“E così io parlo,
indicando tutte le cose buone e quelle cattive”
p. 119
Un bravo scrittore europeo di origine ebraica, mediamente conosciuto, viene assunto da un quotidiano americano come corrispondente per raccontare la vita di alcune colonie ebraiche della Russia sovietica, tra il 1926 e il 1927; questo scrittore-reporter informa quindi con toni asciutti e lineari della situazione politica, sociale e economica di quello che vede e intuisce del nuovo stato comunista: a una lettura veloce, superficiale, magari leggiucchiando qualche frase qua e là in una rumorosa libreria della stazione aspettando un treno in ritardo, queste poche righe sarebbero sufficienti a congedare – senza pietà – La nuova Russia, di I. J. Singer.
‘Magari’, ‘sarebbero’; condizionale, appunto. Perché il lettore, il lettore attento, o sapiente, o educato, o godereccio (insomma: il lettore vero), capisce se da quelle poche frasi ci si può spingere oltre nella lettura, perché sa, percepisce se c’è dell’altro. E il caso di questo libro appena pubblicato da Adelphi (con la traduzione di Marina Marpurgo e la cura di Elisabetta Zevi), inedito anzi ineditissimo (prima traduzione), ne è un esempio affascinante: perché in poche parole sono racchiusi personalità e rapporti, situazioni e aspetti ben più profondi e ampi. Perché per Israel Joshua Singer nel particolare è l’universale. Ma vado con ordine.
Per prima cosa è fondamentale conoscere la biografia dell’autore, e per questo necessario è partire dalla postfazione di Francesco M. Cataluccio. Non si faccia confusione con i due Singer: I. J., il nostro Israel Joshua, è fratello maggiore di I. B., Isaac Bashevis, l’autore a esempio di Keyla la Rossa, o Max e Flora (editi sempre da Adelphi e curati da Elisabetta Zevi). Singer I.J. è il più irrequieto della famiglia, il minore ne parla come di uno scettico, dalla nota biografica se ne ricava un personaggio dal temperamento sanguigno, preso dalla politica e dalla politica attaccato da tutti i fronti. Letterariamente dotato sin da giovane è in contrasto con la fede dei genitori (“dubitava…”) e l’ambiente ebraico. Conosco così un uomo che non si trova bene da nessuna parte, e proprio per questo si trova a suo agio ovunque; un figura controcorrente, anticonformista, un eclettico incorreggibile (sentenziò Balzac in Illusioni perdute: “Se voi siete eclettico, non avrete nessuno dalla vostra parte. Con chi dunque vi schierate?”). Mi figuro Singer come un incompreso che non molla e che va per la sua strada fregandosi di tutti.
La seconda, essenziale, nozione per una lettura di questo libro è lo stile. Mi torna in mente l’incipit del Salon del 1859, quando Baudelaire cita la richiesta di tale direttore di scrivere una rassegna sull’esposizione corrente come se fosse un “rapido racconto di una passeggiata filosofica”. Rubo il termine a questo direttore (di cui per altro non ricorderò mai il nome, eh sì che l’ho appena letto) perché quello che Singer scrive come inviato del quotidiano yiddish di New York chiamato “Forverts” è a tutti gli effetti una passeggiata: passeggiata letteraria, sociale, politica, antropologica e perché no, pure filosofica, per un vasto vastissimo stato (tra Mosca, Minsk, Odessa, Crimea, Kiev) entro cui non sentiamo minimamento il peso della distanza o dei viaggi (treni a go-go, navi,…), o l’oppressione di lavorare in uno stato stracolmo di spie.
Questa leggerezza è dettata dalla prosa di Singer (con lode alla traduttrice, e anzi siccome non so il russo grazie soprattutto a lei). Il linguaggio è asciutto, sobrio, diretto, pacato; sono quasi assenti gli avverbi, pochi e misurati gli aggettivi (“secche pennellate”, scrive Cataluccio). Narra con una facilità disarmante (e talvolta irritante per gli invidiosi da prosa come il sottoscritto). Leggo il libro senza un ordine preciso: è una storia unica fatta di tante storielle indipendenti seppur legate dallo stesso filo conduttore, un polittico meticolosamente descritto in cui ogni dipinto è sé stante, ma trova il suo significato profondo solamente nell’insieme.
Ma di cosa si tratta? La nuova Russia è classificabile con parole del tipo resoconto-racconto-reportage in cui i confini sono labili. L’esattezza del corrispondente non trascura la narrazione; viceversa la profondità poetica non lascia da parte il rigore dell’informazione. Singer, un po’ come fanno illustri colleghi (Joseph Roth, Walter Benjamin), si propone di dare un resoconto il più pulito, obiettivo e distaccato possibile (“non intendo dare un giudizio”) della condizione delle colonie ebraiche russe, appunto tra il 1926 e il 1927, sotto il comunismo.
Ciò che trovo più interessante nel modo di Singer è la capacità di trarre dal futile particolare un corollario lucido e tantissimi significati. Prendo la prima frase che ho sottolineato come esempio: “si sono presentati nella carrozza ristorante in maglione – si capisce al volo che non possono che essere americani. Sono chiaramente diretti in Russia per affari, alla ricerca di concessioni”. Ma così l’intero testo è pervaso, che si parli di artigiani, contadini (“i contadini sono duri come la terra, e assomigliano al suolo che lavorano”), attrici, colonie, paesi, città. Il ritratto che ne esce sta poi a voi scoprirlo.
I. J. Singer è un maestro dell’ecfrasi delle scene di vita. Paul Valéry sosteneva che disegnare una cosa aiuta a vederla meglio, anzi a vederla per davvero, a conoscerla, comprenderla. Dicasi allora per il nostro letterato che scrivere lo aiuta a vedere e capire per davvero i sentimenti di quelle genti, e il sentire di un popolo intero. Mi piace che prenda poi le campane e il loro alto rintoccare vivo come contrappunto ai frenetici e bassi cori comunisti (con il suono delle campane si congederà da noi lettori).
Mi piace tantissimo anche che parli, anzi che canti di Mosca con forti contrasti, come Guccini canterà di Bologna: “Mosca la più amorevole madre del mondo per i suoi figli… E Mosca, la matrigna di migliaia e migliaia di bambini randagi… Mosca, la città della saggezza e della luce… E Mosca, la città che a tutt’oggi non ha ancora una legge che renda obbligatoria l’istruzione” (che ricorda un po’ “Bologna arrogante e papale/ Bologna la grassa e l’umana… Bologna capace d’amore, capace di morte… Bologna volgare matrona/ Bologna bambina per bene”, ecc).
Mi piace, non meno delle cose già menzionate, che Singer sia un acuto osservatore, il quale non tralascia il più rozzo, il più insignificante, il più dimenticabile dei dettagli; ma di più: per lui questi sono parte integrante del racconto, e per questo hanno lo stesso valore di azioni, dialoghi, pensieri. Penso in particolare alle “persone eleganti a metà” incontrate a Mosca, dai “colletti inamidati” abbinati come per scelta a “risvolti sdruciti” della giacchetta “consunta”.
Proprio qua sta la sua forza, il suo segreto: il quotidiano trascurabile viene voracemente adocchiato da Singer grazie a occhi stupefatti, meravigliati, e tramutato in bellezza. È lo stupore la chiave per comprendere il talento letterario di Singer in La nuova Russia. Mi ricorda Luigi Ghirri: dopo tutto la fotografia non è così lontano dalla letteratura. Scrive Daniele Benati in occasione della mostra per l’ottantesimo anniversario della nascita dell’artista (Guastalla, Reggio Emilia): “non c’è nulla al mondo che di per sé valga o non valga la pena di essere fotografato o dipinto o raccontato o descritto o messo in musica. Tutto dipende da te, da quello che sai vedere o ascoltare, e da come risponde il tuo cuore quando vedi o ascolti”.
Vedere lo straordinario nell’ordinario e riuscire a farlo scorgere anche al lettore. Solo grazie a questa facoltà Singer è stato in grado di raccontare un mondo e renderlo interessante a cento anni di distanza e farlo diventare letteratura; racconti un mondo piuttosto monotono che, senza lo stupore del narratore, sarebbero stati fredda e dimenticabile cronaca.
Damiano Perini