ETERNO BAUDELAIRE. Leggo Calasso e non ho più dubbi sull’immortalità del pensiero critico del grande dandy

Di Baudelaire sapevo poche, meravigliose e fulminati cose. Innanzitutto il grande dandy parigino è, soprattutto – sopra-t-u-t-t-o –  il padre dei critici moderni, il precursore della critica contemporanea, antiromantica e soggettiva, e appassionata. Lo sapevo perché ho letto lungamente i suoi Salon, perché ho letto con penetrazione il saggio su Costantin Guys (il saggio fondamentale, la Bibbia della critica d’arte contemporanea), e assimilato concetti di tal genere:  “perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti” (Salon 1846).

Ma il libricino postumo di Roberto Calsasso Ciò che si trova solo in Baudelaire, appena uscita da Adelphi, che fa da supporto, più segalino e tagliente, a La folie Baudelaire di qualche anno fa (ben più massiccio e profuso di nozioni), è illuminante. Per il motivo che dirò.

Sapevo, a esempio, che in Delacroix cercava quella “sovranatura” in grado di staccare dalla pittura di secoli prima, in particolare romantica (p. 19); intuivo, ma senza dubbi, che “fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi” (p. 24). Leggendolo, questo visionario dagli gli incipit “folgoranti”, percepivo la sensazione di avere a che fare con un “insofferente di ogni sistematicità, poco incline al ragionamento prolungato consequenziale” (p. 28) – rispecchiandomi, per altro, totalmente; e quindi comprendendolo a fondo.

Baudelaire ritratto dal fotografo Nadar (Wikipedia)

Di Baudelaire, sapevo ancora, e anzi benissimo, che sempre al centro del suo interesse fu l’immagine. Un linguaggio visivo, un ragionamento per icone nitide, colorate, chiarissime; un metodo particolarissimo, il suo, di “trattare le immagini come se parlassero, come se i loro significati non fossero meno evidenti di quelli trasmessi dalle parole” (p. 32). Quello di Baudelaire è un vero e proprio “culto” delle immagini: in lui, scrive Calasso, “cade ogni divisione fra la poesia, la critica, la prosa”; per questo, sostiene sempre Calasso, “volle dedicare il suo saggio più importante e articolato non a un pittore, ma a un illustratore” (p. 34).

Sapevo altresì del poeta misterico cose molto più frivole, ma non meno importanti: con lui “la moda viene messa sullo stesso piano della religione arcaica”, e non per sminuire la religione, ma per innalzare la moda, fondamentale per arrivare alla “bellezza eterna” (p. 40); che la noia – fu uno splenetico incorreggibile – era suo grande amore (p. 42); che il rosa e il verde, meglio se accostati, erano i suoi colori prediletti (p. 118). Addirittura lo avvertivo, da cattolico, che pregasse pure lui in qualche misura, “molto spesso, e nelle sue forme più elementari” (p. 48).

Di Baudelaire, solo una cosa, la più importante, non mi era chiara: l’immortalità del suo pensiero.

Ecco perché è così attuale, penetrante sempre e comunque. Devo ringraziare la mente brillante, colta e raramente speculativa di Roberto Calasso se ora Baudelaire è per me un mistero meno misterioso. “Due secoli sono finiti senza riuscire a distanziarsi da Baudelaire. Forse nulla di essenziale si è aggiunto. O forse quel certo modo di giudicare, che si diparte dall’estetico e dai nervi e fa breccia fino a una metafisica clandestina, ha una resistenza al tempo simile a quella delle equazioni e dei teoremi.”

Eterno Baudelaire: sia eterna anche la critica!

DP

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