PER RACCONTARE UN MONDO BISOGNA STUPIRSI, ALTRIMENTI È CRONACA DIMENTICABILE. Appunti a caldo su “La nuova Russia” di I. J. Singer

“E così io parlo,
indicando tutte le cose buone e quelle cattive”

p. 119

Un bravo scrittore europeo di origine ebraica, mediamente conosciuto, viene assunto da un quotidiano americano come corrispondente per raccontare la vita di alcune colonie ebraiche della Russia sovietica, tra il 1926 e il 1927; questo scrittore-reporter informa quindi con toni asciutti e lineari della situazione politica, sociale e economica di quello che vede e intuisce del nuovo stato comunista: a una lettura veloce, superficiale, magari leggiucchiando qualche frase qua e là in una rumorosa libreria della stazione aspettando un treno in ritardo, queste poche righe sarebbero sufficienti a congedare – senza pietà – La nuova Russia, di I. J. Singer.

‘Magari’, ‘sarebbero’; condizionale, appunto. Perché il lettore, il lettore attento, o sapiente, o educato, o godereccio (insomma: il lettore vero), capisce se da quelle poche frasi ci si può spingere oltre nella lettura, perché sa, percepisce se c’è dell’altro. E il caso di questo libro appena pubblicato da Adelphi (con la traduzione di Marina Marpurgo e la cura di Elisabetta Zevi),  inedito anzi ineditissimo (prima traduzione), ne è un esempio affascinante: perché in poche parole sono racchiusi personalità e rapporti, situazioni e aspetti ben più profondi e ampi. Perché per Israel Joshua Singer nel particolare è l’universale. Ma vado con ordine.

Per prima cosa è fondamentale conoscere la biografia dell’autore, e per questo necessario è partire dalla postfazione di Francesco M. Cataluccio. Non si faccia confusione con i due Singer: I. J., il nostro Israel Joshua, è fratello maggiore di I. B., Isaac Bashevis, l’autore a esempio di Keyla la Rossa, o Max e Flora (editi sempre da Adelphi e curati da Elisabetta Zevi). Singer I.J. è il più irrequieto della famiglia, il minore ne parla come di uno scettico, dalla nota biografica se ne ricava un personaggio dal temperamento sanguigno, preso dalla politica e dalla politica attaccato da tutti i fronti. Letterariamente dotato sin da giovane è in contrasto con la fede dei genitori (“dubitava…”) e l’ambiente ebraico. Conosco così un uomo che non si trova bene da nessuna parte, e proprio per questo si trova a suo agio ovunque; un figura controcorrente, anticonformista, un eclettico incorreggibile (sentenziò Balzac in Illusioni perdute: “Se voi siete eclettico, non avrete nessuno dalla vostra parte. Con chi dunque vi schierate?”). Mi figuro Singer come un incompreso che non molla e che va per la sua strada fregandosi di tutti.

La seconda, essenziale, nozione per una lettura di questo libro è lo stile. Mi torna in mente l’incipit del Salon del 1859, quando Baudelaire cita la richiesta di tale direttore di scrivere una rassegna sull’esposizione corrente come se fosse un “rapido racconto di una passeggiata filosofica”. Rubo il termine a questo direttore (di cui per altro non ricorderò mai il nome, eh sì che l’ho appena letto) perché quello che Singer scrive come inviato del quotidiano yiddish di New York chiamato “Forverts” è a tutti gli effetti una passeggiata: passeggiata letteraria, sociale, politica, antropologica e perché no, pure filosofica, per un vasto vastissimo stato (tra Mosca, Minsk, Odessa, Crimea, Kiev) entro cui non sentiamo minimamento il peso della distanza o dei viaggi (treni a go-go, navi,…), o l’oppressione di lavorare in uno stato stracolmo di spie.

Questa leggerezza è dettata dalla prosa di Singer (con lode alla traduttrice, e anzi siccome non so il russo grazie soprattutto a lei). Il linguaggio è asciutto, sobrio, diretto, pacato; sono quasi assenti gli avverbi, pochi e misurati gli aggettivi (“secche pennellate”, scrive Cataluccio). Narra con una facilità disarmante (e talvolta irritante per gli invidiosi da prosa come il sottoscritto). Leggo il libro senza un ordine preciso: è una storia unica fatta di tante storielle indipendenti seppur legate dallo stesso filo conduttore, un polittico meticolosamente descritto in cui ogni dipinto è sé stante, ma trova il suo significato profondo solamente nell’insieme.

facebook.com/adelphiedizioni

Ma di cosa si tratta? La nuova Russia è classificabile con parole del tipo resoconto-racconto-reportage in cui i confini sono labili. L’esattezza del corrispondente non trascura la narrazione; viceversa la profondità poetica non lascia da parte il rigore dell’informazione. Singer, un po’ come fanno illustri colleghi (Joseph Roth, Walter Benjamin), si propone di dare un resoconto il più pulito, obiettivo e distaccato possibile (“non intendo dare un giudizio”) della condizione delle colonie ebraiche russe, appunto tra il 1926 e il 1927, sotto il comunismo.

Ciò che trovo più interessante nel modo di Singer è la capacità di trarre dal futile particolare un corollario lucido e tantissimi significati. Prendo la prima frase che ho sottolineato come esempio: “si sono presentati nella carrozza ristorante in maglione – si capisce al volo che non possono che essere americani. Sono chiaramente diretti in Russia per affari, alla ricerca di concessioni”. Ma così l’intero testo è pervaso, che si parli di artigiani, contadini (“i contadini sono duri come la terra, e assomigliano al suolo che lavorano”), attrici, colonie, paesi, città. Il ritratto che ne esce sta poi a voi scoprirlo.

“Un vecchietto bielorusso macilento, scalzo nonostante sia inverno, traffica lì attorno, occupandosi delle vacche” (p. 102)
(facebook.com/adelphiedizioni)

I. J. Singer è un maestro dell’ecfrasi delle scene di vita. Paul Valéry sosteneva che disegnare una cosa aiuta a vederla meglio, anzi a vederla per davvero, a conoscerla, comprenderla. Dicasi allora per il nostro letterato che scrivere lo aiuta a vedere e capire per davvero i sentimenti di quelle genti, e il sentire di un popolo intero. Mi piace che prenda poi le campane e il loro alto rintoccare vivo come contrappunto ai frenetici e bassi cori comunisti (con il suono delle campane si congederà da noi lettori).

Mi piace tantissimo anche che parli, anzi che canti di Mosca con forti contrasti, come Guccini canterà di Bologna: “Mosca la più amorevole madre del mondo per i suoi figli… E Mosca, la matrigna di migliaia e migliaia di bambini randagi… Mosca, la città della saggezza e della luce… E Mosca, la città che a tutt’oggi non ha ancora una legge che renda obbligatoria l’istruzione” (che ricorda un po’ “Bologna arrogante e papale/ Bologna la grassa e l’umana… Bologna capace d’amore, capace di morte…  Bologna volgare matrona/ Bologna bambina per bene”, ecc).

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Mi piace, non meno delle cose già menzionate, che Singer sia un acuto osservatore, il quale non tralascia il più rozzo, il più insignificante, il più dimenticabile dei dettagli; ma di più: per lui questi sono parte integrante del racconto, e per questo hanno lo stesso valore di azioni, dialoghi, pensieri. Penso in particolare alle “persone eleganti a metà” incontrate a Mosca, dai “colletti inamidati” abbinati come per scelta a “risvolti sdruciti” della giacchetta “consunta”.

Proprio qua sta la sua forza, il suo segreto: il quotidiano trascurabile viene voracemente adocchiato da Singer grazie a occhi stupefatti, meravigliati, e tramutato in bellezza. È lo stupore la chiave per comprendere il talento letterario di Singer in La nuova Russia. Mi ricorda Luigi Ghirri: dopo tutto la fotografia non è così lontano dalla letteratura. Scrive Daniele Benati in occasione della mostra per l’ottantesimo anniversario della nascita dell’artista (Guastalla, Reggio Emilia): “non c’è nulla al mondo che di per sé valga o non valga la pena di essere fotografato o dipinto o raccontato o descritto o messo in musica. Tutto dipende da te, da quello che sai vedere o ascoltare, e da come risponde il tuo cuore quando vedi o ascolti”.

Vedere lo straordinario nell’ordinario e riuscire a farlo scorgere anche al lettore. Solo grazie a questa facoltà Singer è stato in grado di raccontare un mondo e renderlo interessante a cento anni di distanza e farlo diventare letteratura; racconti un mondo piuttosto monotono che, senza lo stupore del narratore, sarebbero stati fredda e dimenticabile cronaca.

Damiano Perini

SE TROPPA FORTUNA FA IMPAZZIRE. Su “Benevolenza cosmica” di Fabio Bacà

Eh sì: l’ho letto tutto d’un fiato Benevolenza cosmica, il romanzo d’esordio di Fabio Bacà (Adelphi, 2019, pp. 225). Ne avevo sentito parlare bene di questo scrittore marchigiano, classe 1972; tant’è che, in una libreria di una ordinaria domenica invernale mi lasciai attrarre da Nova, suo ultimo romanzo. Ma la curiosità non era pari alla stizza che mi sarebbe venuta, quasi sicuramente, leggendo quell’autore senza conoscerne l’esordio: Abbandonai Nova, e presi dallo scaffale il libro dalla copertina giallissima (Benevolenza cosmica, per l’appunto).

Non so se la copertina gialla, gialla come il volume preziosamente rilegato di un qualche scritto di Huysmans, inviato da Lord Henry a Dorian Gray, e così minuziosamente descritto da Oscar Wild, sia una coincidenza. Sta di fatto che il romanzo è scritto con una prosa maestosa e magistrale; veloce eppure puntigliosa, ricercata ma immediata. Che padronanza del linguaggio! Come spiegare? A scambi di battute secche di un dialogo si alternano periodi apparentemente infiniti, lunghissimi della narrazione (spesso un soliloquio), ricchi di un vocabolario forbito e puntuale, di un linguaggio alto: ma il piacere di leggerli questi periodi, questa sintassi fluttuante, armonica, calibrata, il godersi frase per frase, parola per parola… è un piacere sì, e di quelli lucidamente carnali.

Ma non è tanto la sintassi che mi ha rapito per un giorno intero, e legato al libro di Bacà, piuttosto la sua trama, una storia articolata (o disarticolata?) tra l’assurdo e il grottesco. Una storia genialmente concepita, dai personaggi così vari, buffi (nonostante quell’alone di gravità in cui l’autore li inserisce) e limpidamente caratterizzati, dagli intrecci così divertenti e impensabili; e poi colpi di scena uno dietro l’altro, battute di spirito, senza che manchi una parte macabra, oscura. È un umorismo, quello di Bacà, che mi ricorda Alan Bennett, o meglio ancora Mordecai Richler della Versione di Barney, oppure i fratelli Coen del Grande Lebowsky, con un pizzico di ansia da descrizione del Palomar di Calvino (si veda a esempio pag. 44).

La vicenda si riduce a qualche mese. Kurt O’Reilly appartiene all’alta società, vive a Londra, ha una bella posizione in una società di statistiche (“manipolare la realtà nel tentativo di ridurla a dati misurabili”), posizione guadagnata grazie al suo intuito e alla sua intelligenza, una facoltosa quanto bizzarra moglie scrittrice, ha una Porsche Cayenne, beve whisky invecchiati e rarissimi. Ha una vita frenetica è vero, ma piuttosto agiata; a Kurt le cose vanno bene. Certo, fino a quella sera, quella scintillante sera (che sarà chiara solo nel finale), in cui uno strano evento cosmico divino astrale gli stravolge la vita. Ma non in peggio: in meglio. Da lì in poi non c’è giornata in cui le cose non gli vadano per il meglio: rimborsi senza senso da parte dell’Agenzia delle Entrate, donne che ammiccano ovunque, taxisti che ogni volta hanno una ricorrenza per fargli lo sconto, guadagni spropositati in borsa, morti scampate per un pelo.

È l’affannarsi di Kurt, la sua Odissea per la città di Londra alla ricerca di una risposta impossibile. Sono quindi le avventure di un apparente paranoico quelle che viviamo, quelle di un sedicente pazzo, un fissato cronico, di un tizio che ha tutte le sembianze di un anti-eroe, di un inetto (“Decisi di dare un senso alla mia giornata lavorativa”, “non ho mai lavorato così poco e male come in questi ultimi mesi”) che in quel tripudio di benefici sogna invece catastrofi, disastri. Esasperato dalla fortuna, sogna la normalità. “Io sono vittima di una pazzesca congiura interplanetaria per eliminare ogni seccatura dalla mia vita e sostituirla con favoritismi spudorati”, ammetterà disperato Kurt. È vittima di una cospirazione, ma una cospirazione al contrario, che gliele fa andare tutte bene, troppo bene.

Kurt è irrequieto, deve trovare la soluzione al suo ‘problema’ a tutti i costi. Ci andranno di mezzo personaggi tra i più disparati: un amico tatuatore e una pornostar, un diplomatico, un delinquente, un mormone squilibrato, un nerd aggiusta-telefoni, dottori surreali e bislacchi, maghi e indovini, fanatici, poliziotti. E una bimba, una piccolissima bimba neonata. Ma sarà proprio grazie a questa che Kurt O’Reilly riuscirà a ritrovare, finalmente, la normalità. Forse.

Luciano Cardo

TUTTO IL SANGUE CHE SGORGA DALL’ULTIMO LIBRO DI CALASSO. Breve commento a “Sotto gli occhi dell’Agnello” e paragone con il “Grünewald” di Huysmans

L’ultimo scritto di Roberto Calasso, postumo e appena uscito, Sotto gli occhi dell’Agnello (Adelphi, 2022), è una tempesta di fulmini lanciati a ciel sereno, saette dirompenti in un’atmosfera apparentemente soffusa e quieta, e proprio per questo sconcertante. L’inquietante ora appena prossima alla Rivelazione pare sia arrivata, e sospesa in attesa di farsi luce vivida. Il libro di Calasso è un insieme di apoftegmi che vanno dalla lunghezza di qualche riga a non più di metà pagina, e sono lame affilatissime, spesso criptiche e dai rimandi lontanissimi, e remoti; sentenze oracolari riprese dai Vangeli; frasi lapidarie e secche come colpi d’ascia disseminate qua e là, una dietro l’altra.

Fratelli Van Eyck, Polittico di Gand, 1432, part.

Il tema è uno: l’Agnus Dei, l’Agnello di Dio (e nella controparte quindi Giovanni Battista), l’agnello che si è sacrificato per i peccati del mondo terreno, per la salvezza celeste. O meglio, oserei dire, che il tema è più specifico, non tanto l’Agnello: ma il sangue che da esso sgorga, o addirittura scorre come una sorgente limpida e cristallina e continua. Quale arma trafigge l’agnello? Si chiede l’autore. Il pretesto è l’agnello enigmatico del polittico di Gand, di Jan Van Eyck (1432). Quel sangue, quella ferita, quello sguardo indifferente dell’animale sacrificale (“trionfante e ucciso”) sono così fuori dalla realtà che nascondo qualcosa – qualche rimando, visione, estasi, a noi ignote.

Fratelli Van Eyck, Polittico di Gand, 1432.

Un’ecfrasi, una disamina acuta: “L’Agnello non ha soltanto una ferita circolare, ma un’altra, vicina, da cui il sangue si riversa nella coppa. Molte gocce schizzano dalla coppa. Alcune scivolano sul ventre dell’Agnello e ricadono in una piccola pozza sul panno bianco”. Sangue che schizza, e su superficie bianchissima, candida, pura, ineffabile. E poi ancora il sangue “sgorga” (p. 29), “continua a sgorgare e schizzare il sangue” (p. 33), “l’Agnello di Dio continuava a sanguinare” (p. 50), e ancora “continuava a sgorgare sangue in una coppa, da cui schizzavano gocce” (p. 51).

L’episodio apocalittico dell’Agnello era stato per secoli solo letto, “nessuno aveva osato raffiguralo”, scrive Calasso, “era come fosse legato nel testo”. Poi arrivò Van Eyck e realizzò un’opera sconvolgente: “apparve qualcosa di abbagliante, unico”.

L’iconografia della pala di Gand del pittore fiammingo non era mai stata presa in considerazione così intensamente nemmeno dallo studioso di arte fiamminga più acuto e zelante, ossia Friedländer. Roberto Calasso, ne parla in qualche modo, cioè il suo, e dunque non parlandone o parlandone per rimando. I significati spesso sono sfuggenti, dotti, ermetici; insomma, calassiani. Il modo di affrontare il rapporto testo/immagine però mi ha fatto pensare a un altro piccolo capolavoro dell’iconologia e iconografia cristiana: il Grünewald di J. K. Huysmans.

Un libricino intenso e concentrato che avevo letto nell’edizione Abscondita (a cura di Roberto Rossi Testa); un libro doloroso quanto bello, piacevole quanto toccante, stridente, acuto. Del resto Huysmans è un mago della prosa artistica, e inoltre gode di una spiccata sensibilità estetica. È un testo infatti che si caratterizza per essere un insieme armonioso di ecfrasi lunghissime, invettive e paragoni inter-artistici e religiosi. Il pretesto qua è la Crocifissione all’interno del dittico di Tauberbischofsheim (1523-1525) di Mathis Grünewald, pittore tedesco tra Quinto e Sesto secolo, secondo Huysmans “un pittore locale, un artista di campanile che lavorò solo per i borghi e i monasteri dei suoi dintorni”.

Nei due libri si respira lo stesso estenuante stress per la ricerca di una verità teologica attorno a un’iconografia unica, difficilissima, mai vista prima. Un’indagine sofisticata, croce e delizia per i due eruditi. Nessuna risposta definitiva; almeno, apparentemente. Solo angustie intellettuali. E ancora, nel mentre, “continua a sgorgare sangue” (p. 60).

Damiano Perini

DELL’IMPOSSIBILITÀ DI ORDINARE UNA BIBLIOTECA. E di altre nozioni dal pianeta Calasso

Devo ringraziare ancora una volta Roberto Calasso, perché dopo la lettura di Come ordinare una biblioteca (Adelphi, 2020) ho capito di essere un bibliomane nella norma. Certo non possiedo lo stesso numero di libri, e men che meno così preziosi. Ma indipendentemente da numero e qualità la verità – legge assoluta –  rimane la medesima: non esiste una regola per ordinare una biblioteca. Ci si può avvicinare caso mai con la cosiddetta “regola del buon vicino” che, come spiega Calasso, è stata “formulata e applicata da Aby Warburg”, secondo la quale “nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile” di quello che si cercava (p. 12).

Questo per un motivo specifico, intrinseco alla biblioteca in senso assoluto. L’ordinamento di questa, infatti, dice più avanti Calasso, “non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento” (p. 59). Proprio così sta scritto: organismo; un essere vivente, capace di interagire con il mondo esterno. Ne deriva che questo organismo è formato tante piccole cellule che lo formano, i libri, dalla “presenza incombente”; il libro: elemento immortale che, “come il cucchiaio, appartiene a quegli oggetti che vengono inventati una volta per tutte […]. Passibili di innumerevoli variazioni, ma all’interno di un solo gesto”, ossia leggere un testo tenendolo fra le mani, accarezzandolo, sfogliandolo languidamente, o nervosamente.

È una lettura piacevolissima quella di Come ordinare una biblioteca; è la raccolta di quattro scritti pubblicati a distanza anche di parecchio tempo tra loro, in cui l’erudizione si mescola a un piacere libidinoso per le personalità alto-culturali del passato, a una prosa sciolta e disinteressata, a una ricerca delle fonti minuziosa; il tutto miscelato alle memorie dell’autore, culturalmente sapidissime e intriganti (chi riuscirebbe mai a costruire un racconto tanto documentato e insieme tanto vivido attorno a delle riviste di inizio Novecento?).

Mi sento libero inoltre da quel peso irrefrenabile e indescrivibile (che il bibliomane ben conosce) di possedere libri che mi osservano dal dorso, in stato di perenne attesa a mo’ di Deserto dei tartari, come a chiedermi: “quando mi leggerai?”.  Il grande erudito mi rassicura perché “essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, o di dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro” (p. 31). Comprare un libro, in altre parole, solamente per il suo uso “ipotetico”. Del resto, è proprio il caso di dirlo: habent sua fata libelli.

Naturalmente, come in ogni libro di Calasso gli aneddoti sono svariati, e coltissimi. Ho scoperto curiosità interessanti, e tra quelli che mi sento di segnalare, uno merita più di altri. Si parla dell’impossibilità di accorpare le biblioteche (p. 58); della prima recensione della storia (p. 107: no, non vi dico qual è); dell’importanza del catalogo bibliografico (p. 30); delle chiose a margine (“non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza”, p. 38); dello scrivere a matita sui libri (p. 41); delle prime edizioni (p. 26). Ma come dicevo, quella che mi ha colpito più di tutte le informazioni lette è una sola, orgogliosamente italiana: “nell’Europa della prima metà del Seicento c’erano solo tre biblioteche aperte al pubblico: l’Ambrosiana di Milano (dal 1608), la Bodleian a Oxford (dal 1612) e la Angelica a Roma (dal 1620)”. Le biblioteche le abbiam sempre avute quindi; ma i lettori?

D.P.

ETERNO BAUDELAIRE. Leggo Calasso e non ho più dubbi sull’immortalità del pensiero critico del grande dandy

Di Baudelaire sapevo poche, meravigliose e fulminati cose. Innanzitutto il grande dandy parigino è, soprattutto – sopra-t-u-t-t-o –  il padre dei critici moderni, il precursore della critica contemporanea, antiromantica e soggettiva, e appassionata. Lo sapevo perché ho letto lungamente i suoi Salon, perché ho letto con penetrazione il saggio su Costantin Guys (il saggio fondamentale, la Bibbia della critica d’arte contemporanea), e assimilato concetti di tal genere:  “perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti” (Salon 1846).

Ma il libricino postumo di Roberto Calsasso Ciò che si trova solo in Baudelaire, appena uscita da Adelphi, che fa da supporto, più segalino e tagliente, a La folie Baudelaire di qualche anno fa (ben più massiccio e profuso di nozioni), è illuminante. Per il motivo che dirò.

Sapevo, a esempio, che in Delacroix cercava quella “sovranatura” in grado di staccare dalla pittura di secoli prima, in particolare romantica (p. 19); intuivo, ma senza dubbi, che “fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi” (p. 24). Leggendolo, questo visionario dagli gli incipit “folgoranti”, percepivo la sensazione di avere a che fare con un “insofferente di ogni sistematicità, poco incline al ragionamento prolungato consequenziale” (p. 28) – rispecchiandomi, per altro, totalmente; e quindi comprendendolo a fondo.

Baudelaire ritratto dal fotografo Nadar (Wikipedia)

Di Baudelaire, sapevo ancora, e anzi benissimo, che sempre al centro del suo interesse fu l’immagine. Un linguaggio visivo, un ragionamento per icone nitide, colorate, chiarissime; un metodo particolarissimo, il suo, di “trattare le immagini come se parlassero, come se i loro significati non fossero meno evidenti di quelli trasmessi dalle parole” (p. 32). Quello di Baudelaire è un vero e proprio “culto” delle immagini: in lui, scrive Calasso, “cade ogni divisione fra la poesia, la critica, la prosa”; per questo, sostiene sempre Calasso, “volle dedicare il suo saggio più importante e articolato non a un pittore, ma a un illustratore” (p. 34).

Sapevo altresì del poeta misterico cose molto più frivole, ma non meno importanti: con lui “la moda viene messa sullo stesso piano della religione arcaica”, e non per sminuire la religione, ma per innalzare la moda, fondamentale per arrivare alla “bellezza eterna” (p. 40); che la noia – fu uno splenetico incorreggibile – era suo grande amore (p. 42); che il rosa e il verde, meglio se accostati, erano i suoi colori prediletti (p. 118). Addirittura lo avvertivo, da cattolico, che pregasse pure lui in qualche misura, “molto spesso, e nelle sue forme più elementari” (p. 48).

Di Baudelaire, solo una cosa, la più importante, non mi era chiara: l’immortalità del suo pensiero.

Ecco perché è così attuale, penetrante sempre e comunque. Devo ringraziare la mente brillante, colta e raramente speculativa di Roberto Calasso se ora Baudelaire è per me un mistero meno misterioso. “Due secoli sono finiti senza riuscire a distanziarsi da Baudelaire. Forse nulla di essenziale si è aggiunto. O forse quel certo modo di giudicare, che si diparte dall’estetico e dai nervi e fa breccia fino a una metafisica clandestina, ha una resistenza al tempo simile a quella delle equazioni e dei teoremi.”

Eterno Baudelaire: sia eterna anche la critica!

DP