Vienna tra il 1898 e il 1901, sotto la guida di Franz von Matsch, socio dei fratelli Klimt in numerose imprese decorative. Sono gli anni in cui si impone il nuovo linguaggio Jugendstil e il gusto della Secessione, e la pittura di Bonazza ne assorbe gli stimoli.

Luigi Bonazza, La leggenda di Orfeo – Rinascita d’Euridice – Morte d’Orfeo, 1905, Mart, Deposito SOSAT

In lui sogno, mito e allegoria si fondono in un modo originale e con uno stile personale e, se mi si fa passare il termine, dialettale. Scomparsa la sinuosità e la fluidità tipica di Chini, compare una più rigida e lignea conformazione della figura, meno curve e più spigoli, meno ornamento in favore di un’essenzialità granitica e immobile. Tanto blu, tanto buio, tanta profondità. L’opera di cui alludevo poco più sopra, La leggenda di Orfeo, a esempio, realizzata a Vienna nel 1905 è un’opera compiutamente secessionista, nella raffigurazione sospesa tra amore e morte, tra spirito apollineo e dionisiaco, nella struttura tripartita e nella preziosa cornice decorata in ottone e avorio con i simboli della Poesia e della Musica.

Vive in lui pure quella tendenza all’arte totale, principio fondante della Wiener Werkstätte, che troverà piena espressione nella decorazione della casa di Bonazza a Trento, dove il tema di Orfeo, caro a molti artisti di inizio secolo, ritorna in visioni notturne influenzate dalla poesia di d’Annunzio. In Klimt e l’arte italiana  è anche possibile scoprire tutta una serie di opere (Jovis Amores, 1912) da lui realizzate con le tecniche della punta secca e dell’acquatinta; disegni che certificano una grande abilità dell’artista trentino, e che fanno viaggiare nei meandri della concupiscenza. E sognare, volando sulle onde della bellezza. Ho fatto poco caso alle opere di Klimt; ma quelle di Bonazza sì, invece, che me le sono godute.

DP

 

IL WABI SABI EVANESCENTE DI MITSUYASU HATAKEDA

L’artista Mitsuyasu Hatakeda, durante il vernissage della sua mostra al Mo.Ca di Brescia (MAb Bipersonale ALFI + MITSUYASU, fino al 21 aprile) mi confessa che, molto prima di leggere la mia presentazione dedicata per l’occasione. , ha conosciuto (“ho incontrato”, mi dice) la parola “Wabi sabi” a 12 anni. “E avevo 12 anni quando ho posto la domanda a mia madre. Mia madre rispose: ‘nemmeno io lo capisco, è difficile da spiegare”, mi confessa l’artista.

“Quell’anno mi portò a Kyoto”, prosegue Mitsuyasu, “e iniziò il mio viaggio nel significato di wabi sabi. Mi innamorai della cultura giapponese. Successivamente studiai i giardini giapponesi all’università per imparare il cuore di essi, andandoli a visitare ogni giorno: il wabi sabi può essere trovato ovunque”.

Il termine “Wabi sabi” è stato coniato per noi occidentali da un artista-filosofo occidentale che per anni ha lavorato e vissuto in Oriente, e precisamente proprio in Giappone, per identificare un determinato tipo di estetica. E così occidentale conserva tutta la sua forma-mentis, la sua classificazione e teorizzazione.

Leonard Koren infatti, il teorico a cui alludo, ha racchiuso un mondo intero in un libretto di poche efficacissime pagine, forgiando di fatto un manifesto. Scrive l’autore in Altri Pensieri (1994): “Il wabi sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute; la bellezza delle cose umili e modeste; la bellezza delle cose insolite”. Una riflessione non su principi astratti, ma semplicemente sulla “materialità”.

Wabi sabi insomma valorizza la povertà dei mezzi e la quintessenza delle cose, ripudiando ciò che è artificioso; è l’elogio dell’imperfetto e dell’irregolare, e al contempo il rifiuto di ciò raffinato. Ecco allora che quello che per gli orientali è normale vita quotidiana, per un uomo occidentale – derivante inevitabilmente dalla scolastica tomistica – diventa oggetto di studio e elencazione.

http://moment.jp/
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A Mitsu – lo chiamo amichevolmente – il wabi sabi gli appartiene. E per questo che a Leonard Koren lo accosto; a far sì, in altre parole, che si leggesse la sua opera sotto la torbidissima e velatissima luce del Wabi sabi. “Il wabi sabi”, mi confessa ancora l’artista, “può essere descritto come ‘bellezza del transitorio’, ma non è così semplice. Bisogna sentirla. Non si scappa dalla morte, la si affronta.”

Mitsuyasu Hatakeda è un artista eclettico, multiforme, incline alla ricerca e alla sperimentazione; nella sua vita ha adoperato praticamente tutto il possibile per fare arte: dall’inchiostro all’olio, dall’acrilico alla vernice; su tela o tavola o carta (quella di riso, quella figa, quella giapponese che raramente si trova e ancor più raramente si utilizza). Eppoi il ferro. Ecco, il ferro è il protagonista della sua ultima mostra di cui accennavo più sopra.

Mediante il filo di ferro – il materiale che usa è sempre di scarto – Mitsu dà vita a delle figure, o parti di esse, che richiamano espressioni, vizi e virtù del mondo reale. Sono opere ossimoriche per tanti motivi. Innanzitutto sono delle sagome che appaiono (e dico appaiono) bidimensionali e inanimate; ma basta darci un occhio per scoprire quanta vita possiedono queste statue (e dico statue) che si innalzano dal suolo oppure svolazzano sciolte nell’aria.

E poi quanta leggerezza! Mitsuyasu, con un istinto che è tutto orientale, riesce a donare una lievità e una libertà di movimento (sinuosità) sorprendenti al materiale per eccellenza carico di pesantezza e rigidità. Certo, è il frutto di una tecnica paziente e di una sprezzatura frutto di anni e anni di lavoro, non  l’improvvisazione di uno sprovveduto (non esiste improvvisazione nell’arte). Il ferro quindi, con Mitsuyasu Hatakeda, fluttua e si modella a piacimento generando dei contrasti di pieno e vuoto, di luce e ombra. E è questo il punto.

Perché se il protagonista di queste opere è il ferro, il vero oggetto artistico è il vuoto, vuoto che si genera per contrasto a partire dalle sagome di ferro grezzo generate dall’artista giapponese, e che sprigionano luce, luce viva: siamo nell’estetica del Wabi sabi. Un wabi sabi, però, se mi si lascia passare l’ossimoro, evanescente.

DP

SE BOSCH RIVIVE IN CHIAVE CONTEMPORANEA GRAZIE A UN ARTISTA BRESCIANO. Sulla mostra a Palazzo Reale e sulla visita nello studio di Alessandro Fusari, in arte Alfi

Bosch a Palazzo Reale.

Jheronimus Bosch (1453 – 1516) era evidentemente in contatto diretto con l’Aldilà, con qualche spirito o demone, se non addirittura con Dio stesso o con Mefistofele. E lo capisco visitando la mostra a lui dedicata ora in atto a Palazzo reale di Milano, curata da Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi, dal titolo inequivocabile che tutto dice, “Bosch e un altro Rinascimento”. Guardo tutti quei santi, tutti quei mostri impossibili, quelle scene ricche e infinite, fuori dallo spazio fisico e dal tempo che noi percepiamo: Bosch vedeva diverso, vedeva di più, vedeva oltre.

L’esposizione comincia in medias res, non fai in tempo a immergerti nell’oscurità delle sale che subito tre delle sue opere principali ti si stagliano davanti scoppiettanti come fuochi d’artificio, nati dal genio creativo di un poeta visionario. Il celebre Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Lisbona, il Trittico dei santi eremiti di Venezia e le Meditazioni di san Giovanni Battista di Madrid rappresentano i tre perni su cui è costruita l’intera mostra; una mostra basata sui rapporti e gli influssi tra nord e sud dell’Europa, ma anche tra le varie arti. Me lo aspettavo perché di Aikema seguivo le lezioni (“si usa la parola ‘influssi’ e non ‘influenze’; l’influenza è una brutta cosa” – soleva ripetere Aikema nelle sue lezioni), e perché la fortuna dei fiamminghi è grazie soprattutto all’Italia e ai rapporti commerciali con la Toscana dei banchieri (una passeggiata agli Uffizi lo può confermare).

Il titolo allude proprio a questo: il “fenomeno Bosch”, come lo chiamano i curatori, non inizia dalle Fiandre, ma dal mondo mediterraneo (ossia Spagna e Italia) del Cinquecento; un tempo in cui il Classicismo Rinascimentale (Tiziano l’esempio in mostra) dominava il gusto generale. Il Rinascimento “Altro” cui si richiama l’attenzione, dunque, è proprio quello di Bosch e del “linguaggio boschiano” sviluppatosi in seguito. Un “Davide contro Golia” che ha generato molti e insospettabili seguaci, committenti, collezionisti (il cardinale Domenico Grimani ne andava matto, sue alcune opere oggi a Venezia) e appassionati, che i curatori hanno fatto capire molto bene. Forse troppo. È una mostra in cui domina l’horror vacui, non solo all’interno delle opere esposte (apocalissi, inferni, riti magici, demoni,…), ma anche per la quantità di opere e documenti). Il gusto della grottesca prevale in alcune sale successive. Oltre alle tavole sono presenti rari e immensi arazzi (status symbol dell’élite dell’epoca), stampe, illustrazioni, lesene. Opere e autori di spicco: Pieter Brueghel il Vecchio, il Francesco Colonna dell’Hypnerotomachia Poliphili e quindi le illustrazioni di questo, Dürer, Garofalo, Martin Schongauer, Arcimboldo.

E simulazioni di Wunderkammer. Mirabilia, naturalia, curiosità e gli oggetti più vari, infatti, e questo lo si comprende bene, rappresentano un dato imprescindibile per le scene di Bosch. È l’inconscio che si presenta. Uccelli rappresentati precisamente e sproporzionati rispetto alle figure umana, oppure strumenti musicali impressi in un contesto paesaggistico fuori luogo, ne fanno del pittore un surrealista ante litteram a tutti gli effetti. Non solo, perché la costruzione delle sue bestie e dei suoi mostri sono un ready-made dadaista in piena regola. Certo domina l’orrore, lo stravagante e il grottesco; ma perché no anche un po’ di provocazione?

Il linguaggio di Bosch è limpido eppure difficilissimo, dove il fantastico si lega al mondo onirico, l’immaginifico al visionario, pervaso da lucide allucinazioni. È la realtà quotidiana che vive sotto forme di sogno e incubo insieme, dove emergono ossessioni e scherzi, vizi e paradossi. In luoghi terribili e favolistici compaiono e scompaiono mostri e mostriciattoli. Un vero e proprio bestiario, un “Bestiario Boschiano” caratteristico che la mostra ha il merito di aver analizzato e catalogato, dedicandone una parte (una tra le più belle).

Bosch, Hieronymus (c. 1450-1516): The Temptations of Saint Anthony, 1510-1515 Madrid Prado

La vita di tutti i giorni si mostra in forme grottesche e inquietanti, è trasformata, e gli attori sono dei personaggi ibridi, deformi, scomposti; i quali vivono situazioni stravolte e illogiche. Cosa ci fanno quelle figure ingenue e nude che paiono anche pure, insieme a quelle figure crudeli e terribili? Va da sé che questo vale per tutte le opere presenti in mostra di Bosch; eppure ognuna di essa è un mondo a se stante.

Questi rappresentano una fittissima rete di simboli, un simbolismo fitto i cui rimandi non sembrano finire mai, specialmente nelle opere che trattano scene infernali e apocalittiche. Si resta sempre sorpresi di fronte a queste opere, i dettagli si susseguono, uno sguardo ne chiama un altro e un altro ancora, e poi ecco lì, lo hai guardato millanta volte l’opera ma hai scoperto un particolare nuovo che non avevi mai visto. La lettura di questi dipinti può essere svolta a più livelli (satirica, religiosa, moralistica), e a questa pluralità semantica ne consegue una gamma vastissima di interpretazioni del suo fantastico, che dipendono dalle diverse tradizioni.

Bosch è un pittore dalla doppia faccia, perché è tanto bizzarro e inusuale quanto stregone e profeta; e da questa ambiguità ne deriva la sua immortalità. Lo spirito di Jheronimus Bosch ha sempre occupato il suo angolino nella storia dell’arte, e la mostra lo di-mostra, appunto. Nel corso dei secoli Bosch e il “linguaggio boschiano” non è mai venuto meno. E vive tutt’ora tra noi.

Alfi, ossia Alessandro Fusari.

Conosco Alessandro Fusari, in arte Alfi, per caso. Due sue opere appese in una confusa quanto eterogenea sala di un jazz bar mi bastano per riconoscerne il talento, la qualità tecnica, la visionarietà, la capacità di trasmettere a quelle forme e a quei colori la vita. So che farei bene a andare a trovarlo, e così faccio.

Alfi nel suo studio di Brescia

Alfi mi accoglie nel suo studio tutto indaffarato, ma cordiale e ospitale. Mi apre la porta ma il suo sguardo non va a me, è ancora sulla sua opera, inedita, che sta ultimando; il quadro è già comprato mi dice, ma la sua riproduzione comparirà sull’etichetta di un lotto a edizione limitata di uno degli amari bresciani più famosi e amati. Sono fortunato quindi, perché vedo pure una anteprima che farà successo.

Lo studio è un arioso garage appena fuori dal centro di Brescia, in cui dominano colori e forme apparentemente – apparentemente – divertenti. Grande è la mia sorpresa di fronte a questa galleria d’autore, a questa esposizione monografica. Tutto mi sembra vivere, e allora chiedo da dove nascano queste opere.  Alessandro Alfi si forma al I.I.S.S. Camillo Golgi della stessa città come grafico pubblicitario. E questo lo si nota subito dalla chiarezze delle forme, dalla precisione del disegno, dall’invenzione scenica (c’è molto di graffitismo, di post-moderno, di street art). Un taccuino che mi mostra ne è la prova definitiva: inchiostri e chine e zero sbavature, limpidezza e stravaganza sono le considerazioni che ne ricavo.

Ma mi manca ancora un pezzetto. Come me li spiego tutti quegli esseri animati come da una strana forza endogena, parlanti, schiamazzanti a tratti assordanti, irrequieti e ansiogeni? Alessandro Fusari, mi confessa, senza retorica né enfasi né commozione, comincia a dipingere nel 2012 a seguito di una malattia molto grave, a cui sorprendentemente si è ripreso molto bene. Il successo è immediato, prosegue, “ la mia prima personale è stata a New York; da lì in poi un successo incredibile. È il karma che gira”.

Da questa malattia ne deriva un mondo folle e parallelo al nostro, un mondo di mostri e mostriciattoli, in cui convivono l’inquietante e lo stravagante, l’ironia e il dolore. Mi spiega che ultimamente si dà anche agli Nft, che vanno molto. Ma dove meglio sa esprimersi Alfi è nei quadri di medio e grande formato in cui tanti esseri, forse proprio il quotidiano, la natura umana sotto forme bizzarre e orribili insomma, convivono in scenari angoscianti. Un horror vacui intenso e profondo e uroborico, che non si conclude e anzi si rigenera ogni volta. Quadri che sono mondi, che sono vita.

È una pittura che colpisce subito quella di Alfi anche per la sua natura ossimorica. I colori spesso solari, caldi e vivaci sono il ponte verso contesti oscuri, enigmatici; le figure che ci sguazzano, apparentemente simpatiche e buffe, a uno sguardo più attento si rivelano macabre e atroci.

Di tutti questi esserini ne estraggo un bestiario, un “Bestiario Alfiano”. I Setoli, ossia i vermiciattoli, sono quasi onnipresenti; “sono super sensibili” mi dice. Rappresentano forse il temperamento, e la fragilità, la capacità di assorbire gli choc (di ricordo baudelairiano) della vita. C’è Fantasnino, un piccolo esserino venuto da chissà quale pianeta, il proteiforme Rebelot, essere ibrido che ricorda i carri delle Tentazioni di Sant’Antonio di Dalì e gli AT-AT di Star Wars. E poi arti mozzati o addentati, carcasse che si sciolgono, si macerano, si contorcono, si deteriorano; insomma, personaggi che soffrono o fanno soffrire. E poi il Bunga, l’immagine più iconica e identificativa di Alfi.

Alfi, street art in Via Lattanzio Gambara, Brescia

L’arte di Alfi, così come a me pare, viene da lontano eppure è perfettamente contemporanea e allineata al nostro tempo; tanti e diversi sono gli stili a cui si avvicina, e tanti i rimandi che se ne traggono, eppure il suo linguaggio è unico e immediatamente distinguibile.

C’è naturalmente dietro tutto questo un esatto e rigoroso simbolismo, che Alfi non manca di enunciarmi. È una rappresentazione della realtà sotto mentite spoglie, estremizzata e allegorica. Ecco perché sbaglia Nicole di The Fashion Bloggart, una delle sue curatrici, scrivendo nel suo blog come l’arte di Alfi le ricordi “le margherite kawaii di Takashi Murakami, nonché le rivisitazioni micropop di Tomoko Nagao”. Il Superflat, questa corrente – se così la si vuole chiamare – a cui allude Nicole, e di cui Murakami ne è il membro più conosciuto, è un’arte puramente superficiale e di superficie, in cui l’elemento decorativo e ornamentale prevale, anzi ne è addirittura il soggetto. Non ci sono rimandi, simbolismo; è tutto tranne che profondità, anzi è leggerezza, colori sgargianti, apparenza. Tutto all’opposto di Alfi.

Alessandro Fusari deriva dalla grafica, la sua ironia paradossale e inquietante richiama quella del tedesco André Butzer, le sue scene entrano in una sfera tipicamente graffitista, in particolare quella di Basquiat, i colori sono della pop, la sua è street art su tela. Va di pari passo con le serie animate più brillanti di stampo surrealista e filosofico (una su tutte: The Midnight Gospel, creata da Duncan Trussell e Pendleton Ward).

Non bisogna scordarsi dell’inizio prettamente materico (Sottoderma) e ispirato a Alberto Burri, sua grande guida, e primo sfogo dopo la malattia (mi parla di colore siringato, materia pittorica battuta e lacerata); e dell’arte infantile ispirata a un parente disabile (gioioso e commovente il dipinto intitolato Papao). Certo, se si vuole, qualcosa c’entra con la game art degli inizi (il Bunga richiama il protagonista di Bubble Ghost, giochino per il game boy; i Setoli i vermi di Worms), e con il Superflat ha in comune l’horror vacui e i colori squillanti. Suggestioni, nulla più.

Il simbolismo è però pregante, e questi quadri sono un viaggio lisergico, oltre che monito efficacissimo. E se Alfi ha un’origine, questa la si trova in Jheronimus Bosch.

Da Bosch a Alfi il viaggio è lungo. Cinque secoli in cui mi limito a menzionare solo il nome di Faustino Bocchi (1659 – 1741), un pittore bresciano poco conosciuto, l’autore delle bambocciate tra nani: quadri grotteschi e enigmatici in cui il linguaggio boschiano è riconoscibilissimo.

Faustino Bocchi, Caccia al Pulcino (Brescia, Tosio Martinengo)

L’anima boschiana si svolge come un filo rosso nel corso del tempo. Si prenda a esempio queste due opere attribuite alla Bottega di Bosch, La visione di Tundalo e Discesa di Cristo al Limbo (qua soffermandosi sul particolare del mangiatore in secondo piano, e lo si paragoni a quest’altre due opere di Alfi, Restart del 2020 e L’ingordo del 2019.

Luoghi assurdi e impossibili, un horror vacui di mostri e mostriciattoli, colorati e bizzarri, un tripudio stravagante e continuo di dolore, passioni e gioie e sofferenze. E del resto, questa è la vita.

Damiano Perini

 

(Un’ultima piccolissima parentesi. Dove rivive ancora Bosch ai nostri tempi? Horror vacui, mostriciattoli accattivanti e bislacchi, scene divertenti e inquietanti, e altri rimembranze boschiane le ritrovo in un artista pavese, grafico pure lui. Un illustratore che lavora in bianco e nero, preciso e certosino. Si chiama Simone Verdi, e prima o poi ne dovrò parlare)

Simone Verdi, 2023

ICONA SACRA E CONTEMPORANEA. Sulla mostra di Sonia Costantini al Museo Diocesano di Brescia

L’ambiente non è dei più adatti, l’allestimento è arioso ma molto freddo, il manifesto è riduttivo e anzi smentisce tutte le basi su cui è costruita; eppure, la mostra Abitare l’eternità. Sonia Costantini e l’icona sacra, curata da Alberto Cividati (al Museo Diocesano di Brescia, fino al 23 marzo) è veramente suggestiva.

L’idea è molto semplice, e pure infinitamente profonda: il monocromo nella contemporaneità diventa la chiave d’accesso alla “Rivelazione”, equivalendo sostanzialmente alle icone sacre. Entrambe sono scritte, ci tiene a ribadire il curatore; scrivere, dice infatti  Cividati, “indica i gesti di codifica di qualcosa di spirituale, di trascendente, che si è intuito. La trascendenza di Dio è la spiritualità che si origina dal contatto con il mondo ed è respiro dell’immaginazione, il movimento di tutto ciò che riguarda il mondo degli affetti”.

In entrambi i casi, nell’icona e nel monocromo, c’è silenzio, contemplazione, e una certa tendenza all’estasi spirituale. Un’esperienza mistica insomma. Ce l’hanno insegnato Florenskij da una parte, e Rothko dall’altra; e qui al Diocesano di Brescia ce lo ripropongono Costantini e Cividati. Inutile aggiungere troppe nozioni teoriche, il mio vuole essere solo un invito a visitare la mostra.

Nella prima delle due sale si può vedere un contrasto non indifferente: un Cristo Pantocratore ieratico e una Annunciazione esattamente descritta sono messe a confronto di due grandi tele bianche e una blu: le prime due, Bianco ombra e Bianco luce, formano un dittico di sensibile raffinatezza, in cui la superficie vibrante tende a spegnersi o viceversa esplodere di luce come mossa da una segreta energia endogena; la seconda, Annunciazione blu, totalmente blu appunto, ricorda un’eternità pacata (i cieli di Giotto, i monocromi di Yves Klein).

È una mostra dove il colore è protagonista, strumento puro e assoluto, concreto eppure intangibile, in grado di intercedere con il divino. Un ponte, una scala verso il sacro.

“La monocromia insegna il linguaggio del colore, rivelandone infinite gradazioni e mostrando come ogni tono sia un mondo, un modo di essere, la puntualità di uno stato spirituale della propria anima. I monocromi frammentano l’icona, perché ne sono l’alfabeto, le note della melodia”.

Sono le parole di Alberto Cividati che ho scelto di riportare per la loro sensibilità. Fanno da introduzione alla seconda sala, in cui un’icona riccamente abitata da santi si moltiplica, nell’opera di Sonia Costantini, in un infinito polittico di ogni sorta di colore.

Prosegue Cividati, anticipando il confronto tra antico e contemporaneo: “ogni nota è un colore e l’insieme dei colori è la possibilità delle infinite melodie dell’umano sentire, preghiera e invocazione nella ricerca di qualcuno che possa ascoltare, comprendere e accogliere. L’azione del singolo monocromo non si costituisce solo nella relazione con gli altri monocromi, bensì ogni monocromo è accesso, sviluppo di un paesaggio proprio e punto d’inizio per ricostruire nella sua tonalità l’intero paesaggio dell’icona”.

La mostra è molto intelligente, interessante, e come detto molto suggestiva. Peccato per l’ambiente: troppo luce, stanze troppo sterili e freddo; tutto insomma cozzava con la bellezza delle opere e del dialogo tra le due parti.

E poi il manifesto. Una mostra dedicata al tema della sacralità del monocromo, lunghi e ricchi testi del curatore per introdurre a una nuova visione del colore puro, tanta fatica e ricerca per insegnarci a guardare alla nuova arte sacra, eppoi? Il blu di un’opera di Costantini è usata  come sfondo per la scritta su un manifesto? Ahinoi!

Luciano Cardo

ANCORA DUE COSE SU FRANCO CHIARANI. Un’altra visita allo studio del maestro trentino

Potrei tornarci ancora per dieci, cento, mille volte in quello studio – laboratorio – cantina dove Franco Chiarani crea le sue opere, che lo stupore non verrà mai meno. Ogni sua opera è come vivesse, e lo capisci solo guardandola. Pulsa di vita propria: è l’anima dell’artista. E non è una magia: è il duro e certosino lavoro di un uomo, unito al talento innato e alla inesausta volontà di ricerca. In fondo è proprio questo l’artista.

Non voglio dilungarmi troppo, alcune cose le ho già dette, e questo è (o comunque vorrebbe esserlo) un blog edonistico, non un bugiardino o un libretto per le istruzioni, e meglio evitare le ripetizioni. Però giusto due cose da aggiungere mi sento in dovere di scriverle.

Chiarani è un autodidatta, e nel corso della sua lunga vita di artista non ha mai smesso di sperimentare, arrivando piano piano a rasentare il limite della perfezione. Se si guardano i quadri degli inizi di carriera e gli ultimi ancora in corso di lavorazione (io ho avuto la fortuna di vederli uno accanto all’altro, e credo pochi anzi pochissimi altri – e è per questo che sto scrivendo questo pezzo) il confronto è come una botta secca alla testa. Non tanto perché c’è una differenza di qualità o stili o ecc. (quella la giudicheranno i critici severi); ma piuttosto nel constatare il paziente e faticoso lavoro per arrivare a una cifra stilistica che faccia dire: cazzo, questo è Chiarani! con quel “cazzo” che sta per “wow che qualità straordinaria!”.

L’intera opera di Chiarani, ma in particolare gli ultimi vent’anni, pone grandi interrogativi sul tema sempiterno del finito-non finito. Il non finito di Chiarani è magistrale, ma anche ricercatissimo; pochi come lui, credo, hanno un’attenzione così maniacale: intendiamoci, un’opera che non è finita non è un’opera che utilizza il non finito come mezzo e tecnica.

Le opere di Chiarani non sono infatti per tutti. Non è snobismo; ma per giudicarle o per lo meno comprenderle bisogna avere una minima educazione all’arte e all’immagine (lo sguardo insomma deve essere minimamente allenato). Certo, poi possono piacere o meno, ma quello è un altro discorso.

Le opere di Chiarani sono frutto di un lavoro minuzioso, lento, riflessivo. E chi potrebbe dirlo dandoci un semplice sguardo, passandoci davanti magari  frettolosamente in una mostra?!. Sono opere che richiedono una spiegazione (a questo servono i critici, del resto), due parole con l’artista, la conoscenza della tecnica.

Soprattutto di quest’ultima, perché le figure evanescenti eppure concretissime del Chiarani compaiono (o scompaiono, è lo stesso) da campiture vibranti, così concrete che è come fossero veri luoghi (si guardino i “paesaggi”: dov’è la mimesi tanto cara ai romantici? Qui o negli iperrealisti?). E questi sfondi sono anche sentimenti materializzati sotto forma di terre saggiamente fuse con il supporto della carta, sentimenti che aleggiano su figure assolute.

Proprio questo è il segreto di Chiarani, la parsimonia e la capacità di fondere il supporto alla materia, da cui nascono e insieme muoiono i suoi personaggi. Questi sono figure enigmatiche e straordinariamente duplici. Allo stesso tempo compaiono e scompaiono, sono vive eppure morte; sono i fantasmi di esseri umani che potremmo conoscere tranquillamente, anzi che incontriamo ogni giorno per strada, al lavoro, al ristorante. Sono esseri umani spogliati della loro corazza, della loro maschera quotidiana. E sono anche la concreta astrazione di anime, vagabonde e instabili, irrequiete e angosciate. Magari proprio le vostre.

DP

L’ATTITUDINE CREATIVA DI MAX ERNST È UN ELOGIO DELLA VITA, OLTRE CHE DELL’ARTE. Sulla retrospettiva a Palazzo Reale

L’attitudine creativa di Max Ernst – versatile, pluriforme, esaltata e esaltante – è un elogio della vita, oltre che dell’arte nella sua accezione più felice e totale. E me ne accorgo solo ora, visitando la mostra a Palazzo Reale di Milano, curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech (dal 4 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023).

Di Ernst (1891-1976) ne sapevo poco, e poco in genere se ne parla di questo super-eclettico e sperimentatore delle Avanguardie artistiche di inizio Novecento. A lui potrei accostare solo Carlo Carrà, forse pochissimi altri; di mostre a lui se ne sono dedicate poche, nei libri di storia dell’arte si dà uno spazio da comparsa, il nome chissà perché non ha un appeal clamoroso.  La mostra che visito però, al contempo filologica, esatta e divertentissima, me lo fa vedere sotto una luce nuova, che è la luce degli artisti illuminati, degli apripista, dei numeri uno, dunque dei classici contemporanei.

Merito innanzitutto dei curatori, certamente, in grado di mettere insieme una quantità immensa di opere che comprendono tutta la sua immensa varietà di temi e tecniche, in quella che è la prima retrospettiva in Italia su Max Ernst (il che mi fa pensare a quanto sia fortunato a visitarla).

Ernst è pittore, scultore, disegnatore, grafico, poeta, amante delle belle donne; con opere riconoscibilissime e personali si confronta con il Dadaismo, il Surrealismo, il Romanticismo (specie quello tedesco), la Patafisica. Trasforma il banale in poesia attraverso tecniche semplicissime (ma che in lui acquistano qualcosa di magico) come la sovrapittura, il collage, il frottage (da lui inventato), il grattage, la decalcomania, l’oscillazione (tecnica che anticipa il dripping di Pollock), l’illustrazione di racconti quando non veri e propri racconti illustrati.

È una persona colta, dotata di interessi numerosi, e ciò si evince dai temi trattati nelle sue opere, che vanno dalla poesia, alla letteratura alla filosofia, dall’alchimia alle scienze naturali, all’astrologia e astonomia; svariati e onnipresenti sono i richiami all’intero mondo della cultura e al mondo interiore.

E tutto è ancora più straordinario quando si scopre che è Ernst è autodidatta, ossia non frequenta nella sua vita nessuna scuola d’arte.

Secondo i curatori , questo “filosofo-pittore” inaugura “una nuova arte del vedere”, mediante una raffinata dialettica dove “il suo universo sfida di continuo la percezione tra stupore e meraviglia, combinando logica e armonia formale con enigmi impenetrabili, mentre arte e natura, bellezza e bizzarria coesistono magicamente”. Di lui, in una maniera molto dada dirà che “i suoi occhi bevono tutto quello che si presenta nel suo cono visivo”…  B-e-v-o-n-o! questo bellissimo verbo (che esprime voracità, necessità, sensualità, insomma: vita; insomma: tutto) messo in rapporto al vedere è qualcosa che mette i brividi.

E è una premessa imprescindibile alla visita di questa mostra.

Seguendo un ordine cronologico (filologia) si suddivide in nove stanze: ognuna di queste “diventa un palcoscenico della visione” (divertimento). Quindi nelle prime sale si ha a che fare con la formazione dell’artista, disegni algidi e meccanici che richiamano Picabia, collage portentosi, e la fondamentale adesione a un mondo metafisico, seguito alla scoperta di de Chirico sulla rivista Valori Plastici. Nella sala succissiva si nota come Ernst abbia abbracciato, o meglio “bevuto”, tornando al caro verbo, la lezione dei futuristi e in particolare dell’arte totale; nelle tele predisposte per la casa del suo amico Paul Éluard, mediante una pittura lieve e soffusa, si apre un mondo naturale, tanto fiabesco e giocoso da anticipare le illustrazione per l’infanzia dei nostri giorni.

Lo spazio seguente è dedicata all’eros. È una ambiente oscuro, dai temi profondi e cifrati, dai richiami lontani, archetipici. Anche la pittura si fa ombrosa, misteriosa, misterica. E prosegue su questa linea alchemica anche nelle sale successive, seppur i temi non sono più l’eros bensì la natura, o meglio la Natura, nel lato più nascosto, indicibile e infinito che possiede. Qui il frottage trova la miglior espressione e, anche grazie all’allestimento enciclopedico e dall’effetto stupefacente (una intera parete è pervasa di questi fogli), credo sia la parte migliore della mostra.

Dal frottage alla pareidolia. Ernst, sulla scorta di Leonardo da Vinci, intuisce una potenzialità nell’informe: dalla macchia può nascere qualcosa, e quel qualcosa può essere tutto e anzi lo è essendo le facoltà dell’osservatore infinite. Sono opere, quelle che si scorgono in queste sale, in cui lo sguardo interiore (tanto caro all’artista) giunge a esprimersi nelle strutture del visibile, o viceversa “il paesaggio esteriore rivela corrispondenze con la dimensione interiore nel senso proprio del romanticismo”, in una natura “selvaggia, primordiale, predatrice”.

Ma, come scrivono i curatori, “tutta l’opera di Ernst è un invito a vedere”.

E più si guardano, si scrutano queste opere, più si entra in contatto con loro, più si entra in quei singolari mondi più si ha voglia di scoprire, capire, sapere. Sono opere che coinvolgono, non solo per i temi, ma anche per la loro bellezza, originalità e sapienza.

Passando davanti ai capolavori (quelli sì, conosciutissimi)  come la Pietà o La Rivoluzione la notte, o L’Angelo del focolare, si arriva come a coronamento di questa lunga, ghiotta e complessa visione nella sala in cui il fascino dell’ignoto incontra l’abisso del segreto cosmico. Nell’ultima sala i curatori allestiscono una magico apparato dedicato al cosmo e alle scritture segrete. È un mistero: il cielo stellato assume forme di crittografia, di lettere disseminate in un modo apparentemente casuale ma che segue evidentemente una logica. Oppure no; sono quei codici che aprono alle costellazioni.

Il microcosmo è in relazione al macrocosmo, l’immagine alla scrittura, la terra all’universo: la conciliazione degli opposti è avvenuta, l’opera di Ernst si è fusa con il tutto; e noi con essa.

Damiano Perini

AMBROISE VOLLARD E I RETROSCENA D’ARTISTA. Appunti sopra le “Memorie di un mercante di quadri”

Le opere d’arte ci restituiscono spesso l’anima di un artista; e un bravo critico può aiutarci alla comprensione di queste, o addirittura – grazie a una buona interpretazione – suggerirci una visione ulteriore. Tutte cose bellissime, certo; ma a volte anche pesanti, e mica sempre si ha voglia di sorbirsi saggi noiosi, letture profonde, ragionamenti incrociati, discorsi ermetici, quando non speculazioni eccessive.

Può capitare, e a me capita spesso, di aver voglia di letture più leggere e slanciate, di argomenti meno astratti e speculativi, senza però rinunciare al piacere della cultura e dell’arte. Senza rinunciare cioè a imparare nuove nozioni che non sono certo meno interessanti (non è mica detto che saggi difficilissimi e verbosi con bibliografie chilometriche racchiudano più sapere di libricini schietti e semplici). Questo per il bisogno di appagare quel delizioso capriccio, che nutro da sempre, di conoscere la normalissime facezie, le desuete curiosità, insomma le irrilevanti consuetudini di figure incisive e parti integranti della nostra storia.

Davanti a un quadro si chiederanno tutti il significato del tema, l’iconologia, la composizione dell’opera? Nessuno si chiede cosa mangiava l’autore di quel quadro nel momento della realizzazione? Sono piccolezze, ma piccolezze più che significative. Pontormo, nel suo diario che è un capolavoro di minimalismo ante litteram, ci dice ogni sua singola e futile attività quotidiana. Ma quale bellezza sapere che il grande pittore manierista imbottigliava “barili 6 di vino da Radda”, da Radda! oggi la culla del Chianti; quale delizia sapere che beveva vini anche non toscani, come “quel trebiano ch’è di Vinegia”. È un libro che ha avuto successo, e non è meno interessante di alcune biografie sul pittore, fatte di dati raffazzonati.

Memorie di un mercante di quadri di Ambroise Vollard (Johan & Levi, 2012) è un libro che colma i tanti vuoti che lasciano i manuali scolastici, così ricolmi di dottrina tanto quanto sono vuoti di informazioni che tracciano l’umanità (seppur parziale) di un artista – per questo i manuali sono così algidi e poco piacevoli. Dire che Vollard è stato un mercante d’arte è riduttivo; perché alla base c’era un grande senso del commercio, oltre a un visione trascendente e profetica dell’arte più di tanti critici contemporanei; è stato poi anche editore e autore (celebre la sua biografia su Cézanne).

Ambroise Vollard (1866-1939) viene da famiglia agiata, e senza particolare calore studia legge. Comincia lavorando in uno studio di avvocato, fino a che non si convince a mollare la vita d’ufficio per la sua passione, ossia la pittura. Così, verso la fine dell’Ottocento si lega alle dipendenze di un antiquario, per così dire, poco dotato; stufo si mette in proprio, aprendo il primo negozio a Montmartre, “la Montmartre del primo Moulin Rouge”, per poi trasferirsi in rue Laffitte.

Pierre Bonanrd, Montmartre, 1887

Persona di grande tenacia, a Vollard non mancavano nemmeno la sicurezza di chi sa e la caparbietà di prendersi ciò che si vuole. L’esempio è la ricerca sfrenata di Cézanne. “I viaggi a vuoto che non feci!”, confessa l’autore, che visto per caso un quadro del maestro di Aix decide di dedicargli una mostra (e in quegli anni!, in cui i giudizi su Cézanne erano del tipo “che vergogna, deformare così la natura!”). Nel paese di provincia dove lo cerca nessuno conosce Cézanne; per caso scopre del trasferimento del pittore a Parigi, ma una volta in città Vollard si scorda il numero civico: “deciso a suonare a ogni porta, cominciai dal numero 2, e fu con grande sorpresa che mi sentii rispondere dalla portinaia: ‘il signor Cézanne? Sì, abita qui’”.

Vollard ha conosciuto veramente molte persone, e tremendamente straordinarie. Memorie di un mercante di quadri è un libro di tantissimi piccoli aneddoti, di pettegolezzi, di sapide notizie che mai nessuno storico dell’arte si proporrebbe di riportare in una biografia d’artista. È un libro scritto con alla base un umore pulito e veloce che ricorda Woody Allen. “Era già scritto, insomma, che le mie collezioni mi sarebbero state sottratte”, scherza il mercante. Oppure: “data l’abitudine dei medici di redigere e firmare le ricette in modo illeggibile, iniziai subito a esercitarmi nella grafia a zamba di gallina”, confessa dopo una prima idea (abbandonata subito) di studiare medicina. O ancora: “ho sempre apprezzato i vantaggi dell’essere sposato. Quando ti propongono di fare una cosa seccante, puoi sempre dire: ‘mia moglie non vuole…’”.

Cézanne, Ritratto di Vollard, 1899

È un libro questo scritto bene (la traduzione in italiano è di Ximena Rodriguez Bradford). Vollard ha il dono della sintesi, la sua prosa è affilata, i periodi corti, ritmati, semplici, la sintassi limpida, il linguaggio chiaro; gli aggettivi e gli avverbi sono dosati, nessun vezzo decorativo, quello che vuole dire lo dice con una semplicità disarmante. I dialoghi si susseguono uno dietro all’altro, concisi. Basta davvero poco a Vollard per ricostruire quell’atmosfera che sta dietro alle opere e alle personalità di chi le ha realizzate. Moltissimi e lucidi sono i ricordi del mercante, talvolta flash fulminanti. Non solo artisti, ma anche familiari, clienti, concorrenti.

Ma è un libro, dicevo, di aneddoti. Qui si scoprono sapidissimi retroscena, insignificanti vezzi, piacevoli curiosità che riguardano il meglio degli artisti della seconda metà dell’Ottocento. Si possono spiluccare qua e là notizie come a un buffet, la cornice è unica, ma il menu molto vario. Si viene a tu per tu con opere, oggi capolavori, ma all’epoca poco considerati, o meglio “ammirati ma non acquistati”, con pittori che erano sì conosciuti, ma ancora piuttosto poveri.

Renoir, Ritratto di Vollard, 1908

Il primo pittore che conosce all’inizio della sua lunga carriera è Félicien Rops; il suo incontro sarà indimenticabile: accolse Vollard “completamente nudo”.

A pagina 53 racconta minuziosamente un litigio tra Renoir e Degas, il modo in cui il loro rapporto finì per incrinarsi. I due però si stimavano e “erano sulla stessa barca. E la barca non prescriveva che questo: lavoro, lavoro e ancora lavoro”. Ci sono rimasto però male quando ho letto che Degas “detestava il profumo dei fiori”; certo, “ma con che occhio riusciva a vederli!”. Degas era un fissato, ma un fissato di quelli forti. Vuoi invitarlo a cena, bene, allora: niente gatti (“il suo gatto [Vollard] verrà rinchiuso”), niente cani, niente profumi (“se ci sono delle signorine, le preghi di non profumarsi. I profumi: che cosa inutile, quando si ha già il buon odore del pane abbrustolito!”).

E ovviamente puntualità: “andremo a tavola alle sette e mezza in punto”, senza repliche. E i fiori, ancora. Vollard racconta di quella volta in cui il pittore se ne andò indispettito dalla sala da pranzo; “lui acconsentì a tornare solo dopo essersi fatto giurare che non ci sarebbero mai più stati fiori in tavola”. In compenso con i quadri era più che delicato: “Degas accarezzava la tela in silenzio: era uno dei suoi modi di ammirare un quadro”.

Parzialmente fissato lo era pure Cézanne. Per soddisfare le esigenze del pittore, durante l’elaborazione di un ritratto, “erano necessarie molte condizioni: che il cielo fosse grigio chiaro, che nessuna notizia arrivasse a turbare il suo umore, che non ci fossero cani che abbaiavano nelle vicinanze, e che nessuno facesse andare l’ascensore del palazzo”. Anche della modestia e umiltà di Cézanne sapevo poco, quasi nulla. È di lui che Ambroise Vollard traccia la miglior biografia aneddotica. “Cézanne era convinto che un pittore avesse tutto da guadagnare guardando i quadri degli altri pittori. Ma ‘gli altri pittori’ per lui, erano i vecchi maestri, e la sua rue Laffitte era il Louvre”.

Ammette il pittore di Aix al mercante, “io sono un debole, preferisco la chiesa” alla politica. Cézanne era un solitario, “non usciva quasi mai”. Era sostanzialmente un bonaccione dotato di grande cultura. Amava la pittura antica, e nella sua casa si potevano trovare le stampe di Luca Signorelli, El Greco, Tiziano, Tintoretto. Capitava poco che si arrabbiasse, e a quelle rare improvvise uscite iraconde seguiva un certo pentimento; dice Vollard che “quando la collera sembrava aver raggiunto il culmine, la sensibilità, l’ingenuità quasi infantile” prendevano il sopravvento.

Picasso, Ritratto di Vollard, 1910

Monet era una persona dotata di un’umanità non comune, distinto da “un’aria inconfondibile da gentiluomo di campagna”. La cosa che più colpisce Vollard del grande impressionista è “la sua estrema semplicità, oltre alla fervida ammirazione per Cézanne, e per tutti gli altri pittori contemporanei: “la [sua] casa era grande, ma le pareti erano letteralmente sommerse dalle opere dei suoi colleghi”. Risponde in proposito Monet al mercante in visita: “la maggior parte di questi lavori se ne stavano a marcire nelle vetrine dei mercanti. In un certo senso, li ho acquistati per protestare contro l’indifferenza del pubblico”.

Il primo incontro con il Puntinismo non fu felice, “una ‘pittura a piccoli punti’ mi ero messo in testa che si trattasse di un lavoro da signorine, e quando passavo davanti ai Seurat e ai Signac, evitavo di fermarmi”. Non tardò il cambio di giudizio, naturalmente. Di Gauguin mi ha colpito scoprire i dettagli della sua bellissima amante, una “piccola meticcia giavanese agghindata di orpelli luccicanti che lo seguiva come un’ombra”, facendo risaltare il pittore simbolista come un “principe orientale”. Il povero Van Gogh “non suscitava che scherni, se non vere reazioni di collera”, eppure Vollard gli dedicò la prima vera grande esposizione delle sue opere.

La notissima e influente Gertrude Stein era a suo giudizio una personalità “molto complessa”, che dai suoi modi la si “sarebbe detta una brava massaia dall’orizzonte limitato ai rapporti con il fruttivendolo, il lattaio e il droghiere”. Ma “la vivacità dei suoi occhi rivelava il tratto inconfondibile dell’osservatore acuto a cui non sfugge mai nulla”.

Eppoi ancora tanti altri celebri artisti. Redon era una persona onesta che non si permise di alzare i prezzi dei suoi dipinti ai collezionisti di fiducia nemmeno dopo il successo. E che sorpresa scoprire che i Nabis restarono inizialmente freddi davanti al Talismano di Serusier, oggi considerato il capolavoro del movimento. Invece la prima volta che Henri Rousseau il Doganiere entrò nella bottega di Vollard, il mercante lo scambiò per un facchino; ma dopo averlo “conosciuto, era impossibile non amare quell’uomo: era la gentilezza in persona”.

Pierre Bonnard, Ritratto di Vollard, 1905

Il tempo in questa sorta di autobiografia non esiste, corre rapido e a tratti si ferma; le vicende scorrono velocissime, ma talvolta si soffermano su dettagli minuti. Come a quella cena nella sua “cantina”, in cui un ospite maldestro ruppe davanti al padrone di casa un quadro enorme: “la cena continuò senza che io dessi il minimo segno di disappunto […]. ‘Un aplomb ammirevole, Vollard. Come ha fatto a non esplodere?’. ‘È stato facilissimo: quel quadro non è mio’”.

Pierre Bonnard, Cena alla cantina di Vollard, 1907

La “cantina” non era altro che il seminterrato della bottega in rue Laffitte; il menu consisteva in un solo piatto essenziale, il cari di pollo, ma si chiacchierava tanto, il livello era alto. Di qui sono passati tutti i più grandi artisti dell’epoca; che invidia per molti! In una critica ostile seguita alla pubblicazione delle Memorie, un recensore incattivito accusa Vollard di scarsa serietà: “scrive esattamente come parla” – sostiene il giornalista anonimo – il grosso del libro, prosegue, “riguarda i pittori. Bene: in tutte quelle pagine, nemmeno un briciolo di critica d’arte…”. Verissimo. E è proprio questo a renderlo un libro così interessante, degno di essere letto.

Damiano Perini