SE BOSCH RIVIVE IN CHIAVE CONTEMPORANEA GRAZIE A UN ARTISTA BRESCIANO. Sulla mostra a Palazzo Reale e sulla visita nello studio di Alessandro Fusari, in arte Alfi

Bosch a Palazzo Reale.

Jheronimus Bosch (1453 – 1516) era evidentemente in contatto diretto con l’Aldilà, con qualche spirito o demone, se non addirittura con Dio stesso o con Mefistofele. E lo capisco visitando la mostra a lui dedicata ora in atto a Palazzo reale di Milano, curata da Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi, dal titolo inequivocabile che tutto dice, “Bosch e un altro Rinascimento”. Guardo tutti quei santi, tutti quei mostri impossibili, quelle scene ricche e infinite, fuori dallo spazio fisico e dal tempo che noi percepiamo: Bosch vedeva diverso, vedeva di più, vedeva oltre.

L’esposizione comincia in medias res, non fai in tempo a immergerti nell’oscurità delle sale che subito tre delle sue opere principali ti si stagliano davanti scoppiettanti come fuochi d’artificio, nati dal genio creativo di un poeta visionario. Il celebre Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Lisbona, il Trittico dei santi eremiti di Venezia e le Meditazioni di san Giovanni Battista di Madrid rappresentano i tre perni su cui è costruita l’intera mostra; una mostra basata sui rapporti e gli influssi tra nord e sud dell’Europa, ma anche tra le varie arti. Me lo aspettavo perché di Aikema seguivo le lezioni (“si usa la parola ‘influssi’ e non ‘influenze’; l’influenza è una brutta cosa” – soleva ripetere Aikema nelle sue lezioni), e perché la fortuna dei fiamminghi è grazie soprattutto all’Italia e ai rapporti commerciali con la Toscana dei banchieri (una passeggiata agli Uffizi lo può confermare).

Il titolo allude proprio a questo: il “fenomeno Bosch”, come lo chiamano i curatori, non inizia dalle Fiandre, ma dal mondo mediterraneo (ossia Spagna e Italia) del Cinquecento; un tempo in cui il Classicismo Rinascimentale (Tiziano l’esempio in mostra) dominava il gusto generale. Il Rinascimento “Altro” cui si richiama l’attenzione, dunque, è proprio quello di Bosch e del “linguaggio boschiano” sviluppatosi in seguito. Un “Davide contro Golia” che ha generato molti e insospettabili seguaci, committenti, collezionisti (il cardinale Domenico Grimani ne andava matto, sue alcune opere oggi a Venezia) e appassionati, che i curatori hanno fatto capire molto bene. Forse troppo. È una mostra in cui domina l’horror vacui, non solo all’interno delle opere esposte (apocalissi, inferni, riti magici, demoni,…), ma anche per la quantità di opere e documenti). Il gusto della grottesca prevale in alcune sale successive. Oltre alle tavole sono presenti rari e immensi arazzi (status symbol dell’élite dell’epoca), stampe, illustrazioni, lesene. Opere e autori di spicco: Pieter Brueghel il Vecchio, il Francesco Colonna dell’Hypnerotomachia Poliphili e quindi le illustrazioni di questo, Dürer, Garofalo, Martin Schongauer, Arcimboldo.

E simulazioni di Wunderkammer. Mirabilia, naturalia, curiosità e gli oggetti più vari, infatti, e questo lo si comprende bene, rappresentano un dato imprescindibile per le scene di Bosch. È l’inconscio che si presenta. Uccelli rappresentati precisamente e sproporzionati rispetto alle figure umana, oppure strumenti musicali impressi in un contesto paesaggistico fuori luogo, ne fanno del pittore un surrealista ante litteram a tutti gli effetti. Non solo, perché la costruzione delle sue bestie e dei suoi mostri sono un ready-made dadaista in piena regola. Certo domina l’orrore, lo stravagante e il grottesco; ma perché no anche un po’ di provocazione?

Il linguaggio di Bosch è limpido eppure difficilissimo, dove il fantastico si lega al mondo onirico, l’immaginifico al visionario, pervaso da lucide allucinazioni. È la realtà quotidiana che vive sotto forme di sogno e incubo insieme, dove emergono ossessioni e scherzi, vizi e paradossi. In luoghi terribili e favolistici compaiono e scompaiono mostri e mostriciattoli. Un vero e proprio bestiario, un “Bestiario Boschiano” caratteristico che la mostra ha il merito di aver analizzato e catalogato, dedicandone una parte (una tra le più belle).

Bosch, Hieronymus (c. 1450-1516): The Temptations of Saint Anthony, 1510-1515 Madrid Prado

La vita di tutti i giorni si mostra in forme grottesche e inquietanti, è trasformata, e gli attori sono dei personaggi ibridi, deformi, scomposti; i quali vivono situazioni stravolte e illogiche. Cosa ci fanno quelle figure ingenue e nude che paiono anche pure, insieme a quelle figure crudeli e terribili? Va da sé che questo vale per tutte le opere presenti in mostra di Bosch; eppure ognuna di essa è un mondo a se stante.

Questi rappresentano una fittissima rete di simboli, un simbolismo fitto i cui rimandi non sembrano finire mai, specialmente nelle opere che trattano scene infernali e apocalittiche. Si resta sempre sorpresi di fronte a queste opere, i dettagli si susseguono, uno sguardo ne chiama un altro e un altro ancora, e poi ecco lì, lo hai guardato millanta volte l’opera ma hai scoperto un particolare nuovo che non avevi mai visto. La lettura di questi dipinti può essere svolta a più livelli (satirica, religiosa, moralistica), e a questa pluralità semantica ne consegue una gamma vastissima di interpretazioni del suo fantastico, che dipendono dalle diverse tradizioni.

Bosch è un pittore dalla doppia faccia, perché è tanto bizzarro e inusuale quanto stregone e profeta; e da questa ambiguità ne deriva la sua immortalità. Lo spirito di Jheronimus Bosch ha sempre occupato il suo angolino nella storia dell’arte, e la mostra lo di-mostra, appunto. Nel corso dei secoli Bosch e il “linguaggio boschiano” non è mai venuto meno. E vive tutt’ora tra noi.

Alfi, ossia Alessandro Fusari.

Conosco Alessandro Fusari, in arte Alfi, per caso. Due sue opere appese in una confusa quanto eterogenea sala di un jazz bar mi bastano per riconoscerne il talento, la qualità tecnica, la visionarietà, la capacità di trasmettere a quelle forme e a quei colori la vita. So che farei bene a andare a trovarlo, e così faccio.

Alfi nel suo studio di Brescia

Alfi mi accoglie nel suo studio tutto indaffarato, ma cordiale e ospitale. Mi apre la porta ma il suo sguardo non va a me, è ancora sulla sua opera, inedita, che sta ultimando; il quadro è già comprato mi dice, ma la sua riproduzione comparirà sull’etichetta di un lotto a edizione limitata di uno degli amari bresciani più famosi e amati. Sono fortunato quindi, perché vedo pure una anteprima che farà successo.

Lo studio è un arioso garage appena fuori dal centro di Brescia, in cui dominano colori e forme apparentemente – apparentemente – divertenti. Grande è la mia sorpresa di fronte a questa galleria d’autore, a questa esposizione monografica. Tutto mi sembra vivere, e allora chiedo da dove nascano queste opere.  Alessandro Alfi si forma al I.I.S.S. Camillo Golgi della stessa città come grafico pubblicitario. E questo lo si nota subito dalla chiarezze delle forme, dalla precisione del disegno, dall’invenzione scenica (c’è molto di graffitismo, di post-moderno, di street art). Un taccuino che mi mostra ne è la prova definitiva: inchiostri e chine e zero sbavature, limpidezza e stravaganza sono le considerazioni che ne ricavo.

Ma mi manca ancora un pezzetto. Come me li spiego tutti quegli esseri animati come da una strana forza endogena, parlanti, schiamazzanti a tratti assordanti, irrequieti e ansiogeni? Alessandro Fusari, mi confessa, senza retorica né enfasi né commozione, comincia a dipingere nel 2012 a seguito di una malattia molto grave, a cui sorprendentemente si è ripreso molto bene. Il successo è immediato, prosegue, “ la mia prima personale è stata a New York; da lì in poi un successo incredibile. È il karma che gira”.

Da questa malattia ne deriva un mondo folle e parallelo al nostro, un mondo di mostri e mostriciattoli, in cui convivono l’inquietante e lo stravagante, l’ironia e il dolore. Mi spiega che ultimamente si dà anche agli Nft, che vanno molto. Ma dove meglio sa esprimersi Alfi è nei quadri di medio e grande formato in cui tanti esseri, forse proprio il quotidiano, la natura umana sotto forme bizzarre e orribili insomma, convivono in scenari angoscianti. Un horror vacui intenso e profondo e uroborico, che non si conclude e anzi si rigenera ogni volta. Quadri che sono mondi, che sono vita.

È una pittura che colpisce subito quella di Alfi anche per la sua natura ossimorica. I colori spesso solari, caldi e vivaci sono il ponte verso contesti oscuri, enigmatici; le figure che ci sguazzano, apparentemente simpatiche e buffe, a uno sguardo più attento si rivelano macabre e atroci.

Di tutti questi esserini ne estraggo un bestiario, un “Bestiario Alfiano”. I Setoli, ossia i vermiciattoli, sono quasi onnipresenti; “sono super sensibili” mi dice. Rappresentano forse il temperamento, e la fragilità, la capacità di assorbire gli choc (di ricordo baudelairiano) della vita. C’è Fantasnino, un piccolo esserino venuto da chissà quale pianeta, il proteiforme Rebelot, essere ibrido che ricorda i carri delle Tentazioni di Sant’Antonio di Dalì e gli AT-AT di Star Wars. E poi arti mozzati o addentati, carcasse che si sciolgono, si macerano, si contorcono, si deteriorano; insomma, personaggi che soffrono o fanno soffrire. E poi il Bunga, l’immagine più iconica e identificativa di Alfi.

Alfi, street art in Via Lattanzio Gambara, Brescia

L’arte di Alfi, così come a me pare, viene da lontano eppure è perfettamente contemporanea e allineata al nostro tempo; tanti e diversi sono gli stili a cui si avvicina, e tanti i rimandi che se ne traggono, eppure il suo linguaggio è unico e immediatamente distinguibile.

C’è naturalmente dietro tutto questo un esatto e rigoroso simbolismo, che Alfi non manca di enunciarmi. È una rappresentazione della realtà sotto mentite spoglie, estremizzata e allegorica. Ecco perché sbaglia Nicole di The Fashion Bloggart, una delle sue curatrici, scrivendo nel suo blog come l’arte di Alfi le ricordi “le margherite kawaii di Takashi Murakami, nonché le rivisitazioni micropop di Tomoko Nagao”. Il Superflat, questa corrente – se così la si vuole chiamare – a cui allude Nicole, e di cui Murakami ne è il membro più conosciuto, è un’arte puramente superficiale e di superficie, in cui l’elemento decorativo e ornamentale prevale, anzi ne è addirittura il soggetto. Non ci sono rimandi, simbolismo; è tutto tranne che profondità, anzi è leggerezza, colori sgargianti, apparenza. Tutto all’opposto di Alfi.

Alessandro Fusari deriva dalla grafica, la sua ironia paradossale e inquietante richiama quella del tedesco André Butzer, le sue scene entrano in una sfera tipicamente graffitista, in particolare quella di Basquiat, i colori sono della pop, la sua è street art su tela. Va di pari passo con le serie animate più brillanti di stampo surrealista e filosofico (una su tutte: The Midnight Gospel, creata da Duncan Trussell e Pendleton Ward).

Non bisogna scordarsi dell’inizio prettamente materico (Sottoderma) e ispirato a Alberto Burri, sua grande guida, e primo sfogo dopo la malattia (mi parla di colore siringato, materia pittorica battuta e lacerata); e dell’arte infantile ispirata a un parente disabile (gioioso e commovente il dipinto intitolato Papao). Certo, se si vuole, qualcosa c’entra con la game art degli inizi (il Bunga richiama il protagonista di Bubble Ghost, giochino per il game boy; i Setoli i vermi di Worms), e con il Superflat ha in comune l’horror vacui e i colori squillanti. Suggestioni, nulla più.

Il simbolismo è però pregante, e questi quadri sono un viaggio lisergico, oltre che monito efficacissimo. E se Alfi ha un’origine, questa la si trova in Jheronimus Bosch.

Da Bosch a Alfi il viaggio è lungo. Cinque secoli in cui mi limito a menzionare solo il nome di Faustino Bocchi (1659 – 1741), un pittore bresciano poco conosciuto, l’autore delle bambocciate tra nani: quadri grotteschi e enigmatici in cui il linguaggio boschiano è riconoscibilissimo.

Faustino Bocchi, Caccia al Pulcino (Brescia, Tosio Martinengo)

L’anima boschiana si svolge come un filo rosso nel corso del tempo. Si prenda a esempio queste due opere attribuite alla Bottega di Bosch, La visione di Tundalo e Discesa di Cristo al Limbo (qua soffermandosi sul particolare del mangiatore in secondo piano, e lo si paragoni a quest’altre due opere di Alfi, Restart del 2020 e L’ingordo del 2019.

Luoghi assurdi e impossibili, un horror vacui di mostri e mostriciattoli, colorati e bizzarri, un tripudio stravagante e continuo di dolore, passioni e gioie e sofferenze. E del resto, questa è la vita.

Damiano Perini

 

(Un’ultima piccolissima parentesi. Dove rivive ancora Bosch ai nostri tempi? Horror vacui, mostriciattoli accattivanti e bislacchi, scene divertenti e inquietanti, e altri rimembranze boschiane le ritrovo in un artista pavese, grafico pure lui. Un illustratore che lavora in bianco e nero, preciso e certosino. Si chiama Simone Verdi, e prima o poi ne dovrò parlare)

Simone Verdi, 2023