COLTIVARE L’OZIO, PER NON ISTUPIDIRSI E GODERE MEGLIO. Leggere “Filosofia da divano” di Stefano Scrima. E tenerlo sul comodino, non sia mai

Non temano per la loro salute mentale e spirituale i perdigiorno, i buontemponi, o gli accidiosi, o i pigri come il sottoscritto. In tempi di frenesia frenetica, caos, “avanzamento di carriera” (che fatica già solo scriverlo), un libro ci viene in difesa. Filosofia da divano di Stefano Scrima, edito da Il Melangolo (2023),è un manualetto-manifesto da leggere con molta calma, è ovvio, dignitosamente stravaccati, è ovvio, senza strafare, tra un caffè e l’altro, magari alternandolo a un sigaro, a una chiacchierata con amici, a un aperitivo al bar, alla lettura di un quotidiano o un altro libro, a una passeggiata col cane, a un pisolino… ma comunque un libro da leggere: assolutamente.

Primo perché Scrima appartiene alla cerchia dei filosofi simpatici (“sì sì tu mi piaci”, cit.), che un po’ alla De Crescenzo rendono una materia genericamente percepita come noiosa, la filosofia, viva e comprensibile, piacevole e anzi accattivante. Grazie a uno stile sciolto e leggero, dotato di un umore non scontato (del resto l’autore non è nuovo alla divulgazione. Tra i tanti titoli formidabile la sua Filosofia di Fantozzi), e alle autorevoli autorità citate nel libro (onnisciente il grande svaccone Bukowski), è pure di scorrevole lettura. È un libro inutile? Può darsi. Ma è proprio il futile, il desueto, l’inconsueto, il bislacco ad attrarre i pelandroni veri.

Divertente, sì, ma serio, serissimo. Il protagonista della parabola di Scrima è, per l’appunto, il divano.  “L’esperienza del divano”, scrive il filosofo, “a patto che esso sia sufficientemente comodo e soffice, può suscitare una profonda riflessione sull’esistenza che ne trascende l’uso quotidiano, fino a indurci a chiederci del senso stesso della nostra presenza sulla terra”.

Il libro è una protesta contro il troppo fare. C’è vita dopo il lavoro?, si chiede l’autore. E la risposta è secca: “l’esito della riflessione provocatami dall’impatto delle mie membra con la superficie del divano è la ferma convinzione che l’ozio sia il padre di tutte le virtù”. Il divano entra con questo libro nella storia del pensiero umano. “Non saprei nemmeno dire cosa sia”, scrive Scrima, “se un mobile o un luogo […]. Prima che il divano entrasse nelle nostre vite, dal XVIII secolo in poi, non esisteva alcun pretesto per rifiutarsi di lavorare e iniziare a rilassarsi […]. Il divano è la manifestazione terrena del rilassamento”.

Domenico Gnoli

E ancora. “Non è un caso che si chiami proprio divano, per il piacere divino che comporta adagiarsi sui suoi soffici cuscini. Quella ‘a’ al posto della ‘i’ non deve far titubare: quando il primo uomo che si sedette su un divano, associando questo oggetto al divino , dette voce alla sua illuminazione, al momento di pronunciare la “i” sbadigliò indotto da un’estasi mai provata prima”.

Lo consiglieri agli studenti più cocciuti: per quale motivo patire d’ansia d’esame stando pomeriggi su libri scritti male quando invece non  abbandonarsi, che so, alle non-avventure dell’apatico Oblomov di Gončarov (non a caso citato nel libro) o a una bella bottiglia di nebbiolo della Valtellina? Al di là di qualche sfuriata contro il capitalismo, il libro è edonistico e divertente.

Domenico Gnoli

Il susseguirsi nel testo di parole come inazione, pigrizia, ozio, indolenza, fannullone, buontempo, non-fare, inazione, inattività, rilassamento, indugio, inerzia soave (bellissima locuzione), lo rende a tutti gli effetti una apologia dell’ozio. Un ozio da coltivare, fondamentale ritagliarsi almeno due ore al giorno per tale pratica: per non istupidirsi e smettere di pensare, per la propria salute, sia mentale che spirituale. Leggere Filosofia da divano. E tenere il libro sul comodino: non sia mai che a noi perdigiorno, buontemponi, o accidiosi, o pigri venga in mente di strafare. In fondo, e lo ricorda Scrima, “tutta la saggezza di questo mondo è racchiusa nel saper restare seduti o sdraiati sul divano a far niente”. (Beh, proprio niente niente no; qualcosina magari, di birichino, forse sì).

DP

Domenico Gnoli

LA SCHWA È ANTI-EDONISTICA: IMBRUTTISCE L’ITALIANO E LO SPIRITO DI CHI LEGGE. Leggere “Fascisti della parola” di Vittorio Feltri

Partecipo alla conferenza di un’artista, una illustratrice. Curioso per tanta grazia e delicatezza di eloquio cerco il suo lavoro, mi piace molto, approfondisco. MI leggo la biografia: e qui casca l’asino (per non dire altro). Tutta una chiassosa e delirante rapsodia di schwa (Ə), simbolo ora in voga tra i genderisti, un po’ per ostentare la cosiddetta inclusività (se così ho capito bene), o (sempre se ho capito bene, e sarebbe ancora peggio) per non offendere quelle persone che non “si riconoscono in una identità”.

Al di là delle valutazioni socio-politiche che non fregano a me né a questo blog, ma l’offeso in questo caso sono io: che schifezza sarebbe l’italiano con questo volgare simbolo (noto che la schwa è sostituita da qualche altro intelligentone con l’asterisco)? Pensavo fosse cosa per femminucce col broncio o per maschietti in crisi di identità; e invece mi trovo un’artista che parla bene e scrive male, anzi malissimo e in modo oltraggioso: oltraggioso e offensivo per noi che per imparare a scrivere ci siamo messi d’impegno.

Copertina del libro. Rizzoli, 2023

Fortuna che dall’alto sono sorretto da autorità. “Va escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (‘Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…’). Lo stesso vale per lo scevà o schwa”; così la Crusca. “Secondo il nuovo Canone Demenziale si devono desessualizzare le parole, liberarle cioè dalla loro desinenza finale, renderle finalmente indeterminate, libere da ogni predominio sessista; nuove forme di castrazione o cintura di castità applicate al lessico e al mondo che descrivono, per estirparne i genitali e la “naturale” diversità”; così Marcello Veneziani.

E non potrebbe mancare sostegno dal più grande giornalista vivente, Vittorio Feltri. Lo trovo in un libretto libero e anticonformista, quella libertà e quell’anticonformismo che solo i veri abili e coraggiosi pensatori posseggono, Fascisti della parola. Tutte le parole che il politically correct ci ha tolto di bocca, Rizzoli, 2023. Il secondo Vittorione nazionale (il primo è ovviamente Sgarbi) con la sua nota penna schietta e chiara mi informa: a) di quanto la crisi sia vasta e b) di come questo fenomeno sia conseguenza di povertà di cultura, valori e bellezza. Fondamentali, per quanto riguarda il linguaggio, sono i capitoli “Mamma” e “papà” sono diventati termini offensivi, La mania del linguaggio inclusivo, Giorgia Meloni e l’obbligo di definirsi “presidenta”.

“Feltri, elegante e esteta, nell’abbigliamento come nei libri”

Ma uno soprattutto mi ha colpito, Il linguaggio genderista. Vogliamo la lingua senza genere e poi incriminiamo il maschile, che è pure neutro. Al di là del ripassino da prima media (“si trascura di considerare che l’italiano ha già un genere neutro, che è quello maschile. Il maschile non esclude il femminile, bensì lo include e lo pone sullo stesso piano”) è il lato estetico che disturba. Scrive Feltri, elegante e esteta, nell’abbigliamento come nei libri: “L’esigenza di adoperare un linguaggio quanto più neutro, ad esempio, ha condotto a storpiature forzate della lingua italiana che personalmente trovo orribili e pure insultanti”. Non sei il solo, Vittorio. Che obbrobrio, che orrore questa schwa: un danno alla mia sensibilità di lettore, e al mio spirito godereccio.

Luciano Cardo

PER RACCONTARE UN MONDO BISOGNA STUPIRSI, ALTRIMENTI È CRONACA DIMENTICABILE. Appunti a caldo su “La nuova Russia” di I. J. Singer

“E così io parlo,
indicando tutte le cose buone e quelle cattive”

p. 119

Un bravo scrittore europeo di origine ebraica, mediamente conosciuto, viene assunto da un quotidiano americano come corrispondente per raccontare la vita di alcune colonie ebraiche della Russia sovietica, tra il 1926 e il 1927; questo scrittore-reporter informa quindi con toni asciutti e lineari della situazione politica, sociale e economica di quello che vede e intuisce del nuovo stato comunista: a una lettura veloce, superficiale, magari leggiucchiando qualche frase qua e là in una rumorosa libreria della stazione aspettando un treno in ritardo, queste poche righe sarebbero sufficienti a congedare – senza pietà – La nuova Russia, di I. J. Singer.

‘Magari’, ‘sarebbero’; condizionale, appunto. Perché il lettore, il lettore attento, o sapiente, o educato, o godereccio (insomma: il lettore vero), capisce se da quelle poche frasi ci si può spingere oltre nella lettura, perché sa, percepisce se c’è dell’altro. E il caso di questo libro appena pubblicato da Adelphi (con la traduzione di Marina Marpurgo e la cura di Elisabetta Zevi),  inedito anzi ineditissimo (prima traduzione), ne è un esempio affascinante: perché in poche parole sono racchiusi personalità e rapporti, situazioni e aspetti ben più profondi e ampi. Perché per Israel Joshua Singer nel particolare è l’universale. Ma vado con ordine.

Per prima cosa è fondamentale conoscere la biografia dell’autore, e per questo necessario è partire dalla postfazione di Francesco M. Cataluccio. Non si faccia confusione con i due Singer: I. J., il nostro Israel Joshua, è fratello maggiore di I. B., Isaac Bashevis, l’autore a esempio di Keyla la Rossa, o Max e Flora (editi sempre da Adelphi e curati da Elisabetta Zevi). Singer I.J. è il più irrequieto della famiglia, il minore ne parla come di uno scettico, dalla nota biografica se ne ricava un personaggio dal temperamento sanguigno, preso dalla politica e dalla politica attaccato da tutti i fronti. Letterariamente dotato sin da giovane è in contrasto con la fede dei genitori (“dubitava…”) e l’ambiente ebraico. Conosco così un uomo che non si trova bene da nessuna parte, e proprio per questo si trova a suo agio ovunque; un figura controcorrente, anticonformista, un eclettico incorreggibile (sentenziò Balzac in Illusioni perdute: “Se voi siete eclettico, non avrete nessuno dalla vostra parte. Con chi dunque vi schierate?”). Mi figuro Singer come un incompreso che non molla e che va per la sua strada fregandosi di tutti.

La seconda, essenziale, nozione per una lettura di questo libro è lo stile. Mi torna in mente l’incipit del Salon del 1859, quando Baudelaire cita la richiesta di tale direttore di scrivere una rassegna sull’esposizione corrente come se fosse un “rapido racconto di una passeggiata filosofica”. Rubo il termine a questo direttore (di cui per altro non ricorderò mai il nome, eh sì che l’ho appena letto) perché quello che Singer scrive come inviato del quotidiano yiddish di New York chiamato “Forverts” è a tutti gli effetti una passeggiata: passeggiata letteraria, sociale, politica, antropologica e perché no, pure filosofica, per un vasto vastissimo stato (tra Mosca, Minsk, Odessa, Crimea, Kiev) entro cui non sentiamo minimamento il peso della distanza o dei viaggi (treni a go-go, navi,…), o l’oppressione di lavorare in uno stato stracolmo di spie.

Questa leggerezza è dettata dalla prosa di Singer (con lode alla traduttrice, e anzi siccome non so il russo grazie soprattutto a lei). Il linguaggio è asciutto, sobrio, diretto, pacato; sono quasi assenti gli avverbi, pochi e misurati gli aggettivi (“secche pennellate”, scrive Cataluccio). Narra con una facilità disarmante (e talvolta irritante per gli invidiosi da prosa come il sottoscritto). Leggo il libro senza un ordine preciso: è una storia unica fatta di tante storielle indipendenti seppur legate dallo stesso filo conduttore, un polittico meticolosamente descritto in cui ogni dipinto è sé stante, ma trova il suo significato profondo solamente nell’insieme.

facebook.com/adelphiedizioni

Ma di cosa si tratta? La nuova Russia è classificabile con parole del tipo resoconto-racconto-reportage in cui i confini sono labili. L’esattezza del corrispondente non trascura la narrazione; viceversa la profondità poetica non lascia da parte il rigore dell’informazione. Singer, un po’ come fanno illustri colleghi (Joseph Roth, Walter Benjamin), si propone di dare un resoconto il più pulito, obiettivo e distaccato possibile (“non intendo dare un giudizio”) della condizione delle colonie ebraiche russe, appunto tra il 1926 e il 1927, sotto il comunismo.

Ciò che trovo più interessante nel modo di Singer è la capacità di trarre dal futile particolare un corollario lucido e tantissimi significati. Prendo la prima frase che ho sottolineato come esempio: “si sono presentati nella carrozza ristorante in maglione – si capisce al volo che non possono che essere americani. Sono chiaramente diretti in Russia per affari, alla ricerca di concessioni”. Ma così l’intero testo è pervaso, che si parli di artigiani, contadini (“i contadini sono duri come la terra, e assomigliano al suolo che lavorano”), attrici, colonie, paesi, città. Il ritratto che ne esce sta poi a voi scoprirlo.

“Un vecchietto bielorusso macilento, scalzo nonostante sia inverno, traffica lì attorno, occupandosi delle vacche” (p. 102)
(facebook.com/adelphiedizioni)

I. J. Singer è un maestro dell’ecfrasi delle scene di vita. Paul Valéry sosteneva che disegnare una cosa aiuta a vederla meglio, anzi a vederla per davvero, a conoscerla, comprenderla. Dicasi allora per il nostro letterato che scrivere lo aiuta a vedere e capire per davvero i sentimenti di quelle genti, e il sentire di un popolo intero. Mi piace che prenda poi le campane e il loro alto rintoccare vivo come contrappunto ai frenetici e bassi cori comunisti (con il suono delle campane si congederà da noi lettori).

Mi piace tantissimo anche che parli, anzi che canti di Mosca con forti contrasti, come Guccini canterà di Bologna: “Mosca la più amorevole madre del mondo per i suoi figli… E Mosca, la matrigna di migliaia e migliaia di bambini randagi… Mosca, la città della saggezza e della luce… E Mosca, la città che a tutt’oggi non ha ancora una legge che renda obbligatoria l’istruzione” (che ricorda un po’ “Bologna arrogante e papale/ Bologna la grassa e l’umana… Bologna capace d’amore, capace di morte…  Bologna volgare matrona/ Bologna bambina per bene”, ecc).

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Mi piace, non meno delle cose già menzionate, che Singer sia un acuto osservatore, il quale non tralascia il più rozzo, il più insignificante, il più dimenticabile dei dettagli; ma di più: per lui questi sono parte integrante del racconto, e per questo hanno lo stesso valore di azioni, dialoghi, pensieri. Penso in particolare alle “persone eleganti a metà” incontrate a Mosca, dai “colletti inamidati” abbinati come per scelta a “risvolti sdruciti” della giacchetta “consunta”.

Proprio qua sta la sua forza, il suo segreto: il quotidiano trascurabile viene voracemente adocchiato da Singer grazie a occhi stupefatti, meravigliati, e tramutato in bellezza. È lo stupore la chiave per comprendere il talento letterario di Singer in La nuova Russia. Mi ricorda Luigi Ghirri: dopo tutto la fotografia non è così lontano dalla letteratura. Scrive Daniele Benati in occasione della mostra per l’ottantesimo anniversario della nascita dell’artista (Guastalla, Reggio Emilia): “non c’è nulla al mondo che di per sé valga o non valga la pena di essere fotografato o dipinto o raccontato o descritto o messo in musica. Tutto dipende da te, da quello che sai vedere o ascoltare, e da come risponde il tuo cuore quando vedi o ascolti”.

Vedere lo straordinario nell’ordinario e riuscire a farlo scorgere anche al lettore. Solo grazie a questa facoltà Singer è stato in grado di raccontare un mondo e renderlo interessante a cento anni di distanza e farlo diventare letteratura; racconti un mondo piuttosto monotono che, senza lo stupore del narratore, sarebbero stati fredda e dimenticabile cronaca.

Damiano Perini

GOYA, L’ARTISTA CHE INCARNÒ IL SUO TEMPO. A Palazzo Reale di Milano il percorso del maestro che ha coinciso con la trasformazione della sua epoca

Metà mattinata di un giovedì anonimo, fine febbraio; piove, umidità e fa piuttosto freddo. È la giornata ideale per inoltrarsi nel centro di Milano, il giorno giusto per vedere con tranquillità una mostra. Infatti in Piazza Duomo l’area è per lo più sgombra, resistono i soliti esotici da foto in posa (povera Madunina, ridotta a sfondo per selfie), ma niente fermento, niente caos. Strano! Che bello!, penso andando in sollucchero. Ma infatti è solo l’illusione del provinciale: Palazzo Reale è stracolmo, ahimè.

Mi trovo a Milano perché sono gli ultimi giorni della mostra Goya. La ribellione della ragione, a cura di Víctor Nieto Alcaide, e allestita a Palazzo Reale (fino al 3 marzo). Io le mostre sono abituato, o a guardarle (con gli occhi della ratio) prossime all’apertura se non addirittura in anteprima, oppure, a seconda dei sentimenti, del tempo, del tema o della voglia preferisco beneficiarne (con gli occhi dei sentimenti e delle emozioni) verso la loro fine. Essere tra gli ultimi partecipi di una mostra è ancora più emozionante che esserlo tra i primi: la quiete e la pace di ciò che è stato, la decadenza di ciò che sta per finire; i commenti, le parole, i passi di chi è passato come se fossero racchiusi ancora tra quei muri.

Ma stavolta niente atmosfera, niente poesia. Quello che incontro varcando la biglietteria ha del tragicomico, del fantozziano: gente frettolosa e nervosa, pensionati distratti, vecchie coppie sposate intente a installare l’app delle audioguide (senza fortuna), scolaresche ingombranti e dal chiacchierio fastidioso, studenti da chat deambulanti. Provo a farmi largo stando attento a non fare del male a nessuno, muoversi nella penombra senza precauzioni potrebbe essere pericoloso. In tutta questa accozzaglia mi viene più semplice ascoltare e vedere il pubblico che non Goya.

Cosa avrebbe detto Huysmans? Mi sembra sentirlo in un quelle sale affollate.. pane per i suoi denti; chissà. Ma niente, espletata la piccola polemica… Goya.

Francisco José de Goya y Lucientes (1746-1828), per noi ora grazie a Dio solo Goya, fu artista colto, pittore di corte e della monarchia spagnola, testimone visivo degli eventi succeduti tra il secolo XVIII e il secolo XIX, direttore della Reale Accademia di San Fernando e, soprattutto, ideatore di iconografie e linguaggi pittorici inediti sino a allora. Fu integrato così bene alla sua epoca (certo grazie alle solide amicizie di intellettuali illuminati – correva a gonfie vele l’Illuminismo), tanto da incarnarla come artista.

Un’epoca tormentata, di cambiamenti, trasformazioni, avvenimenti politici, sociali, ideologici, che per Goya significano trasformazione stilistica, razionale, pittorica, iconografica. Accademico esemplare prima, via via rinuncia ai modelli topici per crearne di nuovi e personali; spezza la pennellata consuetudinaria, scegliendo un tocco identitario, gestuale, emotivo e al contempo mentale (niente di improvvisato: come la razionalità dell’Illuminismo, tutto andava provato, esaminato, confermato). L’arte di Goya si identifica con la sua vita, fatta di evoluzione e mutamento continui fino alla morte.

Bambini che giocano alla corrida, 1785

L’allestimento della mostra è un tutt’uno con l’apparato critico. L’itinerario simbolico “dalla luce al buio” equivale alla progressiva trasformazione artistica del maestro spagnolo, dai dipinti accademici (dalla cromia più chiara e luminosa) agli orrori della guerra (molto dark). La divisione in stanze come in capitoli mette in evidenza, in modo piuttosto didattico, l’opera lunga e variegata di Goya. C’è tanto gioco (bene, perché Goya lo si pensa solo pittore di tenebra e terrore), tanti bambini che si divertono (bene, perché Goya lo si pensa pittore di soldati crudeli), qualche fanciulla (bene, perché rasserenano e rendono più accattivanti le mostre), tanti ritratti.

María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán, 1804

Il maestro spagnolo, ovviamente, è anche formidabile elogiatore della corrida (tauromachia moderna). E non solo. Goya è precursore dell’antiaccademismo, nonostante, o anzi in virtù del ruolo di direttore. Non sapevo fosse così brillante insegnante. Dice ai giovani allievi dell’Accademia: “non ci sono regole in pittura… l’obbligo servile di far studiare  o seguire a tutti la stessa strada è un grande impedimento per i giovani che professano quest’arte difficilissima, che più di ogni altra si avvicina al divino” (1792).

Rende nel piccolo formato come nel grande, nell’olio come nell’acquaforte (sono parte importante di questa mostra le stampe e le matrici, restaurate per l’occasione), su commissione sia sciolto da committenza repressiva. La cattura di cristo, del 1799 anticipa il Novecento: il non-finito, la pennellata sprezzante, la pittura compendiaria. La Vergine con Gioacchino e Anna (1786) è il passo intermedio tra Masaccio e Felice Casorati.

Emergono aspetti caratteriali notevoli. Si atteggiava da Vate, e la dannunzianissima lapidaria sentenza “ho ormai stabilito uno stile di vita invidiabile, e se qualcuno vuole qualcosa da me deve venire da me” (1786), ne è testimonianza gagliarda. Il contatto con l’Illuminismo dilagante e pervasivo lo fa colto, lo coinvolge nella politica e nell’attualità. Con questa è come se gli occhi gli si fossero aperti un’altra volta, vedesse in modo altro: una nuova realtà, più criptica e enigmatica, che necessita di un cambio di stile. Di colore, di sentimento. In Gaspar Melchor de J. (1798) recupera il tema iconografico della melanconia, dandone inedita vita.

Gaspar Melchor de Jovellanos, 1798

Sarò noioso: ma la parte più interessante per me resta il truce, violento e folgorante periodo dei mostri,  della morte , delle tenebre. A partire dai Capricci del 1797 si avvia un mondo tutto suo (il suo sentire che esce allo scoperto), ermetico, sordido e angoscioso, dove l’incubo è realtà e la realtà incubo. Flagellanti, inquisizione, matti e manicomio, soprusi, sadismo, malvagità in genere. Un De Sade molto raffinato (che era per altro suo contemporaneo), e un Pasolini delle 120 Giornate prima di Pasolini (si veda Il manicomio, 1812). Grottesco terrificante e depravato. Come il ritratto di Tio Paquete, somigliante al Salvatore – Ron Perlman del Nome della Rosa (Jean-Jacques Annaud, 1986), celebre per il suo “penitenziagite”.

Il manicomio, 1812

Mentre squilla un telefonino con suoneria altissime (sigh!),  e una guardia invano rimprovera la vetusta signora colpevole del misfatto (che vuole avere pure ragione), mi trasporto – sempre stando attento a non pestare i piedi a nessuno o a inciampare – alla sezione dedicata alla guerra. Buio completo. E strascichi rosso sangue alle pareti. Perfettamente incastonate in questa cornice, le opere di Goya mi fanno tornare in mente, e sentirle fisicamente,  la voce indelebile del colonnello Kurtz – Marlon Brando, “l’orrore… l’orrore” (Apocalypse Now, regia di F. F. Coppola, fotografia di V. Storaro, 1979). Infatti pittura di guerra in Goya coincide con pittura dell’orrore. Fucilati, storpi, stragi, popolazioni massacrate, mutilati, corpi squarciati, pezzi di braccia a penzoloni… un macello di vite umane.

Il Colosso, 1808

Goya aprirà la porta a una strada dell’arte contemporanea; l’altra, parallela, sarà aperta dal contemporaneo Turner. Un’artista che conosce perfettamente il passato, spalanca il futuro, e si identifica col suo tempo; mi viene da pensare: abbiamo, o avremo, un goya che incarni la nostra, di epoca?

DP

AL VITTORIALE DEGLI ITALIANI RIVIVONO LE AMANTI DI D’ANNUNZIO. “I Censurati”, la mostra di Camillo Langone. E un libro, che scotta ancora, di Giordano Bruno Guerri

Arrivo alle porte del Vittoriale degli Italiani, Villa Adriana dei tempi nostri, in quello splendido comune di quello splendidissimo luogo del Garda che è Gardone Riviera, e un pensiero mi torna alla mente, caldo e limpido come fosse lì lì reale e concreto. Lo rileggo: “a volte, l’offerta supera a tal punto la domanda che d’Annunzio preferisce negarsi. L’affollamento al cancello del Vittoriale lo spinge al sacrificio della cernita”. Sono le parole di Giordano Bruno Guerri prese da un libro, un classico ormai indispensabile, che a prenderlo in mano ancora pulsa, scotta, di vita e bellezza, manie e vizi, amori, passioni: mai nessuno, credo, è riuscito a penetrare la vita del Vate così profondamente nel suo intimo e a restituircela – coinvolgendoci come se fossimo partecipi collaboratori, comparse della stessa pièce – come ha fatto Guerri ne La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele d’Annunzio (Mondadori,2013).

Ma “affollamento”, addirittura! Si sa che d’Annunzio era grande amatore, aveva avuto tantissime amanti; ma tanta richiesta, la fila fuori da casa! Ma quanti anni ha vissuto d’Annunzio? secoli!? E quante donne ha avuto!? Eppure a rileggere Guerri la cosa – per il Vate, è chiaro – è scontata. Generoso (ricopriva di regali, costosi e raffinati, ogni amante), esteta, formidabile a letto, uomo di fama e prodigi (in tutto l’Occidente se ne parlava come grande letterato e come eroe coraggioso, si veda l’impresa di Fiume)… quale donna avrebbe rinunciato a diventare sua “badessa” e chiudersi per un “capitolo notturno” nella sontuosa Stanza della Leda, il luogo sacro e profano in cui si consumavano gli incontri amorosi?

Quanta pazienza, quanto rigore nel libro di Guerri, in cui la sprezzatura dello storico riesce a nascondere il grande lavoro di ricerca e riordino delle fonti (diari e lettere per lo più) a favore di una narrazione romanzesca (che di romanzo non ha nulla) con una visione insieme distaccata e affettuosa. La base del libro sono le memorie di Aélis, ossia Amélie Mazoyer, la sua cameriera (e amante, è ovvio) di fiducia, “la donna che più di tutte e più a lungo assistette alle sue imprese erotiche”, per usare le parole dell’autore. Di qui un’avventura, o meglio, una storia di infinite avventure – squisitamente erotiche ma per nulla pornografiche – che si dipanano lungo tutta la permanenza del Vate nella sua dimora, dal 1921, a 58 anni, fino alla morte, avvenuta di colpo (“si era sempre augurato una morte folgorante e fuori dal letto, e ottenne anche quella”) l’1 marzo 1938.

Roberto Ferri, Le tentazioni di sant’Antonio, 2023

Avventure che rivivono ora grazie a una mostra curata da Camillo Langone, I Censurati. Nudo e censura nell’arte italiana d’oggi – il  motivo per cui mi trovo al Vittoriale –  in cui ogni opera è accostabile, almeno secondo la mia viziosa fantasia, a ognuna delle amanti possedute dal Vate e tanto bene descritte da Guerri. Un valido memento delle imprese amorose consumate in questi locali, insomma. Una mostra in cui a prevalere sono la figura e la pittura (del resto il curatore lo ha ribadito poco tempo fa: “la pittura è la sintesi delle arti, linguaggio immediato e universale capace di concentrare il mondo in un metro quadrato di tela”, scrive a proposito del Premio Eccellenti Pittori – Brazzale). E dove c’è tanta, tantissima carne, tantissime “artistiche tette”, un carnevale di capezzoli.

Immagino che anche Langone abbia dovuto effettuare una grande cernita di opere di nudo (“l’affollamento al cancello” dev’essere cospicuo). Titolo e sottotitolo sono esplicativi: la cornice tematica della mostra è in sintesi la censura da parte dei social di alcune opere di artisti viventi, il cui mezzo di comunicazione però è fondamentale per il proprio lavoro. “I pittori viventi nei musei non ci sono e per loro la vetrina di Instagram è vitale”, scrive Langone, “un  quadro  che  non  compare  su  internet praticamente non esiste… Bloccare il profilo di un pittore è molto vicino a impedirgli di dipingere”.

E aggiunge, sempre il curatore: “la censura è cronaca, un fenomeno che digitale e correttezza politica hanno rilanciato e oggi si rivela in espansione in ogni parte del mondo e in ogni ambito culturale. Pertanto I Censurati è mostra di urgente attualità: espone i nudi recenti, censurati o comunque censurabili, dei migliori artisti italiani viventi che si sono cimentati con tale classicissimo genere”.

Sulla rapporto tra censura e arte contemporanea, arte e politicamente corretto tanto ci sarebbe da pensare e da dire (così veloce mi vengono in mente due titoli, L’arte sotto controllo di Carole Talon-Hugon e La cultura del piagnisteo di Robert Hughes, editi qua in Italia rispettivamente da Johan&Levi e Adelphi. E qualche artista; per fare qualche nome: Woody Allen, Balthus, Schiele, Waterhouse). “Destituire il capezzolo sia destituire la donna, la maternità, la riproduzione sessuata?”, si chiede Langone. Insomma, attualità buia e distopica cronaca: questioni troppo stressanti. E poi ciò mi porterebbe a vedere la mostra con occhiali tristissimi , e io sono più avvezzo al bicchiere mezzo pieno (e sono di quelli che lo vorrebbe sempre pieno), e quindi nella mostra del Vittoriale ci vedo solo edonismo: sofisticato e dannunzianissimo edonismo.

***

I Censurati è un’esposizione chiara, pulita, essenziale – come il bianco della pareti dell’edificio, come il catalogo edito da Liberilibri, come la prosa del curatore – e il contrasto tra l’ambiente ascetico di questa con l’horror vacui della Prioria rende ancora più interessante l’impatto all’entrata di Villa Mirabella. La mostra si svolge idealmente tra due poli, tra due opere di due artisti tra i principali del panorama italiano contemporaneo, opposti tra loro, ma egualmente formidabili: Enrico Robusti – dal vorticoso e spaesante dinamismo, dalla spumeggiante e scoppiettante energia, tutto un turbinio di cose, quasi fosse un lambrusco rifermentato in bottiglia (infatti l’artista è emiliano) – e Giovanni Iudice – dall’atmosfera distesa e languida, morbida e calda, e setosa (un passito di Pantelleria?).

Proprio come il ritiro gardesano di d’Annunzio, dipanatosi tra le figure di due donne per temperamento, carattere e provenienza diametralmente opposte, ma unite dal comune affetto e dalla stessa passione per il Vate (entrambe lo accompagneranno, nonostante tutto, fino alla morte): Aélis e Luisa Baccara.

Di Aélis, l’autrice del diario sopramenzionato, la governante “amica-servitrice”, la confidente numero uno del ‘priore’, col tempo pure l’amante, la “complice, ruffiana e all’occorrenza terza di un triangolo”, si sappia che deve il suo nome a, per usare le parole di Guerri, “un’abilita non comune nella fellatio”. Il nome ‘aélis’, infatti, è un richiamo al francese hélice, elica. Tra tutte le donne del Vittoriale è l’unica che rimane sempre al centro della scena, e quella che viene trattata con un rispetto singolare, quasi di affettuosa amicizia. Una donna di origini umili, ma dal carattere autorevole, ricca di vitalità, mai ferma, briosa.

Di Luisa Baccara, detta Smikrà, la convivente veneziana, l’amante ‘ufficiale’ si potrebbe dire, pianista e di origini altolocate, l’immagine si fa più melanconica. Innamorata di un amore autodistruttivo e praticamente inutile, gelosa e rancorosa, Luisa non sarà mai capace di lasciare il Vittoriale, facendosi abbandonare a una dolce sofferenza, fatta di speranza e ricordi (d’Annunzio la paragonava nel corteggiamento alle figure di Giorgione).

Ecco perché mi compiaccio del mio personalissimo doppio accostamento: Aèlis-Robusti e Baccara-Iudice.

Daniele Galliano, Senza titolo. Collezione Adele Barbetta, Nardò, 2022

Esiste tra le amanti ‘quotidiane’, per così dire, la cameriera Emilia. L’immagine che se ne ricava non è delle più virtuose, anzi, è piuttosto viziosa la ragazza. È testarda e spesso mette il muso, di qui il nomignolo di ‘caporale’; fa uso di droga (colpa di d’Annunzio), è nostrana, gardonese “di piacevole aspetto, molto disponibile alle necessità sessuali del Comandante”. E ben si identifica con la ninfetta di Daniele Galliano, una giovanissima vicino a certi soggetti di Casorati, dallo sfogo eloquente di un amore sfrenato e passionale, il cui stile compendiario del pittore e lo sfumato dell’acquerello ne accentuano ancora più la voluttà. Morirà, poveretta, di tubercolosi.

Daniele Vezzani, Donna che scende le scale, 2020

È fatto minore che il Vate si sposò giovanissimo e ebbe figli nel fiore della gioventù e della carriera letteraria (sono gli anni de Il piacere), a Roma e di nascosto (scappando) con una ragazza di origini nobili, figlia di duca, ingenua e innamorata: Maria Hardouin, “bionda, delicata, esile, occhi celesti”. Non più ripagata dal marito e di conseguenza ai suoi comportamenti tentò il suicidio. Col tempo la prende con filosofia, capisce che avercela col marito sarebbe stato dannoso per lei e lo lascia alla sua vita. È soddisfatta comunque del successo del poeta, e non mancarono le visite al Vittoriale. Discreta e elegante abbandona la scena con leggerezza e disinvoltura, come la Donna che scende le scale di Daniele Vezzani.

Giuseppe Vassallo, Risacca , 2020

È risaputo, invece, che d’Annunzio era fissato col divismo. Il rapporto con Eleonora Duse, la “morta venerata”, è però un mistero; e tale resterà. Così come ignoto rimarrà il rapporto (rapporto?) tra la coppia di giovani di Giuseppe Vassallo.

***

Il Vittoriale ai tempi di d’Annunzio, a leggere il libro di Guerri pare un porto di mare: amanti che vanno e vengono, donne, ragazze di ogni età, nazionalità, estrazione sociale. Ci passa una Melitta, specie di Lolita popolana, una ninfa plebea di Rea ma gardonese. Già sposata varcò le soglie della Leda la prima volta a fine giornata lavorativa (in merceria a fianco del marito). Ragazza gracile e nominata ‘la piagnucolosa’, dopo un periodo focoso è presto relegata a subalterna, a soluzione di riserva. Ma non rinuncia Melitta, né ai ‘capitoli’ né ai generosi regali che ne scaturivano. E attende, come la donna distesa a terra, stralunata e impassibile del Self Portrait di Michele Moro.

Michele Moro, Self Portrait , 2019

Sempre di Michele Moro è il ritratto in poltrona di una donna matura, dal portamento distinto e dallo sguardo sicuro, penetrante. Segno di carattere forte, sicurezza di sé; lo sguardo e il portamento di una donna appagata che ancora sa cosa vuole, e sa come ottenerlo. Un po’ come Margherita Keller, sposa del conte Piero Besozzi di Castelbesozzo, amante del Vate a più riprese con il nome di Fiammadoro. “Per quanto lunga, la relazione fu saltuaria, benché la donna fosse avventurosa e nobile, bella e disinibita, come piaceva a lui”.

Michele Moro, Come spiegare la pittura ad un’anatra morta, 2018

Da grande esibizionista, a d’Annunzio piace chi sa esibirsi; fra le sue concupite spesso ci sono attrici. Maria Antonietta Bartoli Avveduti, “incarnazione della seduttrice”, è una di queste. Brava attrice, scaltra e esibizionista è capace di fingere, entrare nei ruoli via via ordinati dal Comandante. Elena Sangro – questo il nome da amante – “ha il fisico giusto per interpretare ruoli scabrosi”, annota Guerri, “donna fatale o ninfa dei boschi, fibra vegetale o bestia rapida”. Perfetta. O meglio, quasi perfetta: commette il grave errore di lucrare sui doni del Vate, e quindi oltraggiare la sua generosità. Finisce alla porta senza remore. E sì che recitava bene (appare in un film per l’ultima volta in 8 ½ di Fellini); come bene recita la nuova Ophelia “Post-Pre-Raffaellita” di Jara Marzulli.

Jara Marzulli, Poetica della liberazione, 2020

Nella Stanza della Leda si alternano nobildonne a prostitute miserande, senza distinzioni di sorta. Perciò non stupisce la presenza di Esther Pizzuti, ribattezzata Lazzarina, una prostituta di origini milanesi dotata di un’innata bellezza. Invano l’Esteta le rimprovera il cattivo gusto, l’ostinazione riottosa, la “vita volgare” passata tra “trattorie vinose”, e l’avidità. Si ammalò anche lei di tubercolosi, e il Vate si premurò di coprire tutte le spese per i due anni di sanatorio, dove soggiornò, fino alla morte.

Non mancano amanti bizzarre. Consuelo Gòmez Carillo detta la Spagnola non è bella, ma ha dalla sua un lato animalesco e perturbante. Viene appellata come “maschia”, definita come una “scimmietta con orecchie da asino”, “una giovane barbara, originaria d’una tra le più feroci tribù messicane”, si atteggia con “balzi di lupa cerviera”, beve champagne mescolato a profumo, “alterna atteggiamenti da svampita ninfomane a pentimenti pudibondi e tardivi”… insomma, un’invasata. Si sposò due anni dopo aver conosciuto d’Annunzio con l’autore del Piccolo principe, Antoine de Saint-Exupéry.

Ma le diavolette sbucano da ogni parte, e non mancano certo nella piccola Gardone. Qui infatti troviamo una giovane sartina, una ragazza di basso ceto “più voluttuosa e frenetica dell’Alba”. Si chiama Angela Panizza, ma a leggere il Vate “Angioletta è più diabolica… non ho mai visto una tale estasi e una tale adorazione languida e furiosa, di volta in volta, davanti al Principino”. Libidine.

Riccardo Mannelli, “l’artista più censurato d’Italia, il Maestro della Carne, il supremo di segnatore di nudi femminili, più anatomista perfino di Courbet” (Langone), coi sui ritratti evoca con eloquenza queste tre satanasse del sesso.

Tra le infinite relazioni di Gabriele d’Annunzio si segnalano anche alcuni  due di picche. Il più celebre è certamente il rapporto non-rapporto con Tamara de Lempicka. È già una pittrice famosa quando conosce il letterato, infatti si trova al Vittoriale “per sfruttare un mito, non per venerarlo”. È bella, giovane ma soprattutto ha un “fascino da capricciosa che conosce la malia della ritrosia”, una femme-fatale, benzina per il Vate. Tamara è ambigua, dice e non dice, “annunzia e poi ritratta, si propone e si ritira”, e Gabriele “finisce per cedere all’errore comune di ambire con ansia sempre maggiore a una preda che si nega, leziosa con le sue moine”. Un tira e molla per anni e anni, che lascerà a d’Annunzio l’amaro in bocca, la triste realtà di non avercela fatta a compiere l’impresa. Tamara si comporta un po’ come la protagonista di Black Box 3 di Tommaso Ottieri: lei la camicetta te l’ha aperta; ma siamo sicuri che poi te la dia?

Tommaso Ottieri, Black Box 3, 2023

Al Vittoriale tra il 1937-1938 si presenta un evento che come un uragano scuote e sovverte tutti gli ordini all’interno della “cittadella”: l’arrivo di Emy, la “tedesca”, una ragazza “bionda, evanescente come un fantasma”, una “enigmatica valchiria”, ignota e “glaciale”. Una spia? Si dice sia stata inviata al Vittoriale per uccidere a poco a poco d’Annunzio, somministrandogli a piccole dosi veleno e droga. Tale ipotesi non è mai stata confermata, e nemmeno smentita. Resta il mistero, come misteriosa è l’identità della donna a cui appartiene il latteo seno de L’isola, del gardesano Giuliano Guatta.

Giuliano Guatta, L’isola, 2023

E d’Annunzio? A giudicare con piglio da maliziosetti pare che più che il Vate il vero protagonista delle memorie gardonesi sia il suo organo sessuale. E infatti lui lo aveva ribattezzato, personificandolo, in vari modi: “Perno del mondo”, “Gonfalon selvaggio”, “Catapulta perpetua”, “Principino”, “Diavolo”, “Monachino di ferro”.

Omar Galliani, Iokanaan, 2003

E dunque eccolo rappresentato in forma monumentale dal maestro del disegno su tavola Omar Galliani in Iokanaan. Che ci sia pure una correlazione tra il  san Giovanni Battista della Salomè di Oscar Wilde e d’Annunzio? E quelle mani di chi sono? L’affollamento al cancello del Vittoriale era tale…

DP

SCUOLA E BELLEZZA SONO INDISSOLUBILMENTE LEGATE. Un libro di Enrica Buccarella per Topipittori ce lo ricorda

Ho letto, con imperdonabile ritardo, La scuola è un posto bellissimo di Enrica Buccarella. Il libro –  uscito qualche mese fa per Topipittori – è un delizioso cocktail di ingredienti fini e ricercati, sapientemente dosati e miscelati tra loro. Il pretesto dell’autrice è chiaro: riportare come in una sorta di diario la sua lunga esperienza di maestra, in cui far convogliare riflessioni, pareri, opinioni personali legati al mondo dell’insegnamento e della formazione dei più piccoli.

Ma grazie a un testo vivace e snello, scopro via via un supporto per laboratori artistici, uno strumento-guida da cui l’insegnante può attingere idee (e quante sono!) o comunque ispirarsi per attività e tecniche. Ma è anche un libro pregevolmente illustrato (e faccio notare che l’avverbio non è sempre, purtroppo, scontato) e per questo un libro per godere, uno stimolo alla fantasia. E poi sì, il libro della Buccarella è pure un manualetto teorico (competentemente sintetizzato) dalla ricca bibliografia, dove si approfondiscono, tra il resto, l’ arte infantile, la storia grafica degli alfabeti murari, gli illustratori e gli albi per l’infanzia (da cui l’autrice spesso parte per le sue attività, facendoli propri).

Si capisce, nei laboratori la maestra non tartassa i suoi studenti con nozioni; sulla scorta di Rothko (lezione 2: “attenzione a non reprimere la creatività di un bambino con una formazione accademica”; lezione 5: “pensa a coltivare pensatori creativi”), Buccarella si fa discreta aiutante e attenta osservatrice:  “Io mi sono limitata a fare domande”, scrive, “offrire materiali, invitare, incoraggiare e stimolare, e poi ho fatto da spettatrice”.

Non manca la verve polemica. Molto bene, e molto bella e molto accurata l’analisi dell’arte infantile analizzata a partire dal saggio dello storico dell’arte Corrado Ricci, L’arte dei bambini; e molto bene il monito della stessa autrice sul chiacchiericcio del bambino-artista-puro. A parte l’accusa – giusta e coraggiosa – su certa sciatteria, sulle fotocopie (!), e in generale al “modo in cui a scuola si offre ai bambini la possibilità di disegnare”, che “non aiuta il disegno espressivo”; all’uso della matita grigia piuttosto che direttamente dei colori, che nel disegno impedisce “l’espressività del segno, l’immediatezza e la freschezza dell’immagine e ne compromette gli aspetti dinamici”. Ma i bambini vanno guidati sempre, perché non dispongono di innate abilità artistiche come alcuni presumono. “Si tratta di un’idea che nasce da una visione idealizzata dell’infanzia”, spiega l’autrice, sostenendo che “tali idee siano ingombranti ingenuità adulte”.

In La scuola è un posto bellissimo, comunque, il filo conduttore lungo gli otto distinti capitoli è uno: trasformare il momento dell’imparare in meraviglia. I bambini vogliono sapere, ma non sempre vogliono imparare: ecco allora che diventa essenziale la figura del maestro. “Maestro è chi agisce per rivelare la meraviglia della scuola con tutte le opportunità che rappresenta”, scrive l’autrice con un tono profetico e iniziatico. Nel testo, a tratti molto (troppo) descrittivo e a tratti molto lirico (“…nascono virgole, semi che volano, fili d’erba, gocce di pioggia… le associazioni sono immediate”), tra citazioni importanti, riferimenti alti (Paul Valery, Chagall, Matisse, Klee…), e considerazioni illuminanti, scopro tante cose.

Nel primo capitolo, a esempio, dedicato al segno che “fa il disegno e anche la scrittura”, mi pascio dei molti “giochi” estetici dedicati allo scarabocchio, essendone un grande cultore (ottimo il riferimento a Munari, e al suo Prima del disegno), al punto e alla linea.

“Tracciare una linea è già raccontare. Una linea, come una storia, ha un punto d’origine, un inizio, e si svolge nello spazio come nel tempo. Attraversando il foglio, nel suo svolgersi continuo o interrotto, dritto o mosso, suggerisce a chi guarda vari accadimenti: avanzare, fermarsi, riprendere il cammino, cambiare direzione, salire, scendere, volteggiare, incontrare.”

Non sapevo nemmeno che Benjamin, il notissimo Walter Benjamin che conoscevo per la Scuola di Francoforte e altre cose noiose, avesse scritto un libro dedicato agli abbecedari (e che bello vederlo accostato a Gillo Dorfles e non a Adorno o alla “riproducibilità tecnica”, per una volta). Il capitolo in cui se ne parla, degli alfabetieri e abbecedari intendo, è il secondo (Maestra, cosa ho scritto?), e per me è il più bello e il più edonistico di tutti.

È un tripudio di grafica, di meraviglia, di bellezza. “Confesso di non riuscire a prescindere, nella didattica, dalla bellezza”, scrive Buccarella. “Sono convinta che dove vi sia bellezza ci siano anche, sempre, senso e logica. Per questo ritengo che l’aspetto didattico non debba essere disgiunto da quello estetico”.

Scuola e bellezza sono indissolubilmente legate; se quest’ultima manca, la scuola si riduce a freddo e sterile contenitore, in cui sciatte nozioni passano inerti da bocche piatte e rimproveranti a piccole orecchie curiose ma, inconsapevolmente, indisposte. Ben vengano i libri come questo che, ogni tanto, ce lo ricordano.

Damiano Perini

ALLA FONTE DI ACQUA CASTELLO. Viaggio a ritroso dell’acqua minerale naturale di Vallio Terme. Elogio dell’acqua minerale naturale

Arrivo allo stabilimento di Acqua Castello, a Vallio Terme in provincia di Brescia, verso metà pomeriggio di una felice giornata novembrina: piuttosto freddolino ma col cielo limpido e soleggiato, un leggero venticello e un’aria priva di umidità. Vallio Terme è un paesino tipicamente bresciano di poco meno di millecinquecento anime, incastonato in una tra le tante vallette (nomen omen: etimologicamente ‘vallus’ vuol dire ‘valle’, appunto) della Valle Sabbia, le quali fanno da cornice alle Prealpi. È un paesino immerso in una natura selvaggia, in mezzo a un bosco che pare non finire mai. Localizzato tra il Lago di Garda è la città di Brescia, deve questa fortuna ‘solitaria’ anche al fatto di non essere paese di passaggio per i numerosi lavoratori che ogni giorno si recano dalla periferia al capoluogo, agevolati dalla super-strada passante più a sud, per Gavardo.

Mi trovo a Vallio perché ho appuntamento con Sergio Berardi, amministratore unico e nipote del fondatore dell’azienda Acqua Castello, il quale mi ha concesso ben volentieri di accompagnarmi per lo stabilimento, cercando di spiegare i meccanismi straordinari che si celano dietro il processo d’imbottigliamento dell’acqua minerale naturale: e non ‘acqua’, dunque, ma ‘acqua-minerale-naturale’.

Eh sì, perché Berardi, che mi accoglie senza perdere un attimo nel suo ufficio, cosparso ordinatamente di carte e scartafacci (segno che il lavoro c’è, e parecchio), me lo spiattella subito in faccia con tono diretto, seppur bonario: “sono i minerali che differenziano le acque! Il residuo fisso; adesso sono fissati con i residui fissi bassi (le acque dette minimamente mineralizzate, R.F. <50 mg/L, ndr), ma è proprio quello” incita Berardi, “ è proprio quello che caratterizza le acque!” E prosegue: “gli ingredienti principali delle acqua minerali.. sono i minerali! Altrimenti sono acqua e basta. Un’acqua senza minerali”, esagera con un sorriso, “va bene alla caldaia”.

Acque minerali-naturali: non impaurisca il nome. Significa semplicemente naturalmente minerali; in altre parole l’acqua grazie al suo scorrere e sostare nella roccia assume, preleva, assorbe e fa propri quei minerali presenti nella roccia stessa. Questo ‘cocktail’, per così dire, che non è altro che il residuo fisso menzionato (tecnicamente il contenuto di sali disciolti dopo l’evaporazione di un litro d’acqua a 180°C), donerà all’acqua delle specifiche peculiarità, rendendola unica.

E ciò vale pure per l’Acqua oligominerale (ossia con R.F. compreso tra i 50 e i 500 mg/L) Castello. Anche quest’acqua deve le sue caratteristiche alla rocce circostanti, composte da Dolomia Principale (una roccia sedimentaria ricca di carbonati, calcio e magnesio; una roccia compatta e filtrante: l’acqua di qui percola piano piano, e qui sta la sua purezza). Ecco perché l’Acqua Castello possiede un’ascendenza tendenzialmente equilibrata.

Questo quanto riportato in etichetta, in mg/L: R.F.279, calcio 61.2, magnesio 33.1, solfati 3.8, cloruri 1.3, sodio 0.8, potassio 0.1, bicarbonati 341, nitrati 7.8, silice 3.1, fluoruri 0.2 (ARPAE, Reggio Emilia, 21/12/2021). Un’acqua quindi che si definisce carbonatica in virtù del suo valore di bicarbonato, appunto. Ma non è tutto, perché l’azienda si vanta di essere bicarbonato-alcalina. Che vuole dire? Nella scala del Ph si dice neutra una sostanza dal valore 7, acida <7, basica (o alcalina) >7; Castello con un Ph di 7.6 è da considerarsi, per l’appunto, un’alcalina.

Sergio Berardi è un fiume in piena – è proprio il caso di dirlo – di parole. E la storia dell’azienda viene elargita con grande entusiasmo e orgoglio. “Castello è legata al territorio, profondamente legata”, spiega Berardi. “È una tra le poche aziende rimaste indipendenti dalle multinazionali. Abbiamo una produzione relativamente limitata; è un’acqua di nicchia”.

Castello è una azienda storica nata per volontà di Albino Berardi, nonno di Sergio. Ma per una tragicomica casualità. Albino, originario di Vallio, gestiva una azienda agricola a Prevalle, un paese vicino, dove si produceva prevalentemente vino. Soffriva di calcoli renali, sicché un giorno il medico gli parlò di una fonte “miracolosa” a Vallio, dove solevano rifornirsi i nobili signorotti di Brescia. Incuriosito e stupefatto Albino si recò nel suo paese natio, riuscendo col tempo, grazie all’acqua, a ottenere risultati vincenti. Verità o leggenda che sia, sta di fatto che Albino Berardi chiede la concessione e fonda, nel 1953, il primo stabilimento; chiamandolo ‘Castello’ come il toponimo della zona.

Riconosciuta da subito come acqua curativa, l’acqua è inizialmente destinata agli ospedali. Negli anni Sessanta la richiesta sale, tant’è che vengono costruite le terme. Poi, nei Settanta, il boom: le bottiglie dagli ospedali si diffondono alle famiglie, e dalle famiglie ai ristoranti. “Mio papà”, dice Sergio, “successo al nonno, si era inventato il sacchetto di carta attorno alla bottiglia per metterla al riparo dalla luce. Mai far prendere la luce diretta del sole! L’acqua non ne risente, si deteriora”. Ora quel sacchetto è iconico, un simbolo della Castello. “La nostra azienda è un patrimonio storico della provincia di Brescia”, scherza Berardi, “probabilmente l’unica sorgente non-pozzo della provincia”. Anche se scherzando – diceva qualcuno – si dice la verità.

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C’è differenza tra fonte e sorgente? Lo chiedo non appena ci trasferiamo dall’ufficio all’interno dello stabilimento, lì dove avviene l’imbottigliamento vero e proprio. “Non c’è differenza”, intuisco la voce di Berardi, confusa dal frastuono delle migliaia di bottiglia che scorrono sui nastri trasportatori. “Fonte è il luogo dove si trova la sorgente naturale dell’acqua minerale. Vi sono invece acque minerali che non provengono da sorgenti naturali perché provengono da pozzi artificiali che vanno a perforare la falda sotterranea dell’acqua, estraendola da lì”.

Berardi è un esperto dell’argomento, per questo fa lezioni a medici e a alunni di scuole di ogni ordine e grado. Il percorso che mi propone è a ritroso: non dalla sorgente al magazzino; ma, viceversa, dallo stabilimento alla sorgente. L’idea mi piace e così mi ritrovo in una sala colma di macchine e macchinari, tutti automatizzati (ma l’ispettore digitale, come lo chiama, è sempre affiancato dall’ispettore umano, a suo dire ancora insostituibile). Dove mi trovo arrivano le casse con i vuoti a rendere (imbottigliano solo in vetro: Berardi ha studiato molto la plastica, e a suo parere cede sempre qualcosa, mentre il vetro è inerte; “la plastica è più comoda e costa meno, ma la nostra è un’acqua riconosciuta come curativa”, mi spiega). Ogni carico è segnato, perché la cassa deve tornare esatta, se mancano si segnano. “Costa più il vetro dell’acqua che si vende”, mi spiega tra il serio e il faceto.

Sia le casse che le bottiglie devono essere sterilizzate, e fanno un lavaggio apposito. Le prime per una questione igienica e di rispetto nei confronti dell’utilizzatore finale; le seconde per ovvi motivi e procedono con un bagno di 28 minuti a diverse temperature consecutive: a 35°C, 80°C, in acqua e soda all’1%. Poi un secondo bagno a 50°C, un primo risciacquo a 35°C, un secondo a 20°C, e l’ultimo risciacquo direttamente con l’Acqua Castello, per preparare il vetro a essere riempito senza modificare gli elementi e il gusto. “Un po’ come avvinare il bicchiere”, dice Berardi ridendo.

Se la bottiglia di vetro è idonea procede: prima è privata di aria, riempita di acqua minerale naturale e entro 10 metri tappata; successivamente è inserito il sigillo di garanzia di plastica per garantirne la non-manomissione. Vengono imbottigliate circa 10.000 bottiglie all’ora, per turni di 8 ore (una nota azienda del bergamasco ne imbottiglia  in vetro circa 30 mila). L’acqua non scade mai: dipende tutto dalla conservazione. La data di scadenza, che infatti si indica con “da consumarsi preferibilmente entro” si mette perché è un alimento. L’acqua, una volta aperta deve restare tappata, altrimenti dopo 2 o 3 giorni non è più batteriologicamente pura.

I prelievi dell’acqua minerale naturale sono maniacali. Sono effettuati in tre punti strategici del processo: alla sorgente, al serbatoio dello stabilimento (dove risiede l’acqua da imbottigliare), e alla bottiglia. Sono incuriosito allora dal viaggio dell’acqua dalla sorgente al posto in cui mi trovo. “L’acqua per effetto naturale scende dalla sorgente attraverso dei tubi di acciaio inox interrati, e sempre controllati. L’acciaio inox è un materiale perfetto per il trasporto e la conservazione dell’acqua, perché non cede niente”, mi spiega Sergio, che continua galvanizzato: “meglio dell’inox forse c’è solo il PEAD, ossia il Polietilene ad alta densità”.

Le acque minerali naturali fanno due tipi di analisi: quella batteriologica (che deve essere imparziale, fatta da organismo terzo) in cui si rilevano eventuali organismi nocivi alla salute, come appunto batteri; e l’analisi chimica, quella cioè che rileva i minerali presenti, e per questo rimane pressoché invariata. E chiosa: “la chimica costa circa 2000 euro, mentre l’altra sui 200”.

So che producono acqua gassata e leggermente gassata; come si produce? Chiedo senza resistere alla curiosità. “Vedi quelle due cisterne? In una c’è la carbonica (CO2) nell’altra l’acqua da addizionare. Semplicemente viene sparata co2 in pressione nell’acqua. La gassatura dipende da tre fattori: dalla pressione della CO2, dal volume di questa e dalla temperatura dell’acqua. Il rapporto tra questi tre è la cosa più difficile da gestire, perché noi vogliamo garantire sempre la solita pressione. Per fortuna ci aiuta la tecnologia: è un processo automatizzato, al variare dei parametri varia la gassatura”.

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La sorgente dista poco più sopra, forse uno o due chilometri dallo stabilimento. È situata a circa 400 metri di altitudine nel bel mezzo di un monte boscoso che pare non sia mai stato toccato da mano d’uomo. “Abbiamo 43 ettari in concessione attorno alla fonte che devono rimanere incontaminati”, mi spiega Berardi vedendomi affascinato. Questa è la condizione primaria affinché un’acqua minerale naturale possa essere messa in commercio; dalla tenuta dei luoghi dell’acqua ne consegue la sua purezza.

Per giungere alla sorgente, dopo un tratto asfaltato, prendiamo un sentiero largo tanto quanto basta per una piccola automobile. Una strada che ha le sembianze di una via iniziatica. Attraversiamo più volte un fiume; infine si scorge un cancelletto. Eccoci arrivati: davanti a noi un piccolo praticello con attorno delle panchine che paiono ataviche; una prima piccola e bassa porticina introduce in un cunicolo ancora più basso scavato a mano nella roccia. In fondo a questo una secondo porta ancor più misteriosa fa presupporre che proprio lì dentro sta la sorgente; il luogo, tecnicamente parlando, dove avviene l’opera di presa, la cosiddetta captazione.

Questa è fondamentale, è l’operazione più importante del processo, e per questo avviene secondo un preciso metodo. L’acqua che sgorga dalla roccia non può e non deve assolutamente essere alterata dal fattore umano o comunque da un fattore esterno. Un piccolo e insignificante agente estraneo potrebbe alterare e contaminare l’acqua minerale naturale che sarà poi imbottigliata. La captazione avviene grazie a due vasche poste in corrispondenza dell’uscita dell’acqua di cui la prima serve come decantazione di eventuali altre particelle rocciose. Dalla seconda vasca l’acqua comincia il suo viaggio verso lo stabilimento, arrivando, ben presto, in bottiglia.

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Sergio Berardi si dimostra una persona di grande cultura mossa dalla passione per il suo lavoro, oltre che di amministratore anche e soprattutto di divulgatore. “C’è bisogno di fare cultura dell’acqua, ce n’è un grande bisogno!”, mi confessa con un tono quasi sommesso, implorante ma al contempo speranzoso. “Siamo in pochi ancora, e siamo visti come matti”.

“L’acqua ha carica microbica, questo vuol dire che è viva!”, mi dice chiudendosi alle spalle il cancelletto dell’oasi verdeggiante, quasi un locus amoenus, dove, tanti anni fa i signori del posto solevano curarsi a bevute d’acqua, posando su quelle panchine in cemento ora ruderi, senza sentire il peso del tempo che scorre frenetico e confuso. Berardi ha ricoperto e ricopre tutt’ora importanti cariche, è stato consigliere di Federterme per esempio. Mi dice di essere laureato in economia, e così si inoltra in un discorso di multinazionali, di firma che compra firma e poi rivende; discorsi sul marketing, su pubblicità ingannevoli… ma si sa, l’acqua, come tutti i prodotti alimentari, come tutti i prodotti commerciali, è anche questo. Ma è un altro discorso.

E allora ci salutiamo; è stato un pomeriggio lungo e intenso e ricco e, soprattutto, dopo tanta acqua, devo cercare un bagno (Acqua Castello è un’acqua fortemente diuretica).

 

DP

VEDERE KLIMT PER CONOSCERE LUIGI BONAZZA. Appunti sulla mostra “Klimt e l’arte italiana” al Mart di Rovereto

Ho fatto poco caso alle due opere di Gustav Klimt (1862-1918) esposte eccezionalmente al Mart di Rovereto in questi mesi. Giuditta II appartiene alla collezione di Ca’ Pesaro di Venezia, Le tre età della donna invece alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma; entrambe sono capolavori del Novecento, è chiaro, e rappresentano il culmine dell’opera klimtiana, quella del periodo aureo. E c’ho fatto poco caso non tanto per pigrizia, ma perché la mostra allestita ora al Mart (Klimt e l’arte italiana, ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Beatrice Avanzi, fino al 18 giugno) vuole presentare al pubblico non le opere del maestro austriaco, bensì lo straordinario influsso di questo suo linguaggio innovativo sugli artisti e sull’arte italiana, specialmente nel Nord-est (Venezia, Trieste, Trento, Verona).

Gustav Klimt, Le tre età della donna, 1905, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma

È un’idea tutta sgarbiana che da anni prosegue il Mart (ossia da quando Sgarbi ne è presidente), quella di far emergere artisti minori a partire da contesti più conosciuti. Klimt e l’arte italiana si va a abbracciare ora alla sua mostra gemella Giotto e il Novecento (concepita con la stessa idea, prorogata fino al 4 giugno) andando a formare un duetto complementare, importantissimo e anche eccitante (per gli studiosi, per i comunicatori, per gli insegnanti, o semplicemente per gli amanti del bello) che in Italia non ha eguali.

(Del resto, la riproduzione monumentale di Andrea Ravo Mattoni, il San Sebastiano che ci accoglie nel grande cavedio del museo, Eco of Antonello da Messina, è un memento-monumento, un omaggio al grande maestro e alla mostra su Antonello prodotta nel 2013 che, per la prima volta, proponeva un dialogo tra classico e contemporaneo.)

Andrea Ravo Mattoni, Eco of Antonello da Messina

Così come nella mostra dei giotteschi, in Klimt e l’arte italiana sono i klimtiani a dire la loro. Le due opere di Klimt sono il perno su cui ruota tutta la mostra e l’apparato critico, testimoniano il suo passaggio in Italia, insomma ci fanno capire da dove parte tutto. Che poi non è nemmeno troppo vero: perché a sua volta Klimt fu profondamente rapito, nei suoi viaggi italiani, Ravenna e Venezia in particolare, dall’arte antica del nostro Paese (i mosaici ravennati e della basilica di San Marco lo illuminarono: lo splendore e la bidimensionalità dei mosaici di San Vitale sono tutt’ora vivissimi e percepibili nelle opere di Klimt), generando quello che Avanzi definisce un “folgorante cortocircuito” – che in questa mostra è bene esibito.

Corteo di Teodora, mosaico a San Vitale, Ravenna

Klimt a parte, la mostra si apre con un’opera travolgente: A Babilonia di Cesare Saccaggi (1905), in dialogo con la Giuditta II, è la sintesi perfetta del simbolismo fin-de-siecle: esotismo, pietre preziose e femme fatale. Questa opera ci parla grazie alla seduzione, alla sensualità, alla sontuosità. L’uomo è ridotto a una povera fiera dominata da una donna superbamente ingioiellata e avvenente, dispotica e sicura di sé (la regina Semiramide, infatti).

L’ambito klimtiano veneziano è ben rappresentato. La mostra è anche una epitome di Vittorio Zecchin (1878-1947). Di Zecchin si può ammirare praticamente tutto, i ricami su mussola, le fiabe a olio su tela: piattissime quanto vive figure che fanno sognare luoghi bellissimi e impalpabili, fatti di bellissime silhouette femminili e gioielli ovunque; sagome dai colori squillanti e nitidi che animano il sogno, aiutano a vagheggiare. E poi i vetri soffiati, gli arazzi ricamati dai paesaggi incantati e sospesi, i mosaici, e ancora le principesse e damine eleganti e bizantineggianti, i ricami su organza per una tovaglia degli anni ‘20, bidimensionalità e ornamento (tanta l’eco dei Nabis). Figure elegantemente allungate, vestite con tessuti decorati da motivi a rosoni con dorature in rilievo: in Zecchin sta tutto il “fasto” e la “rigida opulenza” (M. Lenz) di Klimt.

Ma la mostra è anche  una panoramica su Galileo Chini (1873-1956) e le su monumentali tele decorative, una gradevolissima incessante pioggia di frutti, colori e donne. Tantissime donne, posate, dagli sguardi ammiccanti che rapiscono. L’influsso di Klimt, qui, è particolarmente evidente nella profusione di motivi ornamentali che alternano forme circolari e triangolari. Eclettico come Zecchin, Chini aspira all’arte totale e all’annullamento dei confini tra le arti. In lui l’antico si mischia al Preraffaellismo e al Liberty (mettendo le basi per quello che sarà l’Art Déco). Le dimensioni gigantesche delle tele amplificano la percezione di tutta questa profusione, rende tangibili i profumi che si animano dal fluire delle decorazioni; un tripudio di colori che fa perdere la testa, suscita meraviglia e insieme inganna (Metastasio), stordisce, tocca. Chini è per edonisti: frutti e fiori, scollature e sguardi voluttuosi: libidine pura.

Sorprendente è il caso di Felice Casorati (1883-1963). Prima di approdare al Realismo Magico che tutti conosciamo, infatti, nel periodo veronese (1911-1915) fa suo lo stile secessionista dando vita a opere originali, dove la rarefazione e la spiritualità si incontrano in paesaggi onirici e sospesi. “Sono diventato un visionario, un sognatore e non dipingo più che le immagini che vedo nei sogni: le notti stellate, gli esseri invisibili, gli spiriti puri, le allucinazioni…” scrive l’artista nel 1913, in una lettera a un’amica. Anche se il gusto per le fanciulle in fiore è qui già presente (si veda il nudo del 1913 che ne ricorda tanti altri: come quello conservato dallo stesso Mart, o come quello del Museo del Novecento di Milano), è iconica, in questo senso, l’opera esposta appartenuta alla Gam di Verona, La preghiera del 1914. Molto Giappone, molto Klimt, molto di onirico. Un’opera straordinariamente fine, delicata, lieve e raffinata.

Felice Casorati, La preghiera, 1914, Musei civici di Verona, Galleria d’Arte Moderna Achille Forti

Pare un ossimoro, data la sua leggerezza: ma ha un gran peso in questa rassegna pure Adolfo Wildt, il “Klimt della pittura” (Antonio Maraini),con le sue sculture e disegni, cariche di pathos, dall’esile linearità; e con tanto oro, ovviamente: ma, “se in Klimt la preziosità di questo materiale è una sorta di “inno alla gioia”, alla felicità dell’arte e al trionfo della sensualità, in Wildt, invece, è simbolo di santità, proprio come nella tradizione più antica dell’arte cristiana”. Poi ci sono tanti altri artisti, ovvio, come i cugini Marussig, Teodoro Wolf Ferrari, o Vito Timmel (Viktor von Thümmel), il più macabro e inquietante, lisergico quanto spaventoso.

La sorpresa più grande della mostra, però, è stata scoprire il trentinissimo (si badi al cognome) Luigi Bonazza (1977-1965). E dire che una delle opere esposte appartiene alla collezione permanente del Mart, e l’ho vista più e più volte; ma si sa, vedere non è guardare, e il contesto critico-filologico e quello spaziale giocano un ruolo fondamentale. Bonazza è praticamente allievo indiretto di Klimt. Nato a Arco di Trento, frequenta la Kunstgewerbeschule di Vienna tra il 1898 e il 1901, sotto la guida di Franz von Matsch, socio dei fratelli Klimt in numerose imprese decorative. Sono gli anni in cui si impone il nuovo linguaggio Jugendstil e il gusto della Secessione, e la pittura di Bonazza ne assorbe gli stimoli.

Luigi Bonazza, La leggenda di Orfeo – Rinascita d’Euridice – Morte d’Orfeo, 1905, Mart, Deposito SOSAT

In lui sogno, mito e allegoria si fondono in un modo originale e con uno stile personale e, se mi si fa passare il termine, dialettale. Scomparsa la sinuosità e la fluidità tipica di Chini, compare una più rigida e lignea conformazione della figura, meno curve e più spigoli, meno ornamento in favore di un’essenzialità granitica e immobile. Tanto blu, tanto buio, tanta profondità. L’opera di cui alludevo poco più sopra, La leggenda di Orfeo, a esempio, realizzata a Vienna nel 1905 è un’opera compiutamente secessionista, nella raffigurazione sospesa tra amore e morte, tra spirito apollineo e dionisiaco, nella struttura tripartita e nella preziosa cornice decorata in ottone e avorio con i simboli della Poesia e della Musica.

Vive in lui pure quella tendenza all’arte totale, principio fondante della Wiener Werkstätte, che troverà piena espressione nella decorazione della casa di Bonazza a Trento, dove il tema di Orfeo, caro a molti artisti di inizio secolo, ritorna in visioni notturne influenzate dalla poesia di d’Annunzio. In Klimt e l’arte italiana  è anche possibile scoprire tutta una serie di opere (Jovis Amores, 1912) da lui realizzate con le tecniche della punta secca e dell’acquatinta; disegni che certificano una grande abilità dell’artista trentino, e che fanno viaggiare nei meandri della concupiscenza. E sognare, volando sulle onde della bellezza. Ho fatto poco caso alle opere di Klimt; ma quelle di Bonazza sì, invece, che me le sono godute.

DP

 

IL WABI SABI EVANESCENTE DI MITSUYASU HATAKEDA

L’artista Mitsuyasu Hatakeda, durante il vernissage della sua mostra al Mo.Ca di Brescia (MAb Bipersonale ALFI + MITSUYASU, fino al 21 aprile) mi confessa che, molto prima di leggere la mia presentazione dedicata per l’occasione. , ha conosciuto (“ho incontrato”, mi dice) la parola “Wabi sabi” a 12 anni. “E avevo 12 anni quando ho posto la domanda a mia madre. Mia madre rispose: ‘nemmeno io lo capisco, è difficile da spiegare”, mi confessa l’artista.

“Quell’anno mi portò a Kyoto”, prosegue Mitsuyasu, “e iniziò il mio viaggio nel significato di wabi sabi. Mi innamorai della cultura giapponese. Successivamente studiai i giardini giapponesi all’università per imparare il cuore di essi, andandoli a visitare ogni giorno: il wabi sabi può essere trovato ovunque”.

Il termine “Wabi sabi” è stato coniato per noi occidentali da un artista-filosofo occidentale che per anni ha lavorato e vissuto in Oriente, e precisamente proprio in Giappone, per identificare un determinato tipo di estetica. E così occidentale conserva tutta la sua forma-mentis, la sua classificazione e teorizzazione.

Leonard Koren infatti, il teorico a cui alludo, ha racchiuso un mondo intero in un libretto di poche efficacissime pagine, forgiando di fatto un manifesto. Scrive l’autore in Altri Pensieri (1994): “Il wabi sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee e incompiute; la bellezza delle cose umili e modeste; la bellezza delle cose insolite”. Una riflessione non su principi astratti, ma semplicemente sulla “materialità”.

Wabi sabi insomma valorizza la povertà dei mezzi e la quintessenza delle cose, ripudiando ciò che è artificioso; è l’elogio dell’imperfetto e dell’irregolare, e al contempo il rifiuto di ciò raffinato. Ecco allora che quello che per gli orientali è normale vita quotidiana, per un uomo occidentale – derivante inevitabilmente dalla scolastica tomistica – diventa oggetto di studio e elencazione.

http://moment.jp/
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A Mitsu – lo chiamo amichevolmente – il wabi sabi gli appartiene. E per questo che a Leonard Koren lo accosto; a far sì, in altre parole, che si leggesse la sua opera sotto la torbidissima e velatissima luce del Wabi sabi. “Il wabi sabi”, mi confessa ancora l’artista, “può essere descritto come ‘bellezza del transitorio’, ma non è così semplice. Bisogna sentirla. Non si scappa dalla morte, la si affronta.”

Mitsuyasu Hatakeda è un artista eclettico, multiforme, incline alla ricerca e alla sperimentazione; nella sua vita ha adoperato praticamente tutto il possibile per fare arte: dall’inchiostro all’olio, dall’acrilico alla vernice; su tela o tavola o carta (quella di riso, quella figa, quella giapponese che raramente si trova e ancor più raramente si utilizza). Eppoi il ferro. Ecco, il ferro è il protagonista della sua ultima mostra di cui accennavo più sopra.

Mediante il filo di ferro – il materiale che usa è sempre di scarto – Mitsu dà vita a delle figure, o parti di esse, che richiamano espressioni, vizi e virtù del mondo reale. Sono opere ossimoriche per tanti motivi. Innanzitutto sono delle sagome che appaiono (e dico appaiono) bidimensionali e inanimate; ma basta darci un occhio per scoprire quanta vita possiedono queste statue (e dico statue) che si innalzano dal suolo oppure svolazzano sciolte nell’aria.

E poi quanta leggerezza! Mitsuyasu, con un istinto che è tutto orientale, riesce a donare una lievità e una libertà di movimento (sinuosità) sorprendenti al materiale per eccellenza carico di pesantezza e rigidità. Certo, è il frutto di una tecnica paziente e di una sprezzatura frutto di anni e anni di lavoro, non  l’improvvisazione di uno sprovveduto (non esiste improvvisazione nell’arte). Il ferro quindi, con Mitsuyasu Hatakeda, fluttua e si modella a piacimento generando dei contrasti di pieno e vuoto, di luce e ombra. E è questo il punto.

Perché se il protagonista di queste opere è il ferro, il vero oggetto artistico è il vuoto, vuoto che si genera per contrasto a partire dalle sagome di ferro grezzo generate dall’artista giapponese, e che sprigionano luce, luce viva: siamo nell’estetica del Wabi sabi. Un wabi sabi, però, se mi si lascia passare l’ossimoro, evanescente.

DP

IL RITRATTO: LA BELLEZZA, L’ETERNO. “La ragazza immortale” di Langone è un encomio alla ritrattistica. A olio, matita, pastello: purché fatto da ‘pittori con le mani’

Ho “conosciuto” – ma anzi dovrei togliere quelle virgolette, siccome basta leggerlo un autore per stabilirci un contatto immediato, reale, diretto (Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori) – , ho conosciuto, dicevo, Camillo Langone la mattina di un remotissimo 21 marzo dell’anno di Nostro Signore 2015. Allora ero uno studente fuori sede che aveva in mente appena due cose, le ragazze e fare festa, e spesso, molto spesso l’ordine era invertito, ma cominciavo già a approcciarmi a quel mondo reale e serio che poco a poco iniziava a risultarmi interessante. E lo facevo soprattutto tramite quotidiani, che ai tempi leggevo a iosa senza distinzione di partito, taglio, non me ne fregava nulla della linea editoriale, leggevo le firme, il pensiero di una persona con nome e cognome.

Su Il Foglio di quella mattina si poteva leggere un inquietantissimo pezzo firmato da Alessandro Giuli, era il giorno dell’equinozio di primavera, un eclissi solare era imminente, o forse c’era appena stata o non lo so, e la cultura dello scrivente gli permetteva di sciorinare alcuni tra i Prodigi appuntati dell’autore tardo antico Giulio Ossequiente. Al Sole di Mezzanotte corrispondevano cani che parlavano, fiotti di sangue che fuoriuscivano dal terreno, olmi abbattuti e drizzati da sé, pioggia di latte… Un articolo carico di presagi, presentimenti, chissà.

Ma l’articolo che mi aveva colpito stava poco più sotto, la rubrica titolava con una parola insolitissima ma che comprendevo bene e che mi parve bellissima, “Preghiera”. Si parlava del Fai, dato che l’apertura dei siti del Fondo Ambiente Italiano coincide con il fine settimana dell’inizio della primavera, e con una sintesi fulminante si poteva leggere che sì, benissimo il Fai che rispolvera beni in decadimento, ma resta “il problema principale della bellezza d’Italia che non è il restauro bensì il riuso”.  Le cappelle ducali avrebbero bisogno di duchi, le certose di certosini, e i castelli “che languono inerti da Avio ad Alcamo?”

Stavo leggendo queste parole e io mi trovavo appunto sul treno che da Verona, dove studiavo, e studiavo proprio quelle robe lì, porta a Trento. Andavo ‘in trasferta’ da amici, da città universitaria a città universitaria perché in ogni dove bisogna batter bandiera, non contava chi aveva bei voti ma chi reggeva più l’alcol, e noi eravamo fortissimi. Dal treno, nel mezzo della Vallagarina, il castello di Avio proprio non si può non vedere, ti appare davanti all’improvviso, e quelle parole mi fecero ragionare: vai a vedere che questo Langone c’ha ragione davvero.

*

Da quel momento la Preghiera è diventa quotidiana, procedendo di pari passo, o quasi, con la mia formazione. Del resto è godimento assoluto e soddisfazione intellettuale per un edonista cattolico inconsapevole leggere un cattolico edonista consapevolissimo; e per di più uniti da interessi comuni: l’arte, la cucina, il vino, la spiritualità, le lettere. Certo non è ammirazione, io non ammiro più nessuno, al massimo prendo in considerazione opinioni e idee. E poi a me i vestiti di pelle non piacciono, le cinture borchiate mi fanno schifo, le camice blu a tinta unita spero che mai mi salti in mente di indossarle, non sono misantropo, bevo volentieri Pol Roger Jacques Selosse e Bruno Paillard, e pace se sono “addizionati” e  sanno “di funghi”; uso i treni per andare nelle grandi città perché i parcheggi e il traffico mi irritano, seguo il calcio e tifo Milan da quando ho 3 anni, e i fiocchetti e nastrini sulle ragazze mi fanno impazzire.

Però anch’io, come Langone, non sopporto i piatti quadrati o rettangolari, accendo solo candele di cera, presto attenzione al tipo di gruccia, vado matto per cotechini petti d’oca testine di vitello e lambruschi fortana e terrano, bevo vini ‘rosa’ e no ‘rosati’, Cataldi Madonna oppure Cantrina, bevo Alberto Paltrinieri e Camillo Donati, Walter Massa e Lino Maga, conosciuto, quest’ultimo, poco prima che lasciasse questo mondo; anche a me piacciono i cimiteri e ci vado spesso, commemoro i defunti, adoro le cerimonie liturgiche e le messe in latino (quelle a me più vicino, a San Zenone a Brescia), sono orgoglioso della caccia e dei cacciatori pur non avendo mai preso in mano un fucile, anch’io vorrei mangiare una murena, anche per me Vittorio Sgarbi è imprescindibile punto di riferimento, e mi piacciono gli Adelphi.

Poi del Langone opinionista, sempre sul pezzo della politica e dell’attualità, si potrebbe parlarne a lungo, non scrive solo di cose goderecce: con la sola prosa ci va giù di brutto contro gli “ismi” – islamismo, genderismo, ambientalismo, eccetera – ma questo è un blog di piaceri, e poi non ne ho voglia, e poi c’è di meglio di cui parlare. Lo scrittore, che dice di vivere a Parma ma che pare essere ubiquo in questa Italia varia variegata e avariata, scova la bellezza ovunque, dove pochi la vedono, apprezza le cose semplici, desuete e non considerate; allo stesso tempo denuncia a suo modo la bruttezza, la volgarità, l’esterofilia, il folclore da turisti lungo-lago (o lungo-mare).

Tutto questo lo so perché l’ho letto nella sua rubrica nel corso degli anni, e se qualcosa mi è restato non è perché mi sono ‘documentato’ come un liceale, no-no-no figuriamoci, occupo molto meglio il mio pochissimo tempo libero, ma ci sarà pure un motivo. Langone è pure l’uomo dei mille e taglienti motti; l’ultimo è una folgore, ricalcando il celebre concetto di Gautier (“L’arte per l’arte”) incide nero su bianco parole che suonano come un apoftegma lontano di un qualche profeta antico: Che il vino sia per il vino!, e c’ha ragione, perché abbinare per forza una cosa buonissima con del cibo? Perché poi non abbinarla a un libro?

Io di questi giochetti, di questi abbinamenti sinestetici ne avevo già fatti abbinando, a esempio, i racconti di E. A. Poe alla Tintura Stomatica della farmacia Foletto, un amaro che bevo solo io e pochi altri, essendo amaro vero, rabarbaro e genziana e mille altre cose amarissime. Però leggerlo quelle parole così lampanti eppure non scontate mi ha fatto perdere la testa. Ho aperto subito una bottiglia di Trebbiano Valentini 2018, vino mistico e estatico dalle infinite sfumature e richiami, e che del resto è inutile spiegare, e l’ho abbinato all’ultimo libro di Lina Bolzoni (Nel giardino dei libri, Mauvais Livres), grande studiosa che ho adorato ai tempi degli studi, non più veronesi, ma quelli belli, a Bologna. Un tripudio di cose, di tutto. E così l’arte della memoria si è mischiata deliziosamente all’arte di evocare memorie, vere o false che siano (questo lo sanno fare solo i vini fatti bene).

Beve bene e beve Valentini anche Langone (e sicuramente moltissimo più di me, dato che mi costano un rene), cura mostre, commissiona opera d’arte, promuove artisti, e insomma, vede anche bene, anzi benissimo Langone, perché di mostre di Marta Sesana ne ho visto anch’io, e mi è bastata una, e solo un’opera delle sue per far sì che questa pittrice brianzola mi sia ormai indimenticabile e riconoscibilissima in mezzo a millemila artisti. E poi Langone ha scritto libri, abbastanza e diversi, sempre con quella capacità di unire il cibo alla religione (“gastronomia devozionale”), il cibo all’arte, l’arte alla religione.

*

Adesso però non voglio passare per adulatore, e se ho esagerato è per eccesso di zelo. Mi si capisca, la mia è una scelta abbastanza scolastica. Ma mi sembrava necessario apporre una piccola premessa, in quanto il primo romanzo di Camillo Langone appena uscito è, tra le tante cose, una summa dell’autore. In La ragazza immortale (La Nave di Teseo) c’è dentro tutto: idee, artisti, vini. E anche lo stile, perfetto nella sua sprezzatura e sintesi, e che mi fa così incazzare perché essere così sciolti e esatti a me proprio non riesce, è ciò che meglio riepiloga anni e anni di battute per quotidiani.

Il racconto, in sé, lo si può riassumere in poche parole. Un uomo adulto e una studentessa di poco più che vent’anni – Benedetta – si innamorano, o così sembra; lui, per immortalare la bellezza inevitabilmente fuggente della ragazza (“Non voglio che muoia”) decide di farla ritrarre dai migliori pittori italiani, rendendo eterno – perché ars longa, vita brevis –  il suo splendore di donna in fiore. In questo senso il libro si lega a Un amore di Buzzati e a La noia di Moravia, con un finale che ricorda Risata nel buio di Nabokov. E del resto a Nabokov l’autore regala un omaggio plateale; quando scrive “Lo degusto lentamente questo nome, me lo faccio girare in bocca come fosse un vino buono. Be-ne-det-ta”, è evidente il richiamo al celebrissimo incipit dello scrittore russo, “la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta”.

È un libro erotico, sì, quello di Camillo Langone. Erotismo, puro e languido. Con un tocco di lirismo. Ecco, il lirismo in Langone mancava, e in questo libro se ne ha in abbondanza (“Si sa che il bacio è più intimo della penetrazione”, “Anch’io. Stesa sul divano, nel letto, penso sempre che tu mi sia accanto”). L’amore che sorge nella coppia non penso sia falso, anzi è verissimo; a essere utopica è la ragazza. Troppe idee fuori dal tempo, dal suo tempo, fuori dalla sua generazione (pazienza se per l’autore la legge generazionale non esiste), che la giovane studentessa ha in comune con il suo amante. Non porta mai i pantaloni ma solo gonne! Mangia tutto, poi!

E gli studenti leggono Cioran? Sanno chi è Cioran? Ma soprattutto, leggono ancora libri che non siano funzionali all’esamino? Però è bello sognare, e l’autore lo sa, “amo il mistero e amo il sogno”. Benedetta è la ragazza perfetta, e nella sua perfezione sta il suo limite: una ragazza così non esiste se non in letteratura, e è per questo che è così bello leggere, vagare con la mente, immaginare che l’impossibile prima o poi accada.

I dialoghi tra i due sono rari, e questi sono la conseguenza e la conferma della capacità di sintesi dell’autore. Brevi battute, efficaci. Qua è là ricorrono “filippiche” dell’uomo adulto che si confida, un borghese arricchito e “atarassico”, che vive di piaceri , piaceri essenziali e non leziosi, e piuttosto ricercati: meglio Via Galliera che Via Indipendenza a Bologna, meglio il lambrusco di Sorbara dello champagne. Jessica, Isabel, Nicole, Mary, Rosy? Nomi ridicoli, l’onomastica è importante, si privilegino nomi degni e autoctoni, e Benedetta è perfetto; i romanzi ambientati a Roma? Basta Roma, l’Italia è fatta di tantissime piccole città belle tanto come la capitale, Rovigo, Mantova, Parma. E poi è vero, l’Oscar Mondadori odierno fa veramente passare la voglia di leggere con quella “copertina tagliata di sbieco”.

Il libro è anche un elogio indiretto dell’autostrada (parole languidamente poetiche), dell’autogrill, del caffè di mezzanotte, delle guide cittadine di carta, delle sottolineature dei testi a matita, del cinema (si legga “Quanto mi piace piazzarmi sul grande divano, accavallare le gambe […] e ammirare Benedetta mentre sfila con i capi di cui stiamo ipotizzando l’acquisto” e si ripensi a La Grande Bellezza di Sorrentino, mentre Ramona-Sabrina Ferilli sfila con gli abiti per il funerale sotto gli occhi di un annoiato Jep-Toni Servillo).

È un libro di motti, e di citazione che sono tantissime, forse esagerate; l’autore lo sa e si difende bene perché, dice, la citazione non la usa chi scarseggia di personalità, e questi che accusano non sanno di essere “schiavi del presente, mentre io sono libero di attingere da autori di ogni secolo e di ogni lingua”. È un libro filosofico volendo, Orazio è presente qua e là, in maniera diretta o indiretta, perché è bene avere talento ma meglio ancora è andarci piano: le parabole dei “talentuosi” spesso finiscono in frustrazione: “Ai piccoli convengono / cose piccole. A me Roma, regale, / non piace, bensì Tivoli tranquilla / o Taranto pacifica”, scrivevail poeta romano.

La ragazza immortale è però meglio di tutto un libro sull’arte e sui pittori italiani contemporanei. Camillo Langone nel suo romanzo ripropone in altri termini un progetto che coltiva da anni nel suo Eccellenti Pittori, non a caso auto-citato nel libro. Benedetta rappresenta la bellezza assoluta, ma questa non può durare, solo l’arte può fissare quell’attimo di splendore. Ma ogni artista ha (e deve avere: “Il valore di un artista è racchiuso nella sua peculiarità stilistica, se gliela cancelli non stai danneggiando lui, stai danneggiando te stesso che pagherai a caro prezzo un quadro mercenario e impersonale”) il suo stile, e Benedetta è come un diamante, e deve essere ritratta in ogni sua singola sfaccettatura.

Ecco allora che serve l’occhio e la mano di artisti che dipingono “con le mani” e non fotografi, guai!, anche perché questa “rappresenta e riproduce la morte, la pittura rappresenta e riproduce la vita” (V. Sgarbi): ecco allora che serve l’occhio e la mano di Riccardo Mannelli (“numero uno dei disegnatori di nudo”, “il Daumier dei due secoli, fine XX e inizio XXI”), Enrico Robusti (“il più balzachiano dei pittori viventi”), Luca De Angelis, Daniele Galliano, Giovanni Gasparro, Nicola Verlato, Daniele Vezzani…

Insomma il nostro borghesotto è un committente morboso e un collezionista vorace, e non si capisce fino alla fine se nei ritratti vive la bellezza eterna di Benedetta, o se vive l’ammirazione e il suo amore in quel dato tempo, o se vive la facoltà dell’artista che ripropone e eterna un dato assoluto, oppure se è tutte queste cose insieme: e proprio questo è il punto. Il romanzo di Langone vale oggi come Il capolavoro sconosciuto di Balzac valeva per i suoi tempi; è uno sentito elogio dell’arte (pittura) contemporanea, della committenza, del collezionismo e, soprattutto, ma forse solo quello, un meraviglioso encomio alla ritrattistica.

Damiano Perini