IL RITRATTO: LA BELLEZZA, L’ETERNO. “La ragazza immortale” di Langone è un encomio alla ritrattistica. A olio, matita, pastello: purché fatto da ‘pittori con le mani’

Ho “conosciuto” – ma anzi dovrei togliere quelle virgolette, siccome basta leggerlo un autore per stabilirci un contatto immediato, reale, diretto (Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori) – , ho conosciuto, dicevo, Camillo Langone la mattina di un remotissimo 21 marzo dell’anno di Nostro Signore 2015. Allora ero uno studente fuori sede che aveva in mente appena due cose, le ragazze e fare festa, e spesso, molto spesso l’ordine era invertito, ma cominciavo già a approcciarmi a quel mondo reale e serio che poco a poco iniziava a risultarmi interessante. E lo facevo soprattutto tramite quotidiani, che ai tempi leggevo a iosa senza distinzione di partito, taglio, non me ne fregava nulla della linea editoriale, leggevo le firme, il pensiero di una persona con nome e cognome.

Su Il Foglio di quella mattina si poteva leggere un inquietantissimo pezzo firmato da Alessandro Giuli, era il giorno dell’equinozio di primavera, un eclissi solare era imminente, o forse c’era appena stata o non lo so, e la cultura dello scrivente gli permetteva di sciorinare alcuni tra i Prodigi appuntati dell’autore tardo antico Giulio Ossequiente. Al Sole di Mezzanotte corrispondevano cani che parlavano, fiotti di sangue che fuoriuscivano dal terreno, olmi abbattuti e drizzati da sé, pioggia di latte… Un articolo carico di presagi, presentimenti, chissà.

Ma l’articolo che mi aveva colpito stava poco più sotto, la rubrica titolava con una parola insolitissima ma che comprendevo bene e che mi parve bellissima, “Preghiera”. Si parlava del Fai, dato che l’apertura dei siti del Fondo Ambiente Italiano coincide con il fine settimana dell’inizio della primavera, e con una sintesi fulminante si poteva leggere che sì, benissimo il Fai che rispolvera beni in decadimento, ma resta “il problema principale della bellezza d’Italia che non è il restauro bensì il riuso”.  Le cappelle ducali avrebbero bisogno di duchi, le certose di certosini, e i castelli “che languono inerti da Avio ad Alcamo?”

Stavo leggendo queste parole e io mi trovavo appunto sul treno che da Verona, dove studiavo, e studiavo proprio quelle robe lì, porta a Trento. Andavo ‘in trasferta’ da amici, da città universitaria a città universitaria perché in ogni dove bisogna batter bandiera, non contava chi aveva bei voti ma chi reggeva più l’alcol, e noi eravamo fortissimi. Dal treno, nel mezzo della Vallagarina, il castello di Avio proprio non si può non vedere, ti appare davanti all’improvviso, e quelle parole mi fecero ragionare: vai a vedere che questo Langone c’ha ragione davvero.

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Da quel momento la Preghiera è diventa quotidiana, procedendo di pari passo, o quasi, con la mia formazione. Del resto è godimento assoluto e soddisfazione intellettuale per un edonista cattolico inconsapevole leggere un cattolico edonista consapevolissimo; e per di più uniti da interessi comuni: l’arte, la cucina, il vino, la spiritualità, le lettere. Certo non è ammirazione, io non ammiro più nessuno, al massimo prendo in considerazione opinioni e idee. E poi a me i vestiti di pelle non piacciono, le cinture borchiate mi fanno schifo, le camice blu a tinta unita spero che mai mi salti in mente di indossarle, non sono misantropo, bevo volentieri Pol Roger Jacques Selosse e Bruno Paillard, e pace se sono “addizionati” e  sanno “di funghi”; uso i treni per andare nelle grandi città perché i parcheggi e il traffico mi irritano, seguo il calcio e tifo Milan da quando ho 3 anni, e i fiocchetti e nastrini sulle ragazze mi fanno impazzire.

Però anch’io, come Langone, non sopporto i piatti quadrati o rettangolari, accendo solo candele di cera, presto attenzione al tipo di gruccia, vado matto per cotechini petti d’oca testine di vitello e lambruschi fortana e terrano, bevo vini ‘rosa’ e no ‘rosati’, Cataldi Madonna oppure Cantrina, bevo Alberto Paltrinieri e Camillo Donati, Walter Massa e Lino Maga, conosciuto, quest’ultimo, poco prima che lasciasse questo mondo; anche a me piacciono i cimiteri e ci vado spesso, commemoro i defunti, adoro le cerimonie liturgiche e le messe in latino (quelle a me più vicino, a San Zenone a Brescia), sono orgoglioso della caccia e dei cacciatori pur non avendo mai preso in mano un fucile, anch’io vorrei mangiare una murena, anche per me Vittorio Sgarbi è imprescindibile punto di riferimento, e mi piacciono gli Adelphi.

Poi del Langone opinionista, sempre sul pezzo della politica e dell’attualità, si potrebbe parlarne a lungo, non scrive solo di cose goderecce: con la sola prosa ci va giù di brutto contro gli “ismi” – islamismo, genderismo, ambientalismo, eccetera – ma questo è un blog di piaceri, e poi non ne ho voglia, e poi c’è di meglio di cui parlare. Lo scrittore, che dice di vivere a Parma ma che pare essere ubiquo in questa Italia varia variegata e avariata, scova la bellezza ovunque, dove pochi la vedono, apprezza le cose semplici, desuete e non considerate; allo stesso tempo denuncia a suo modo la bruttezza, la volgarità, l’esterofilia, il folclore da turisti lungo-lago (o lungo-mare).

Tutto questo lo so perché l’ho letto nella sua rubrica nel corso degli anni, e se qualcosa mi è restato non è perché mi sono ‘documentato’ come un liceale, no-no-no figuriamoci, occupo molto meglio il mio pochissimo tempo libero, ma ci sarà pure un motivo. Langone è pure l’uomo dei mille e taglienti motti; l’ultimo è una folgore, ricalcando il celebre concetto di Gautier (“L’arte per l’arte”) incide nero su bianco parole che suonano come un apoftegma lontano di un qualche profeta antico: Che il vino sia per il vino!, e c’ha ragione, perché abbinare per forza una cosa buonissima con del cibo? Perché poi non abbinarla a un libro?

Io di questi giochetti, di questi abbinamenti sinestetici ne avevo già fatti abbinando, a esempio, i racconti di E. A. Poe alla Tintura Stomatica della farmacia Foletto, un amaro che bevo solo io e pochi altri, essendo amaro vero, rabarbaro e genziana e mille altre cose amarissime. Però leggerlo quelle parole così lampanti eppure non scontate mi ha fatto perdere la testa. Ho aperto subito una bottiglia di Trebbiano Valentini 2018, vino mistico e estatico dalle infinite sfumature e richiami, e che del resto è inutile spiegare, e l’ho abbinato all’ultimo libro di Lina Bolzoni (Nel giardino dei libri, Mauvais Livres), grande studiosa che ho adorato ai tempi degli studi, non più veronesi, ma quelli belli, a Bologna. Un tripudio di cose, di tutto. E così l’arte della memoria si è mischiata deliziosamente all’arte di evocare memorie, vere o false che siano (questo lo sanno fare solo i vini fatti bene).

Beve bene e beve Valentini anche Langone (e sicuramente moltissimo più di me, dato che mi costano un rene), cura mostre, commissiona opera d’arte, promuove artisti, e insomma, vede anche bene, anzi benissimo Langone, perché di mostre di Marta Sesana ne ho visto anch’io, e mi è bastata una, e solo un’opera delle sue per far sì che questa pittrice brianzola mi sia ormai indimenticabile e riconoscibilissima in mezzo a millemila artisti. E poi Langone ha scritto libri, abbastanza e diversi, sempre con quella capacità di unire il cibo alla religione (“gastronomia devozionale”), il cibo all’arte, l’arte alla religione.

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Adesso però non voglio passare per adulatore, e se ho esagerato è per eccesso di zelo. Mi si capisca, la mia è una scelta abbastanza scolastica. Ma mi sembrava necessario apporre una piccola premessa, in quanto il primo romanzo di Camillo Langone appena uscito è, tra le tante cose, una summa dell’autore. In La ragazza immortale (La Nave di Teseo) c’è dentro tutto: idee, artisti, vini. E anche lo stile, perfetto nella sua sprezzatura e sintesi, e che mi fa così incazzare perché essere così sciolti e esatti a me proprio non riesce, è ciò che meglio riepiloga anni e anni di battute per quotidiani.

Il racconto, in sé, lo si può riassumere in poche parole. Un uomo adulto e una studentessa di poco più che vent’anni – Benedetta – si innamorano, o così sembra; lui, per immortalare la bellezza inevitabilmente fuggente della ragazza (“Non voglio che muoia”) decide di farla ritrarre dai migliori pittori italiani, rendendo eterno – perché ars longa, vita brevis –  il suo splendore di donna in fiore. In questo senso il libro si lega a Un amore di Buzzati e a La noia di Moravia, con un finale che ricorda Risata nel buio di Nabokov. E del resto a Nabokov l’autore regala un omaggio plateale; quando scrive “Lo degusto lentamente questo nome, me lo faccio girare in bocca come fosse un vino buono. Be-ne-det-ta”, è evidente il richiamo al celebrissimo incipit dello scrittore russo, “la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta”.

È un libro erotico, sì, quello di Camillo Langone. Erotismo, puro e languido. Con un tocco di lirismo. Ecco, il lirismo in Langone mancava, e in questo libro se ne ha in abbondanza (“Si sa che il bacio è più intimo della penetrazione”, “Anch’io. Stesa sul divano, nel letto, penso sempre che tu mi sia accanto”). L’amore che sorge nella coppia non penso sia falso, anzi è verissimo; a essere utopica è la ragazza. Troppe idee fuori dal tempo, dal suo tempo, fuori dalla sua generazione (pazienza se per l’autore la legge generazionale non esiste), che la giovane studentessa ha in comune con il suo amante. Non porta mai i pantaloni ma solo gonne! Mangia tutto, poi!

E gli studenti leggono Cioran? Sanno chi è Cioran? Ma soprattutto, leggono ancora libri che non siano funzionali all’esamino? Però è bello sognare, e l’autore lo sa, “amo il mistero e amo il sogno”. Benedetta è la ragazza perfetta, e nella sua perfezione sta il suo limite: una ragazza così non esiste se non in letteratura, e è per questo che è così bello leggere, vagare con la mente, immaginare che l’impossibile prima o poi accada.

I dialoghi tra i due sono rari, e questi sono la conseguenza e la conferma della capacità di sintesi dell’autore. Brevi battute, efficaci. Qua è là ricorrono “filippiche” dell’uomo adulto che si confida, un borghese arricchito e “atarassico”, che vive di piaceri , piaceri essenziali e non leziosi, e piuttosto ricercati: meglio Via Galliera che Via Indipendenza a Bologna, meglio il lambrusco di Sorbara dello champagne. Jessica, Isabel, Nicole, Mary, Rosy? Nomi ridicoli, l’onomastica è importante, si privilegino nomi degni e autoctoni, e Benedetta è perfetto; i romanzi ambientati a Roma? Basta Roma, l’Italia è fatta di tantissime piccole città belle tanto come la capitale, Rovigo, Mantova, Parma. E poi è vero, l’Oscar Mondadori odierno fa veramente passare la voglia di leggere con quella “copertina tagliata di sbieco”.

Il libro è anche un elogio indiretto dell’autostrada (parole languidamente poetiche), dell’autogrill, del caffè di mezzanotte, delle guide cittadine di carta, delle sottolineature dei testi a matita, del cinema (si legga “Quanto mi piace piazzarmi sul grande divano, accavallare le gambe […] e ammirare Benedetta mentre sfila con i capi di cui stiamo ipotizzando l’acquisto” e si ripensi a La Grande Bellezza di Sorrentino, mentre Ramona-Sabrina Ferilli sfila con gli abiti per il funerale sotto gli occhi di un annoiato Jep-Toni Servillo).

È un libro di motti, e di citazione che sono tantissime, forse esagerate; l’autore lo sa e si difende bene perché, dice, la citazione non la usa chi scarseggia di personalità, e questi che accusano non sanno di essere “schiavi del presente, mentre io sono libero di attingere da autori di ogni secolo e di ogni lingua”. È un libro filosofico volendo, Orazio è presente qua e là, in maniera diretta o indiretta, perché è bene avere talento ma meglio ancora è andarci piano: le parabole dei “talentuosi” spesso finiscono in frustrazione: “Ai piccoli convengono / cose piccole. A me Roma, regale, / non piace, bensì Tivoli tranquilla / o Taranto pacifica”, scrivevail poeta romano.

La ragazza immortale è però meglio di tutto un libro sull’arte e sui pittori italiani contemporanei. Camillo Langone nel suo romanzo ripropone in altri termini un progetto che coltiva da anni nel suo Eccellenti Pittori, non a caso auto-citato nel libro. Benedetta rappresenta la bellezza assoluta, ma questa non può durare, solo l’arte può fissare quell’attimo di splendore. Ma ogni artista ha (e deve avere: “Il valore di un artista è racchiuso nella sua peculiarità stilistica, se gliela cancelli non stai danneggiando lui, stai danneggiando te stesso che pagherai a caro prezzo un quadro mercenario e impersonale”) il suo stile, e Benedetta è come un diamante, e deve essere ritratta in ogni sua singola sfaccettatura.

Ecco allora che serve l’occhio e la mano di artisti che dipingono “con le mani” e non fotografi, guai!, anche perché questa “rappresenta e riproduce la morte, la pittura rappresenta e riproduce la vita” (V. Sgarbi): ecco allora che serve l’occhio e la mano di Riccardo Mannelli (“numero uno dei disegnatori di nudo”, “il Daumier dei due secoli, fine XX e inizio XXI”), Enrico Robusti (“il più balzachiano dei pittori viventi”), Luca De Angelis, Daniele Galliano, Giovanni Gasparro, Nicola Verlato, Daniele Vezzani…

Insomma il nostro borghesotto è un committente morboso e un collezionista vorace, e non si capisce fino alla fine se nei ritratti vive la bellezza eterna di Benedetta, o se vive l’ammirazione e il suo amore in quel dato tempo, o se vive la facoltà dell’artista che ripropone e eterna un dato assoluto, oppure se è tutte queste cose insieme: e proprio questo è il punto. Il romanzo di Langone vale oggi come Il capolavoro sconosciuto di Balzac valeva per i suoi tempi; è uno sentito elogio dell’arte (pittura) contemporanea, della committenza, del collezionismo e, soprattutto, ma forse solo quello, un meraviglioso encomio alla ritrattistica.

Damiano Perini

UMORISMO, O DEL SAPER VIVERE. Su “Ritratto del barone d’Handrax” di Bernard Quiriny

Ho aperto un libro, ho cominciato a leggerlo e, se non per bere o mangiucchiare qualcosa, non ho più smesso. Verso la metà del racconto ho rallentato, volevo godere piano piano, aumentare il piacere della lettura calcando e rimeditando ogni capitolo, ogni frase; insomma, mi prendevo del tempo. Arrivato alla fine ho chiuso il libro, e – così almeno mi pare – ho esclamato: cazzo, che bomba.

Della piccola casa editrice L’Orma (Roma) conoscevo poco. Ricordi di letture passate, un romanzo dal linguaggio puntuale, incisivo, sincopato, dotato di un minimalismo forsennato, morboso; e caratterizzato da una trama tagliente (per i carveriani: J. Hermann, L’amore all’inizio). Della collana Kreuzville, invece, proprio non ne sapevo.

Poi per caso in libreria noto una copertina color pastello, che risalta in negativo in mezzo a tutte le altre sgargianti, e aprendolo scorgo frasi scritte con uno stile senza tempo ma lampante, un linguaggio indefinibile eppure accattivante; ci leggo qua e là frasi come “conversazioni sconclusionate”, “il barone non scherzava con gli scherzi”, “‘mi perdo continuamente; prendo puntualmente la direzione sbagliata’”, insomma, tutto mi dice di un libro assurdo, ben pensato, esattamente scritto.

Infatti, Ritratto del barone d’Handrax di Bernard Quiriny , il libro – quel libro –  che mi ha tenuto incollato sul divano – facendomi guadagnare una giornata che altrimenti sarebbe passata all’insegna del solito terribile fare – è un racconto verosimile quanto incredibile, e anche per questo affascinantissimo.

Il barone d’Handrax.

Tutto, come già avverte il titolo, ruota attorno alla figura del barone d’Handrax. L’espediente usato dall’autore, e il fattore che rende il racconto così immediato e efficace, è la trascrizione in prima persona delle conversazioni avvenute tra il barone e il protagonista. Si ha così la sensazione che il barone parli con e a noi, testimoni diretti delle sue meravigliose stravaganze.

Luoghi e tempi sono imprecisati, può essere quel “2020” menzionato, ma se risalisse i a mille anni indietro non cambierebbe di molto. E tutto, o quasi, si svolge in un paesino di campagna della Francia settentrionale, “silenzioso”, di poche migliaia di anime, “un campanile”, e “vecchie strade lastricate di basalto”. Il protagonista ci porta subito in abitazioni antiche che “sapevano di encausto, di muffa e di passato”; abitazioni ataviche e inviolate anche dopo la morte dei loro proprietari, che il barone si premurava di collezionare al solo scopo di vivere, o sentire di vivere in un passato tangibile.

Ma chi è il barone? È una figura in fieri, che si definisce via via che si legge il racconto. A tratti è un lirico, a tratti sembra un dadaista; è colto e intelligente, a volte un fesso derubato ai mercatini delle pulci. In poco tempo diventa bambino, eppure è bigamo e padre autoritario e competente di due famiglie. “Incuteva un certo timore”, ci avverte il narratore, “probabilmente tra i cinquanta e i sessant’anni, ben vestito, un po’ paffuto, stile gentleman farmer, con una folta barba brizzolata. I capelli, arruffati, non vedevano un pettine da chissà quanto tempo. Camminava con un bastone da passeggio, un bel bastone in legno nero con il pomo d’argento. Era imponente; a guardarlo mentre stava in piedi ricordava vagamente un orco.”

Eppure, da subito, risulta simpaticissimo. È un personaggio dal grande umore che mette umore, ama la vita e ama vivere, entusiasta sempre e sempre positivo (anche nella malattia). È una figura ossimorica, stravagante, sempre spiazzante, mai banale, ricolma di vezzi e manie; “in fondo”, per usare le parole dell’autore, “era un po’ tutto”. Sembra che le giornate del barone durino 48 ore, tante le cose che fa e che sa.

Così scopriamo che nel suo appartamento esiste una stanza sensoriale, buia, dedicata al tatto, dove dopo aver toccato i materiali più diversi si viene a contatto con due seni di donna; ama il Porto e il Madeira e in generale i vini dolci, ma anche e soprattutto il Calvados. È liberale e conservatore allo stesso tempo (“in ogni dottrina c’era qualcosa di vero, e che era impossibile scegliere tra l’una e l’altra”), nutrendo allo stesso tempo un morbosa “passione per l’infanzia”: “non bisogna mai farsi sfuggire l’occasione di tornare bambini”, confessa. E così, unendo le doti fanciullesche alla burla e all’assurdo, organizza cene dedicate con i sosia di personaggi famosi, anche del passato (squisito il battibecco con l’odiato Sartre), si fa leggere i libri da ragazze giovanissime, organizza partite con i “sniffatori di morte” nei cimiteri e nelle città vicine.

È al contempo lirico e poetico, amante del paesaggio e della bellezza incontaminata (odia le brutture contemporanee). Pater plebis, urbis amator, il barone è altresì benvoluto da tutti; aiuta i cittadini in difficoltà con donazioni, e in città svolge pure la funzione di giudice di pace. Insomma, il barone d’Handrax è un eccentrico sì, ma che conserva una grande forza spirituale.

È intelligente e persona di grande cultura. Come tutte le menti calde e infervorate ha mille “idee di libri”, ma di libri non ne ha mai scritti; o meglio, conclusi (di lui si ha tutta una raccolta di incipit, i più vari e più difformi). Ha provato a tradurre libri, interrompendosi, e non certo perché non aveva le capacità, insinuando una certa abnegazione nel non fare (“sono un Bartleby non praticante”). Nelle sue ricercate stravaganze il protagonista mi ricorda un po’ Martial Canterel, il geniale scienziato di Locus Solus di Raymond Roussel, nei comportamenti buffi un po’ Gargantuà, nelle esagerazioni Arthur Cravan, nelle azioni dotte è il Lorenzo il Magnifico dei Canti carnascialeschi.

Ancora: è meteoropatico (“era allegro quando pioveva, cupo quando il sole brillava. ‘Non ho mai capito perché si dovrebbe essere felici nelle belle giornate’”), filosofo (“’non fare niente tutto il giorno è più difficile di quanto sembri; richiede un sacco di energia’”), poliglotta (“prediligeva quelle parlate da popolazioni minuscole, che non gli sarebbero mai servite a niente; oltre, com’è ovvio, alle lingue morte”): chiede sale e offre vino in latino ai commensali come ai figli, e spassoso è il racconto dell’apprendimento della lingua Â, “una lingua molto rara, parlata da poche tribù della Mongolia, la cui peculiarità è quella di avere un unico suono: â”, il cui risultato è una specie di variazioni da soprano storpiate all’inverosimile.

E non posso citare tutto quello che vorrei, altrimenti dovrei riportare tutto il libro. Segnalo però qualche episodio di una comicità travolgente, in cui è impossibile non farsi sfuggire un risolino. Nel capitoletto intitolato Il giorno M il barone cerca di spiegare come nella storia un giorno non è esistito (“«deve sapere che non c’è stato alcun 23 marzo 1928». «Come, prego?» «Glielo racconterei, però ho paura di esser preso per matto.» «Ma si figuri.» (Una formalità oratoria del tutto inutile, che aveva un valore puramente rituale, vista la quantità di stravaganze ch’era solito raccontarmi)”.

E divertentissimo è il racconto dell’avo del barone, il quale, mosso da chissà che passione decide di diventare anarchico. Attanagliato da rimorsi di coscienza, per i suoi nuovi amici e per la causa decide di impoverirsi, sperperando tutto. Ma, come nel caso del fortunato Kurt O’Reilly (F. Bacà, Benevolenza coscmica), l’effetto è il contrario: si arricchisce sempre più, arrivando a ottenere un patrimonio inestimabile.

Si imbroglia – per tornare al barone – in teorie talmente astruse che le risposte più scontate lo sgomentano. In lui il mondo è capovolto: non è la figlia in viaggio a scrivere le cartoline; è lui da casa che le spedisce puntualmente a ogni stazione. E nemmeno a dirlo, stravolte sono anche queste: “Sono andato dal dottore perché mi sentivo troppo in forma. Ma fortunatamente non mi ha trovato in buono stato, e mi ha prescritto dei rinvigorenti. Uscito dallo studio ho avvertito una fitta al ventre e crampi sparsi; tutto rientrato nella norma, insomma”.

E questa mordacità non la perderà nemmeno dopo la morte. A seguito del suo funerale, per giorni e giorni, una serie di telegrammi giungono alla baronessa, con la grafia precisa e l’indirizzo dei luoghi di sepoltura dei mittenti famosi che imitava. Tutti, si capisce, di suo pugno. Ma come detto, “il barone non scherzava con gli scherzi”.

Vivere con umore.

In questo racconto la quotidianità diventa straordinaria, l’atmosfera è sempre distesa, e ciò favorisce una lettura piacevole, molto piacevole perché tutto è felice. All’insegna della bislacca vita e delle bizzarre manie del barone (che va da sé: niente di volgare, estremo, becero) si può trarne una lezione: vivere con umore, per vivere meglio. Ho accennato a tanti episodi, colpi di scena, storielle, ma non temo l’invettiva per spoiler; è un libro che si legge e rilegge senza che la sorpresa – e la risata – vengano meno. Questa, signore e signori, è letteratura.

E adesso fateci un film. Regia? Wes Anderson, ovvio.

Damiano Perini

Wes Anderson

IMPARARE A VEDERE CON GLI OCCHI DI UN BAMBINO (AUTISTICO). Spunti da “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (Einaudi, 2003) è ormai comunemente riconosciuto come un classico contemporaneo. E a ragione, per molti motivi. Innanzitutto è un libro divertente, dalla trama coinvolgente e non troppo articolata; è ricco di dettagli che arricchiscono l’apparato narrativo senza appesantirlo, anzi.

Il genio di Haddon sta tutto nel trasferire in un registro linguistico leggero e veloce, dotato di una sprezzatura terribilmente invidiabile i pensieri di un bambino. È lo stesso procedimento che artisti come Mirò, Klee, Dubuffet o Basquiat adottano in pittura: l’artista ritorna fanciullo, ma conserva le capacità e l’esperienza acquisita in tutta una vita. Senza accorgercene viviamo accanto a lui, anzi con lui le stesse vicende. Del resto l’autore lo dichiara proprio con la voce del protagonista, Christopher, il bimbo che soffre della sindrome di Asperger (una forma di autismo, che è una condizione e non una malattia), l’insofferenza  per il “linguaggio antiquato, difficile da capire” (p. 86).

È un racconto scritto bene, dunque; ma non solo. Questo libro è una storia commovente e realistica, un inno alla speranza e alla gioia di vivere, e soprattutto un affascinante e immediato saggio informativo sull’autismo, tante sono le nozioni che con scioltezza mette in campo. Analisi lucide vissute in prima persona che rendono il caso tangibilissimo, che ci fa apprendere questa condizione in modo istintivo, immediato, diretto. Da Lo strano caso si scopre che le persone affette da questa condizioni, generalmente hanno una tendenza alla semplificazione e alla schematizzazione, sono osservatori formidabili, sono ultrasensibili (troppe informazioni allo stesso tempo li mandando in tilt per sovraeccitazione), devono avere un ordine rigido e preciso, un programma ben definito.

E ancora, ragionano per immagini (“Vedo spesso quello che qualcuno mi sta dicendo come se venisse stampato sullo schermo di un computer”), sono selettivi, mangiano solo se nel piatto i diversi cibi non vengono a contatto tra loro (guai se i broccoli toccano il prosciutto!), la loro mente “funziona come la pellicola di un film […]. Quando mi si chiede di ricordare qualcosa io non faccio altro che premere il tasto Riavvolgere […]”, e quindi dotati di una memoria di ferro; sono insofferenti ai posti nuovi e alle persone sconosciute (“Quando mi trovo in un posto nuovo, poiché noto ogni cosa, è come quando un computer sta elaborando troppi dati contemporaneamente e il processore si blocca”), si impanicano per l’ignoto e l’indefinito, temono lo smarrirsi nello spazio e nel tempo (“mi piacciono gli orari perché mi piace sapere quando sta per accadere una determinata cosa”, “tutte le mattine dovevo obbligare mio padre e mia madre a dirmi esattamente cosa avremmo fatto quel giorno per farmi stare meglio”).

Dei tanti e interessanti spunti di questo trattatello – possiamo chiamarlo anche così – quelli che più mi colpiscono riguardano la sfera del vedere, nella sua più bella, profonda, e lirica e baudelariana accezione. Sono i seguenti, che mi limito a citare.

“[…] Aggiunsi che quelli che lavorano in ufficio si sentono felici se splende il sole quando escono la mattina, oppure tristi se piove, ma che il tempo atmosferico, visto che stanno chiusi in un ufficio tutto il giorno, non dovrebbe aver niente a che vedere con il fatto che quella sia una bella o una brutta giornata” (p. 33).

“[…] Gli risposi che non pensavo di essere intelligente: guardavo le cose per quello che erano, e questo non voleva dire essere intelligenti. Significava semplicemente essere dei buoni osservatori” (p. 34).

“La maggior parte delle persone però è pigra. Non vedono tutto ciò che li circonda. Fanno ciò che si definisce comunemente guardare di sfuggita che è l’equivalente dell’andare a sbattere contro qualcosa e tirare dritto senza farci troppo caso” (p. 162).

Il “cattivo vetraio” nell’omonimo poemetto di Baudelaire (Lo spleen di Parigi) appare solo alla fine. Scrive il poeta: “esaminai curiosamente tutti i suoi vetri, e gli dissi: – Come? non ha vetri colorati? Vetri rosa, rossi, blu, vetri magici, vetri di paradiso? Come è impudente! Osa passeggiare nel quartiere dei poveri, e non ha neanche i vetri che facciano vedere la vita in bello!”.

E se fossero questi i vetri, ossia gli occhi di un bimbo autistico quelli con cui vedere alla vita tanto ambiti? Nell’attesa di una (impossibile) risposta, meditare. E imparare.

Luciano Cardo

SE TROPPA FORTUNA FA IMPAZZIRE. Su “Benevolenza cosmica” di Fabio Bacà

Eh sì: l’ho letto tutto d’un fiato Benevolenza cosmica, il romanzo d’esordio di Fabio Bacà (Adelphi, 2019, pp. 225). Ne avevo sentito parlare bene di questo scrittore marchigiano, classe 1972; tant’è che, in una libreria di una ordinaria domenica invernale mi lasciai attrarre da Nova, suo ultimo romanzo. Ma la curiosità non era pari alla stizza che mi sarebbe venuta, quasi sicuramente, leggendo quell’autore senza conoscerne l’esordio: Abbandonai Nova, e presi dallo scaffale il libro dalla copertina giallissima (Benevolenza cosmica, per l’appunto).

Non so se la copertina gialla, gialla come il volume preziosamente rilegato di un qualche scritto di Huysmans, inviato da Lord Henry a Dorian Gray, e così minuziosamente descritto da Oscar Wild, sia una coincidenza. Sta di fatto che il romanzo è scritto con una prosa maestosa e magistrale; veloce eppure puntigliosa, ricercata ma immediata. Che padronanza del linguaggio! Come spiegare? A scambi di battute secche di un dialogo si alternano periodi apparentemente infiniti, lunghissimi della narrazione (spesso un soliloquio), ricchi di un vocabolario forbito e puntuale, di un linguaggio alto: ma il piacere di leggerli questi periodi, questa sintassi fluttuante, armonica, calibrata, il godersi frase per frase, parola per parola… è un piacere sì, e di quelli lucidamente carnali.

Ma non è tanto la sintassi che mi ha rapito per un giorno intero, e legato al libro di Bacà, piuttosto la sua trama, una storia articolata (o disarticolata?) tra l’assurdo e il grottesco. Una storia genialmente concepita, dai personaggi così vari, buffi (nonostante quell’alone di gravità in cui l’autore li inserisce) e limpidamente caratterizzati, dagli intrecci così divertenti e impensabili; e poi colpi di scena uno dietro l’altro, battute di spirito, senza che manchi una parte macabra, oscura. È un umorismo, quello di Bacà, che mi ricorda Alan Bennett, o meglio ancora Mordecai Richler della Versione di Barney, oppure i fratelli Coen del Grande Lebowsky, con un pizzico di ansia da descrizione del Palomar di Calvino (si veda a esempio pag. 44).

La vicenda si riduce a qualche mese. Kurt O’Reilly appartiene all’alta società, vive a Londra, ha una bella posizione in una società di statistiche (“manipolare la realtà nel tentativo di ridurla a dati misurabili”), posizione guadagnata grazie al suo intuito e alla sua intelligenza, una facoltosa quanto bizzarra moglie scrittrice, ha una Porsche Cayenne, beve whisky invecchiati e rarissimi. Ha una vita frenetica è vero, ma piuttosto agiata; a Kurt le cose vanno bene. Certo, fino a quella sera, quella scintillante sera (che sarà chiara solo nel finale), in cui uno strano evento cosmico divino astrale gli stravolge la vita. Ma non in peggio: in meglio. Da lì in poi non c’è giornata in cui le cose non gli vadano per il meglio: rimborsi senza senso da parte dell’Agenzia delle Entrate, donne che ammiccano ovunque, taxisti che ogni volta hanno una ricorrenza per fargli lo sconto, guadagni spropositati in borsa, morti scampate per un pelo.

È l’affannarsi di Kurt, la sua Odissea per la città di Londra alla ricerca di una risposta impossibile. Sono quindi le avventure di un apparente paranoico quelle che viviamo, quelle di un sedicente pazzo, un fissato cronico, di un tizio che ha tutte le sembianze di un anti-eroe, di un inetto (“Decisi di dare un senso alla mia giornata lavorativa”, “non ho mai lavorato così poco e male come in questi ultimi mesi”) che in quel tripudio di benefici sogna invece catastrofi, disastri. Esasperato dalla fortuna, sogna la normalità. “Io sono vittima di una pazzesca congiura interplanetaria per eliminare ogni seccatura dalla mia vita e sostituirla con favoritismi spudorati”, ammetterà disperato Kurt. È vittima di una cospirazione, ma una cospirazione al contrario, che gliele fa andare tutte bene, troppo bene.

Kurt è irrequieto, deve trovare la soluzione al suo ‘problema’ a tutti i costi. Ci andranno di mezzo personaggi tra i più disparati: un amico tatuatore e una pornostar, un diplomatico, un delinquente, un mormone squilibrato, un nerd aggiusta-telefoni, dottori surreali e bislacchi, maghi e indovini, fanatici, poliziotti. E una bimba, una piccolissima bimba neonata. Ma sarà proprio grazie a questa che Kurt O’Reilly riuscirà a ritrovare, finalmente, la normalità. Forse.

Luciano Cardo

TUTTO IL SANGUE CHE SGORGA DALL’ULTIMO LIBRO DI CALASSO. Breve commento a “Sotto gli occhi dell’Agnello” e paragone con il “Grünewald” di Huysmans

L’ultimo scritto di Roberto Calasso, postumo e appena uscito, Sotto gli occhi dell’Agnello (Adelphi, 2022), è una tempesta di fulmini lanciati a ciel sereno, saette dirompenti in un’atmosfera apparentemente soffusa e quieta, e proprio per questo sconcertante. L’inquietante ora appena prossima alla Rivelazione pare sia arrivata, e sospesa in attesa di farsi luce vivida. Il libro di Calasso è un insieme di apoftegmi che vanno dalla lunghezza di qualche riga a non più di metà pagina, e sono lame affilatissime, spesso criptiche e dai rimandi lontanissimi, e remoti; sentenze oracolari riprese dai Vangeli; frasi lapidarie e secche come colpi d’ascia disseminate qua e là, una dietro l’altra.

Fratelli Van Eyck, Polittico di Gand, 1432, part.

Il tema è uno: l’Agnus Dei, l’Agnello di Dio (e nella controparte quindi Giovanni Battista), l’agnello che si è sacrificato per i peccati del mondo terreno, per la salvezza celeste. O meglio, oserei dire, che il tema è più specifico, non tanto l’Agnello: ma il sangue che da esso sgorga, o addirittura scorre come una sorgente limpida e cristallina e continua. Quale arma trafigge l’agnello? Si chiede l’autore. Il pretesto è l’agnello enigmatico del polittico di Gand, di Jan Van Eyck (1432). Quel sangue, quella ferita, quello sguardo indifferente dell’animale sacrificale (“trionfante e ucciso”) sono così fuori dalla realtà che nascondo qualcosa – qualche rimando, visione, estasi, a noi ignote.

Fratelli Van Eyck, Polittico di Gand, 1432.

Un’ecfrasi, una disamina acuta: “L’Agnello non ha soltanto una ferita circolare, ma un’altra, vicina, da cui il sangue si riversa nella coppa. Molte gocce schizzano dalla coppa. Alcune scivolano sul ventre dell’Agnello e ricadono in una piccola pozza sul panno bianco”. Sangue che schizza, e su superficie bianchissima, candida, pura, ineffabile. E poi ancora il sangue “sgorga” (p. 29), “continua a sgorgare e schizzare il sangue” (p. 33), “l’Agnello di Dio continuava a sanguinare” (p. 50), e ancora “continuava a sgorgare sangue in una coppa, da cui schizzavano gocce” (p. 51).

L’episodio apocalittico dell’Agnello era stato per secoli solo letto, “nessuno aveva osato raffiguralo”, scrive Calasso, “era come fosse legato nel testo”. Poi arrivò Van Eyck e realizzò un’opera sconvolgente: “apparve qualcosa di abbagliante, unico”.

L’iconografia della pala di Gand del pittore fiammingo non era mai stata presa in considerazione così intensamente nemmeno dallo studioso di arte fiamminga più acuto e zelante, ossia Friedländer. Roberto Calasso, ne parla in qualche modo, cioè il suo, e dunque non parlandone o parlandone per rimando. I significati spesso sono sfuggenti, dotti, ermetici; insomma, calassiani. Il modo di affrontare il rapporto testo/immagine però mi ha fatto pensare a un altro piccolo capolavoro dell’iconologia e iconografia cristiana: il Grünewald di J. K. Huysmans.

Un libricino intenso e concentrato che avevo letto nell’edizione Abscondita (a cura di Roberto Rossi Testa); un libro doloroso quanto bello, piacevole quanto toccante, stridente, acuto. Del resto Huysmans è un mago della prosa artistica, e inoltre gode di una spiccata sensibilità estetica. È un testo infatti che si caratterizza per essere un insieme armonioso di ecfrasi lunghissime, invettive e paragoni inter-artistici e religiosi. Il pretesto qua è la Crocifissione all’interno del dittico di Tauberbischofsheim (1523-1525) di Mathis Grünewald, pittore tedesco tra Quinto e Sesto secolo, secondo Huysmans “un pittore locale, un artista di campanile che lavorò solo per i borghi e i monasteri dei suoi dintorni”.

Nei due libri si respira lo stesso estenuante stress per la ricerca di una verità teologica attorno a un’iconografia unica, difficilissima, mai vista prima. Un’indagine sofisticata, croce e delizia per i due eruditi. Nessuna risposta definitiva; almeno, apparentemente. Solo angustie intellettuali. E ancora, nel mentre, “continua a sgorgare sangue” (p. 60).

Damiano Perini

TEODORO LO STUDITA HA DIFESO (TRIONFANDO) L’IMMAGINE SACRA. Vittorio Sgarbi oggi, con la stessa forza, sta combattendo per non rendere vana la sua impresa

Può essere considerato Vittorio Sgarbi il nuovo Teodoro Studita? Appena letto il primo incipit di Contro gli avversari delle icone (Jaca Book, 2022) sono trasalito: quale potenza!, ma sto leggendo un santo, mi sono chiesto, oppure un imperituro e impetuoso e infaticabile politico che è anche storico d’arte e legato (perché lì è la sua origine) alla cultura cristiana?

In effetti, Teodoro lo Studita è stata una delle menti più sofisticate di quei territori bizantinissimi attorno a Costantinopoli tra l’VIII e il IX  secolo. Nasce nel 759, da famiglia nobile e di un certo rilievo culturale, il cui padre occupava il ruolo di amministratore del fisco imperiale. Un po’ come Aby Warburg rifiuta la carriera del padre, elargendo la propria vita a ciò che più sentiva: l’immagine, e a soli 22 anni, per vocazione, sceglie la via monastica: Teodoro è  accolto così nel monastero di Saccudion in Bitinia. Fu vittima tuttavia, per tutto l’arco della sua vita di diverse disavventure, o meglio, persecuzioni; ma Teodoro non perse mai la forza. Non appena Leone V Armeno ricomincia la disputa (accanita) sull’iconoclastia, Teodoro Studita assume il comando della resistenza iconofila. Seguono però repressioni su chi sosteneva quest’ultima; al Santo Teodoro, inoltre, prigionia e esilio. Viene riconvocato a Costantinopoli nel 820 alla morte di Leone V, ma pochi anni più tardi si ritira nell’arcipelago dei Principi, a Prinkipo, dove muore nel 826. Gli scritti di Teodoro variano dalle polemiche (accesissime), alle opere ascetiche, alle epistole, e addirittura alle composizioni poetiche.

Le argomentazioni di Contro gli avversari delle icone (a cura di Antonio Calisi, a cui dobbiamo anche la prima traduzione italiana) sono una pugnalata eruditissima che affonda completamente l’eresia iconoclastica. È grazie soprattutto a Teodoro lo Studita, venerato non a caso come santo nella Chiesa cristiana, la legittimazione delle immagini sacre in oriente; dopo più di un secolo di battaglie dialettiche, scomuniche, persecuzioni, incomprensioni (ufficialmente a seguito del Concilio di Nicea II, nel 787, grazie alle tesi di Giovanni Damasceno).

Teodoro non ha paura di mostrare le sue opinioni; anzi, le grida con tutta l’energia che possiede, in modo puntuale, preciso, documentato, erudito. E convincendo; o meglio, trionfando. “Tempo è di parlare e non di tacere, per chi può farlo in qualsiasi modo, poiché sorge un’eresia che abbaia contro la verità e pone turbamento nelle anime deboli con un vano vociare”, esordisce il santo tuonando, citando l’Ecclesiaste (3,7); è tempo che chi sa e chi ha gli strumenti per comunicare lo faccia, lo faccia in fretta e con veemenza: sta richiamando a sé le forza, chiaro.

Da qui seguono tre confutazioni, le prime due sotto forma di dialogo con (contro) un eretico iconoclasta, mentre l’ultima in forma di sillogismi. Nelle prima confutazione preme segnalare e spiegare la differenza tra icone e idoli. “E (cosa hanno in comune) le sacre immagini e gli idoli dei demoni?” chiede l’Ortodosso all’Eretico; e via di spiegazioni: lineari, scandite e dirompenti. E Teodoro non è certo avido di bonarietà (buonismo, diremmo oggi); quando può lo punzecchia (l’eretico infatti “vaneggia in eccesso”, ci riferisce), e temporeggia prima di affondarlo completamente: “Sembra che non riusciate ad evitare di ripetervi come un uomo cieco che va in cerchio, mentre continuate malignamente a spostarvi da un discorso ad un altro”.

A tratti è un testo ricolmo di bizantinismi, libidine pura per gli Azzeccagarbugli. E pare proprio che a Teodoro piaccia in maniera appassionata confutare l’avversario, da tanto ardore che ci mette. E cita spesso pure i Padri della Chiesa, come Atanasio, Cirillo, ma soprattutto Basilio: “l’onore tributato all’immagine passa al prototipo”. La tesi della seconda confutazione infatti è atta a legittimare la venerazione della copia (raffigurazione) dell’immagine (raffigurato). Chiede l’Eretico: “dov’è scritto nel Nuovo o Vecchio Testamento che dobbiamo venerare l’immagine?”, al che l’Ortodosso risponde: “Dovunque sia scritto che dobbiamo venerare il prototipo dell’immagine”. L’immagine di Cristo, in altre parole, è l’essenza di Cristo stesso; e in quanto tale passibile di adorazione.

Teodoro accompagna, per così dire, tramite questo botta-risposta, l’Eretico portandolo piano piano e con astuzia al torto. E noi assistiamo a questa disfatta, ci convinciamo di una verità unica, e godiamo pure. È una mazzata dietro l’altra per l’Eretico: “se tu avessi dato retta a questi padri [Basilio, etc.]”, assurge l’Ortodosso, “avresti potuto capire che quando Cristo è adorato, è pure venerata la Sua immagine, perché essa è in Cristo”. Ossia, gli sta dicendo che è pure ignorante; una capra, direbbe qualcuno.

***

L’iconoclastia, sia storica che religiosa, ai giorni nostri si chiama cancel culture. E che, come ben spiega Marcello Veneziani nel suo illuminante libro (La Cappa, Marsilio, 2022), non è da intendersi come “cultura della cancellazione” come da traduzione, bensì proprio come “cancellazione della cultura”. Ma di questo ne parla già lui e meglio di tutti (in particolare rinvio alle pp. 67-82) nel suo saggio. (E non menziono le tristi cronache di Giulio Meotti sul Foglio).

Tra i pochissimi che hanno il coraggio di parlare, anzi gridare, come intendeva Teodoro sia perché hanno la conoscenza che gli strumenti per farlo, c’è Vittorio Sgarbi. Di iconoclastie contemporanea e antireligiose in particolare ne ha scritto lungamente in un suo recente libro, scritto con Giulio Giorello (Il bene e il male. Dio, Arte, Scienza, La nave di Teseo, 2020). Sgarbi è dichiaratamente ateo, ma allo stesso tempo ammette di essere culturalmente cristiano, perché questa è la nostra storia. Da duemila anni. Pretende, a esempio, il crocifisso nei luoghi pubblici, simbolo di pace (Gesù infatti ha voluto la pace: chi non vuole il crocifisso vuole la guerra, favoreggia per l’odio). Nel capitolo iniziale, il cui titolo è già esplicito (“L’arte è la prova dell’esistenza di Dio”), scrive:

“Cristo è stato un uomo, un grande uomo. Io non toglierei mai da qualunque luogo il ritratto di Giambattista Vico, di Galileo; e considero Gesù Cristo grande come il più grande filosofo. Quindi sta lì, in croce. Un posto un po’ scomodo. Perché mai dovrei toglierlo? In nome di che cosa? Di quale tolleranza, se un’altra religione che non crede in lui come Dio ritiene di non poter credere in lui nemmeno come uomo?”

E ancora:

“La chiesa non la vedo, ma vedo le chiese, i monumenti, e ringrazio il Dio cristiano per aver espresso tanta bellezza, bellezza del pensiero. Quale altra religione ha fatto tanto? Dov’è il Bach dell’islam? Dov’è il Giotto dell’islam? Io sono felice di essere cristiano.”

Sgarbi scrive talvolta tuonante, a volte edulcorato, a volte tecnico, a volte poetico; ma sempre bene, chiaro, capibile. Per la sua conoscenza storico-artistica (e critica) ha scritto per FMR, ha curato migliaia e migliaia di cataloghi, centinaia di artisti, conosce bene il massimo artista trentino Franco Chiarani, ha scritto saggi più accademici e altri più divulgativi; ha scritto del Romanino di Pisogne e di Beniamino Simoni, in particolare sulle Capèle di Cerveno (bellissimo libro: L’Italia delle meraviglie, Bompiani, p. 31). Sgarbi è stato l’unico che mi abbia fatto capire Carpaccio (la prosa di Longhi è meravigliosa, ma proprio per questo dopo tre parole finisco con l’adagiarmi sulla superficie melodica, lasciandomi cullare dalla prosa, dal suono di nomi e aggettivi intarsiati con leziosità e maestria – e inevitabilmente finisco per non capirci un cazzo).

E in quanto a veemenza non è da meno di Teodoro. Ha sbiadito molti avversari in conferenze, come Bonami o Abo; e ha scritto incipit come questi: “Se voleste cercare una Venezia salva dai turisti, impervia al loro provocare danni non tanto fisici quanto psicologici, etc.” (Piene di grazie, Bombiani, p. 27). E potrei continuare a lungo.

Scrive Teodoro: “Il Signore darà la parola agli evangelizzatori con grande forza”. Speriamo (preghiamo) si facciano avanti numerosi; e sia grande la resistenza iconofila, come lo è stata dodici secoli fa.

Luciano Cardo

DELL’IMPOSSIBILITÀ DI ORDINARE UNA BIBLIOTECA. E di altre nozioni dal pianeta Calasso

Devo ringraziare ancora una volta Roberto Calasso, perché dopo la lettura di Come ordinare una biblioteca (Adelphi, 2020) ho capito di essere un bibliomane nella norma. Certo non possiedo lo stesso numero di libri, e men che meno così preziosi. Ma indipendentemente da numero e qualità la verità – legge assoluta –  rimane la medesima: non esiste una regola per ordinare una biblioteca. Ci si può avvicinare caso mai con la cosiddetta “regola del buon vicino” che, come spiega Calasso, è stata “formulata e applicata da Aby Warburg”, secondo la quale “nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile” di quello che si cercava (p. 12).

Questo per un motivo specifico, intrinseco alla biblioteca in senso assoluto. L’ordinamento di questa, infatti, dice più avanti Calasso, “non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento” (p. 59). Proprio così sta scritto: organismo; un essere vivente, capace di interagire con il mondo esterno. Ne deriva che questo organismo è formato tante piccole cellule che lo formano, i libri, dalla “presenza incombente”; il libro: elemento immortale che, “come il cucchiaio, appartiene a quegli oggetti che vengono inventati una volta per tutte […]. Passibili di innumerevoli variazioni, ma all’interno di un solo gesto”, ossia leggere un testo tenendolo fra le mani, accarezzandolo, sfogliandolo languidamente, o nervosamente.

È una lettura piacevolissima quella di Come ordinare una biblioteca; è la raccolta di quattro scritti pubblicati a distanza anche di parecchio tempo tra loro, in cui l’erudizione si mescola a un piacere libidinoso per le personalità alto-culturali del passato, a una prosa sciolta e disinteressata, a una ricerca delle fonti minuziosa; il tutto miscelato alle memorie dell’autore, culturalmente sapidissime e intriganti (chi riuscirebbe mai a costruire un racconto tanto documentato e insieme tanto vivido attorno a delle riviste di inizio Novecento?).

Mi sento libero inoltre da quel peso irrefrenabile e indescrivibile (che il bibliomane ben conosce) di possedere libri che mi osservano dal dorso, in stato di perenne attesa a mo’ di Deserto dei tartari, come a chiedermi: “quando mi leggerai?”.  Il grande erudito mi rassicura perché “essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, o di dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro” (p. 31). Comprare un libro, in altre parole, solamente per il suo uso “ipotetico”. Del resto, è proprio il caso di dirlo: habent sua fata libelli.

Naturalmente, come in ogni libro di Calasso gli aneddoti sono svariati, e coltissimi. Ho scoperto curiosità interessanti, e tra quelli che mi sento di segnalare, uno merita più di altri. Si parla dell’impossibilità di accorpare le biblioteche (p. 58); della prima recensione della storia (p. 107: no, non vi dico qual è); dell’importanza del catalogo bibliografico (p. 30); delle chiose a margine (“non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza”, p. 38); dello scrivere a matita sui libri (p. 41); delle prime edizioni (p. 26). Ma come dicevo, quella che mi ha colpito più di tutte le informazioni lette è una sola, orgogliosamente italiana: “nell’Europa della prima metà del Seicento c’erano solo tre biblioteche aperte al pubblico: l’Ambrosiana di Milano (dal 1608), la Bodleian a Oxford (dal 1612) e la Angelica a Roma (dal 1620)”. Le biblioteche le abbiam sempre avute quindi; ma i lettori?

D.P.

DIVERSI È BELLO, DIVERSI È MEGLIO. Un albo per l’infanzia di Irene Guglielmi elogia le differenze. Contro l’appiattimento e l’omologazione

È da tempo che ho una bizzarra convinzione: il linguaggio utilizzato dai silent book, e in genere dagli albi per l’infanzia, è il più efficace di tutte le espressioni comunemente usate per la comunicazione. In primo luogo arriva a tutte le età, e con la stessa intensità; secondo, non ha bisogno di parole se non minime, e questo lo rende di veicolo dotato di grande immediatezza e semplicità. Terzo: è un linguaggio bello, bellissimo, anzi meraviglioso. L’arte del segno, dello schizzo, del colore, dell’evocativo, del non-detto, del rimando, dell’allusione, s’incontrano in una armonia sintetizzata dall’illustrazione; che pure racconta e narra, e senza nulla dire, dice tutto. Non esaurendosi mai.

Così mi capita di prendere in mano il silent book di Irene Guglielmi, Io sono Blu (Carthusia, 2022), sfogliarlo più e più volte, più e più momenti della giornata, in più giorni. E ogni volta è come se fosse la prima. In base al momento scopro nuovi dettagli, immagino nuovi sentimenti, rinvio a diversi episodi della mia vita; insomma, mi immedesimo un po’ nel protagonista, un po’ analizzo le illustrazioni, un po’ vago in quel mondo leggero e indefinito immaginato e realizzato da Guglielmi. E mi rallegro: in fondo è lo stesso per i bambini.

Io sono Blu narra la storia, che si sviluppa in 15 tavole a piena pagina (di cui l’ultima affissa in terza di copertina), di una piccola ape diversa dalle altre: non gialla, bensì, appunto blu. La si nota da subito girando la primissima pagina, in mezzo a una nube gialla che si staglia su un cielo (è cielo?) bianchissimo, remoto, onirico, e sopra delle margherite afflosciate. Lo si nota questo puntino blu, timoroso, e come allontanato dalle altre api dello sciame. Ci si domanda il perché; e nella tavola successiva si ha la conferma di ciò che prima era intuizione: l’apetta blu è derisa e o malvista dalle sue compagne. C’è chi è perplesso, chi sbalordito, chi spaventato, chi schifato, chi impaurito, chi arrabbiato, chi disgustato… insomma un florilegio di espressioni tutt’altro che amichevoli.

Blu, intesa la sua natura, per così dire, diversa, farà di tutto per essere uguale, alle altre api. Si farà costruire addirittura un abito giallo che, una volta indossato, la farà apparire come le altre sue compagne. Uno stratagemma assurdo che dura poco, fin tanto cioè che il vestitino non si sarà usurato, e quindi inutile a nascondere la sua vera natura.

Depressa, scoraggiata e avvilita, Blu si mette a volare per i campi. E ecco, di colpo, la sorpresa: un numero indefinito di altri insetti dalle forme e dai colori diversissimi tra loro è in fila a attendere qualcosa, un qualcosa di cui Blu non sa, ma quella diversità tra esseri simili è come se la attraesse, è come se la facesse sentire parte integrante, è come se la rassicurasse. E basta scoprire la pagina successiva per vedere Blu  felice, in un luogo che forse aveva sperato, desiderato sin dal momento in cui si era messa in fila, un giardino incantato e ridente in cui regna la diversità – che è ora rappresentata come spensieratezza, gioco, colori, vivacità, serenità, sorrisi.

Della cupezza, sterilità e freddezza delle pagine precedenti poco è rimasto, se non un dettaglio, sapientemente inserito dall’illustratrice: un’ape gialla, piccolissima, come una reminiscenza lontana, che guarda Blu da lontano con un’aria di malcelata sorpresa. Blu, al contrario, guarda noi lettori con un sorriso implacabile, vittorioso: contro l’appiattimento e l’omologazione.

Damiano Perini

ETERNO BAUDELAIRE. Leggo Calasso e non ho più dubbi sull’immortalità del pensiero critico del grande dandy

Di Baudelaire sapevo poche, meravigliose e fulminati cose. Innanzitutto il grande dandy parigino è, soprattutto – sopra-t-u-t-t-o –  il padre dei critici moderni, il precursore della critica contemporanea, antiromantica e soggettiva, e appassionata. Lo sapevo perché ho letto lungamente i suoi Salon, perché ho letto con penetrazione il saggio su Costantin Guys (il saggio fondamentale, la Bibbia della critica d’arte contemporanea), e assimilato concetti di tal genere:  “perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti” (Salon 1846).

Ma il libricino postumo di Roberto Calsasso Ciò che si trova solo in Baudelaire, appena uscita da Adelphi, che fa da supporto, più segalino e tagliente, a La folie Baudelaire di qualche anno fa (ben più massiccio e profuso di nozioni), è illuminante. Per il motivo che dirò.

Sapevo, a esempio, che in Delacroix cercava quella “sovranatura” in grado di staccare dalla pittura di secoli prima, in particolare romantica (p. 19); intuivo, ma senza dubbi, che “fu il solitario, impavido sostenitore del diritto irrinunciabile di contraddirsi” (p. 24). Leggendolo, questo visionario dagli gli incipit “folgoranti”, percepivo la sensazione di avere a che fare con un “insofferente di ogni sistematicità, poco incline al ragionamento prolungato consequenziale” (p. 28) – rispecchiandomi, per altro, totalmente; e quindi comprendendolo a fondo.

Baudelaire ritratto dal fotografo Nadar (Wikipedia)

Di Baudelaire, sapevo ancora, e anzi benissimo, che sempre al centro del suo interesse fu l’immagine. Un linguaggio visivo, un ragionamento per icone nitide, colorate, chiarissime; un metodo particolarissimo, il suo, di “trattare le immagini come se parlassero, come se i loro significati non fossero meno evidenti di quelli trasmessi dalle parole” (p. 32). Quello di Baudelaire è un vero e proprio “culto” delle immagini: in lui, scrive Calasso, “cade ogni divisione fra la poesia, la critica, la prosa”; per questo, sostiene sempre Calasso, “volle dedicare il suo saggio più importante e articolato non a un pittore, ma a un illustratore” (p. 34).

Sapevo altresì del poeta misterico cose molto più frivole, ma non meno importanti: con lui “la moda viene messa sullo stesso piano della religione arcaica”, e non per sminuire la religione, ma per innalzare la moda, fondamentale per arrivare alla “bellezza eterna” (p. 40); che la noia – fu uno splenetico incorreggibile – era suo grande amore (p. 42); che il rosa e il verde, meglio se accostati, erano i suoi colori prediletti (p. 118). Addirittura lo avvertivo, da cattolico, che pregasse pure lui in qualche misura, “molto spesso, e nelle sue forme più elementari” (p. 48).

Di Baudelaire, solo una cosa, la più importante, non mi era chiara: l’immortalità del suo pensiero.

Ecco perché è così attuale, penetrante sempre e comunque. Devo ringraziare la mente brillante, colta e raramente speculativa di Roberto Calasso se ora Baudelaire è per me un mistero meno misterioso. “Due secoli sono finiti senza riuscire a distanziarsi da Baudelaire. Forse nulla di essenziale si è aggiunto. O forse quel certo modo di giudicare, che si diparte dall’estetico e dai nervi e fa breccia fino a una metafisica clandestina, ha una resistenza al tempo simile a quella delle equazioni e dei teoremi.”

Eterno Baudelaire: sia eterna anche la critica!

DP

UN LIBRO DIVERTENTE PER TUTTE LE ETÀ. “IL TRATTAMENTO RIDARELLI” È UN CAPOLAVORO DI IRONIA, INVENZIONE E STILE

Il Trattamento Ridarelli di Roddy Doyle (Salani, Milano, 2001, pp. 112) è un libro avvincente e originalissimo, che seduce il lettore sia per la sua trama strampalata, sia per i toni umoristici con i quali la vicenda si svolge, capitolo dopo capitolo.

La storia ruota attorno al protagonista, il signor Mack, un impiegato di una fabbrica molto particolare: in questo edificio infatti si producono 365 tipi di biscotti, un tipo diverso per ogni giorno dell’anno; il compito del signor Mack è quello di assaggiarli per verificarne la qualità.  Il suo giorno di lavoro preferito è quando deve assaggiare i biscotti con la marmellata di fichi (“intelligenti e bravi” a sua detta perché non hanno bisogno del cioccolato per essere buoni), mentre quello più brutto è quando deve provare i Cracker, secondo lui noiosi e monotoni.

Il signor Mack (Brian Ajhar)
Il signor Mack (Brian Ajhar)

Proprio in una giornata di quelle, i suoi due figli Jimmy e Robbie rompono, per la settima volta in sette giorni, la finestra della cucina. Il sig. Mack, già spossato e innervosito da tutti i Cracker mangiati, a questo incidente si inalbera del tutto, e caccia i due bambini in camera da letto.

Lo spiacevole evento, però, non passa inosservato: delle creature in grado di mimetizzarsi molto bene sono nascoste all’interno della casa e osservano come i due bimbi vengono trattati dal padre. Queste strane creature sono chiamate Ridarelli, esseri non definiti, sconosciuti e misteriosi, si dice piccoli e pelosi, anche se in pochissimi sono stati in grado di vederli. Esistono da sempre, e il loro compito è quello di assicurarsi che gli adulti trattino bene i bambini.

Al contrario, se queste piccole creature scoprono che i bimbi sono stati vittima di punizioni ingiuste da parte genitori, maestri, dottori o bottegai, scatta immediatamente per questi il cosiddetto Trattamento Ridarelli, un metodo temibile quanto terrificante: far calpestare all’adulto una grande, enorme e grossissima cacca di cane.

Il cane Rover (Brian Ajhar)
Il cane Rover (Brian Ajhar)

Il signor Mack, dopo aver spedito i bambini in camera da letto, è stato segnalato e deve essere punito per il Trattamento. Come se la caverà?

La vicenda, che si svolge in 36 bizzarrissimi capitoli e raggiunge il suo culmine in un malinteso, è ricca di colpi di scena, di soprese e non lascia scampo alla noia. Nemmeno nel finale, che si propone come una serie di morali come nelle fiabe.

Insomma, lo si poteva intuire dal titolo che la storia ideata dallo scrittore irlandese, classe 1958 e molto noto nell’ambiente della letteratura adolescenziale (di lui parla bene per esempio la scrittrice di Harry Potter, J. K. Rowling, che lo definisce “un genio assoluto!”) fosse una storia divertentissima. Il termine “Ridarelli”, infatti, deriva da “Gligger”, ossia “risatina” (dal verbo To Giggle, ridacchiare) del titolo originale inglese.

 

La copertina dell'edizione Salani
La copertina dell’edizione Salani

Il linguaggio dello scrittore è pulito, essenziale e scorrevole; grazie a un’alternanza marcata di immagini molto sgradite (la cacca, la punizione) e molto piacevoli (i biscotti, il perdono), Roddy Doyle ottiene come risultato una trama continuativa e vivace. Lo scrittore, inoltre, assumendo la parte di un narratore anonimo esterno, dialoga direttamente con il lettore; a lui si rivolge in modo confidenziale, creando complicità e gioco (che le illustrazioni graffianti di Brian Ajhar enfatizzano).

Il tocco di genialità dello scrittore è rappresentato dallo sfasamento di tempo creato per narrare le due vicende parallele, quella del signor Mack (accompagnato da un insolito gabbiano a cui non piace il pesce) e quella dei personaggi secondari, ossia i figli Jimmy e Robbie, la figlia Kayla, la moglie Billie Jean e il cane Rover. I Ridarelli fanno da collegamento tra le due vicende. Queste due pare che si svolgano in due universi diversi, tanta è la diversità di tempo e spazio: la storia del signor Mack avviene in pochi secondi e in pochi  metri; mentre quell’altra non si capisce se in settimane, mesi, anni… e per di più avviene attorno al mondo!

In conclusione, il libro di Roddy Doyle è un testo che mette allegria e, grazie alla genialità della vicenda  e alla singolare ironia dell’autore, diverte il lettore invogliandolo a leggere una pagina dopo l’altra.

Brucco Maissazio