IL RITRATTO: LA BELLEZZA, L’ETERNO. “La ragazza immortale” di Langone è un encomio alla ritrattistica. A olio, matita, pastello: purché fatto da ‘pittori con le mani’

Ho “conosciuto” – ma anzi dovrei togliere quelle virgolette, siccome basta leggerlo un autore per stabilirci un contatto immediato, reale, diretto (Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori) – , ho conosciuto, dicevo, Camillo Langone la mattina di un remotissimo 21 marzo dell’anno di Nostro Signore 2015. Allora ero uno studente fuori sede che aveva in mente appena due cose, le ragazze e fare festa, e spesso, molto spesso l’ordine era invertito, ma cominciavo già a approcciarmi a quel mondo reale e serio che poco a poco iniziava a risultarmi interessante. E lo facevo soprattutto tramite quotidiani, che ai tempi leggevo a iosa senza distinzione di partito, taglio, non me ne fregava nulla della linea editoriale, leggevo le firme, il pensiero di una persona con nome e cognome.

Su Il Foglio di quella mattina si poteva leggere un inquietantissimo pezzo firmato da Alessandro Giuli, era il giorno dell’equinozio di primavera, un eclissi solare era imminente, o forse c’era appena stata o non lo so, e la cultura dello scrivente gli permetteva di sciorinare alcuni tra i Prodigi appuntati dell’autore tardo antico Giulio Ossequiente. Al Sole di Mezzanotte corrispondevano cani che parlavano, fiotti di sangue che fuoriuscivano dal terreno, olmi abbattuti e drizzati da sé, pioggia di latte… Un articolo carico di presagi, presentimenti, chissà.

Ma l’articolo che mi aveva colpito stava poco più sotto, la rubrica titolava con una parola insolitissima ma che comprendevo bene e che mi parve bellissima, “Preghiera”. Si parlava del Fai, dato che l’apertura dei siti del Fondo Ambiente Italiano coincide con il fine settimana dell’inizio della primavera, e con una sintesi fulminante si poteva leggere che sì, benissimo il Fai che rispolvera beni in decadimento, ma resta “il problema principale della bellezza d’Italia che non è il restauro bensì il riuso”.  Le cappelle ducali avrebbero bisogno di duchi, le certose di certosini, e i castelli “che languono inerti da Avio ad Alcamo?”

Stavo leggendo queste parole e io mi trovavo appunto sul treno che da Verona, dove studiavo, e studiavo proprio quelle robe lì, porta a Trento. Andavo ‘in trasferta’ da amici, da città universitaria a città universitaria perché in ogni dove bisogna batter bandiera, non contava chi aveva bei voti ma chi reggeva più l’alcol, e noi eravamo fortissimi. Dal treno, nel mezzo della Vallagarina, il castello di Avio proprio non si può non vedere, ti appare davanti all’improvviso, e quelle parole mi fecero ragionare: vai a vedere che questo Langone c’ha ragione davvero.

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Da quel momento la Preghiera è diventa quotidiana, procedendo di pari passo, o quasi, con la mia formazione. Del resto è godimento assoluto e soddisfazione intellettuale per un edonista cattolico inconsapevole leggere un cattolico edonista consapevolissimo; e per di più uniti da interessi comuni: l’arte, la cucina, il vino, la spiritualità, le lettere. Certo non è ammirazione, io non ammiro più nessuno, al massimo prendo in considerazione opinioni e idee. E poi a me i vestiti di pelle non piacciono, le cinture borchiate mi fanno schifo, le camice blu a tinta unita spero che mai mi salti in mente di indossarle, non sono misantropo, bevo volentieri Pol Roger Jacques Selosse e Bruno Paillard, e pace se sono “addizionati” e  sanno “di funghi”; uso i treni per andare nelle grandi città perché i parcheggi e il traffico mi irritano, seguo il calcio e tifo Milan da quando ho 3 anni, e i fiocchetti e nastrini sulle ragazze mi fanno impazzire.

Però anch’io, come Langone, non sopporto i piatti quadrati o rettangolari, accendo solo candele di cera, presto attenzione al tipo di gruccia, vado matto per cotechini petti d’oca testine di vitello e lambruschi fortana e terrano, bevo vini ‘rosa’ e no ‘rosati’, Cataldi Madonna oppure Cantrina, bevo Alberto Paltrinieri e Camillo Donati, Walter Massa e Lino Maga, conosciuto, quest’ultimo, poco prima che lasciasse questo mondo; anche a me piacciono i cimiteri e ci vado spesso, commemoro i defunti, adoro le cerimonie liturgiche e le messe in latino (quelle a me più vicino, a San Zenone a Brescia), sono orgoglioso della caccia e dei cacciatori pur non avendo mai preso in mano un fucile, anch’io vorrei mangiare una murena, anche per me Vittorio Sgarbi è imprescindibile punto di riferimento, e mi piacciono gli Adelphi.

Poi del Langone opinionista, sempre sul pezzo della politica e dell’attualità, si potrebbe parlarne a lungo, non scrive solo di cose goderecce: con la sola prosa ci va giù di brutto contro gli “ismi” – islamismo, genderismo, ambientalismo, eccetera – ma questo è un blog di piaceri, e poi non ne ho voglia, e poi c’è di meglio di cui parlare. Lo scrittore, che dice di vivere a Parma ma che pare essere ubiquo in questa Italia varia variegata e avariata, scova la bellezza ovunque, dove pochi la vedono, apprezza le cose semplici, desuete e non considerate; allo stesso tempo denuncia a suo modo la bruttezza, la volgarità, l’esterofilia, il folclore da turisti lungo-lago (o lungo-mare).

Tutto questo lo so perché l’ho letto nella sua rubrica nel corso degli anni, e se qualcosa mi è restato non è perché mi sono ‘documentato’ come un liceale, no-no-no figuriamoci, occupo molto meglio il mio pochissimo tempo libero, ma ci sarà pure un motivo. Langone è pure l’uomo dei mille e taglienti motti; l’ultimo è una folgore, ricalcando il celebre concetto di Gautier (“L’arte per l’arte”) incide nero su bianco parole che suonano come un apoftegma lontano di un qualche profeta antico: Che il vino sia per il vino!, e c’ha ragione, perché abbinare per forza una cosa buonissima con del cibo? Perché poi non abbinarla a un libro?

Io di questi giochetti, di questi abbinamenti sinestetici ne avevo già fatti abbinando, a esempio, i racconti di E. A. Poe alla Tintura Stomatica della farmacia Foletto, un amaro che bevo solo io e pochi altri, essendo amaro vero, rabarbaro e genziana e mille altre cose amarissime. Però leggerlo quelle parole così lampanti eppure non scontate mi ha fatto perdere la testa. Ho aperto subito una bottiglia di Trebbiano Valentini 2018, vino mistico e estatico dalle infinite sfumature e richiami, e che del resto è inutile spiegare, e l’ho abbinato all’ultimo libro di Lina Bolzoni (Nel giardino dei libri, Mauvais Livres), grande studiosa che ho adorato ai tempi degli studi, non più veronesi, ma quelli belli, a Bologna. Un tripudio di cose, di tutto. E così l’arte della memoria si è mischiata deliziosamente all’arte di evocare memorie, vere o false che siano (questo lo sanno fare solo i vini fatti bene).

Beve bene e beve Valentini anche Langone (e sicuramente moltissimo più di me, dato che mi costano un rene), cura mostre, commissiona opera d’arte, promuove artisti, e insomma, vede anche bene, anzi benissimo Langone, perché di mostre di Marta Sesana ne ho visto anch’io, e mi è bastata una, e solo un’opera delle sue per far sì che questa pittrice brianzola mi sia ormai indimenticabile e riconoscibilissima in mezzo a millemila artisti. E poi Langone ha scritto libri, abbastanza e diversi, sempre con quella capacità di unire il cibo alla religione (“gastronomia devozionale”), il cibo all’arte, l’arte alla religione.

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Adesso però non voglio passare per adulatore, e se ho esagerato è per eccesso di zelo. Mi si capisca, la mia è una scelta abbastanza scolastica. Ma mi sembrava necessario apporre una piccola premessa, in quanto il primo romanzo di Camillo Langone appena uscito è, tra le tante cose, una summa dell’autore. In La ragazza immortale (La Nave di Teseo) c’è dentro tutto: idee, artisti, vini. E anche lo stile, perfetto nella sua sprezzatura e sintesi, e che mi fa così incazzare perché essere così sciolti e esatti a me proprio non riesce, è ciò che meglio riepiloga anni e anni di battute per quotidiani.

Il racconto, in sé, lo si può riassumere in poche parole. Un uomo adulto e una studentessa di poco più che vent’anni – Benedetta – si innamorano, o così sembra; lui, per immortalare la bellezza inevitabilmente fuggente della ragazza (“Non voglio che muoia”) decide di farla ritrarre dai migliori pittori italiani, rendendo eterno – perché ars longa, vita brevis –  il suo splendore di donna in fiore. In questo senso il libro si lega a Un amore di Buzzati e a La noia di Moravia, con un finale che ricorda Risata nel buio di Nabokov. E del resto a Nabokov l’autore regala un omaggio plateale; quando scrive “Lo degusto lentamente questo nome, me lo faccio girare in bocca come fosse un vino buono. Be-ne-det-ta”, è evidente il richiamo al celebrissimo incipit dello scrittore russo, “la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta”.

È un libro erotico, sì, quello di Camillo Langone. Erotismo, puro e languido. Con un tocco di lirismo. Ecco, il lirismo in Langone mancava, e in questo libro se ne ha in abbondanza (“Si sa che il bacio è più intimo della penetrazione”, “Anch’io. Stesa sul divano, nel letto, penso sempre che tu mi sia accanto”). L’amore che sorge nella coppia non penso sia falso, anzi è verissimo; a essere utopica è la ragazza. Troppe idee fuori dal tempo, dal suo tempo, fuori dalla sua generazione (pazienza se per l’autore la legge generazionale non esiste), che la giovane studentessa ha in comune con il suo amante. Non porta mai i pantaloni ma solo gonne! Mangia tutto, poi!

E gli studenti leggono Cioran? Sanno chi è Cioran? Ma soprattutto, leggono ancora libri che non siano funzionali all’esamino? Però è bello sognare, e l’autore lo sa, “amo il mistero e amo il sogno”. Benedetta è la ragazza perfetta, e nella sua perfezione sta il suo limite: una ragazza così non esiste se non in letteratura, e è per questo che è così bello leggere, vagare con la mente, immaginare che l’impossibile prima o poi accada.

I dialoghi tra i due sono rari, e questi sono la conseguenza e la conferma della capacità di sintesi dell’autore. Brevi battute, efficaci. Qua è là ricorrono “filippiche” dell’uomo adulto che si confida, un borghese arricchito e “atarassico”, che vive di piaceri , piaceri essenziali e non leziosi, e piuttosto ricercati: meglio Via Galliera che Via Indipendenza a Bologna, meglio il lambrusco di Sorbara dello champagne. Jessica, Isabel, Nicole, Mary, Rosy? Nomi ridicoli, l’onomastica è importante, si privilegino nomi degni e autoctoni, e Benedetta è perfetto; i romanzi ambientati a Roma? Basta Roma, l’Italia è fatta di tantissime piccole città belle tanto come la capitale, Rovigo, Mantova, Parma. E poi è vero, l’Oscar Mondadori odierno fa veramente passare la voglia di leggere con quella “copertina tagliata di sbieco”.

Il libro è anche un elogio indiretto dell’autostrada (parole languidamente poetiche), dell’autogrill, del caffè di mezzanotte, delle guide cittadine di carta, delle sottolineature dei testi a matita, del cinema (si legga “Quanto mi piace piazzarmi sul grande divano, accavallare le gambe […] e ammirare Benedetta mentre sfila con i capi di cui stiamo ipotizzando l’acquisto” e si ripensi a La Grande Bellezza di Sorrentino, mentre Ramona-Sabrina Ferilli sfila con gli abiti per il funerale sotto gli occhi di un annoiato Jep-Toni Servillo).

È un libro di motti, e di citazione che sono tantissime, forse esagerate; l’autore lo sa e si difende bene perché, dice, la citazione non la usa chi scarseggia di personalità, e questi che accusano non sanno di essere “schiavi del presente, mentre io sono libero di attingere da autori di ogni secolo e di ogni lingua”. È un libro filosofico volendo, Orazio è presente qua e là, in maniera diretta o indiretta, perché è bene avere talento ma meglio ancora è andarci piano: le parabole dei “talentuosi” spesso finiscono in frustrazione: “Ai piccoli convengono / cose piccole. A me Roma, regale, / non piace, bensì Tivoli tranquilla / o Taranto pacifica”, scrivevail poeta romano.

La ragazza immortale è però meglio di tutto un libro sull’arte e sui pittori italiani contemporanei. Camillo Langone nel suo romanzo ripropone in altri termini un progetto che coltiva da anni nel suo Eccellenti Pittori, non a caso auto-citato nel libro. Benedetta rappresenta la bellezza assoluta, ma questa non può durare, solo l’arte può fissare quell’attimo di splendore. Ma ogni artista ha (e deve avere: “Il valore di un artista è racchiuso nella sua peculiarità stilistica, se gliela cancelli non stai danneggiando lui, stai danneggiando te stesso che pagherai a caro prezzo un quadro mercenario e impersonale”) il suo stile, e Benedetta è come un diamante, e deve essere ritratta in ogni sua singola sfaccettatura.

Ecco allora che serve l’occhio e la mano di artisti che dipingono “con le mani” e non fotografi, guai!, anche perché questa “rappresenta e riproduce la morte, la pittura rappresenta e riproduce la vita” (V. Sgarbi): ecco allora che serve l’occhio e la mano di Riccardo Mannelli (“numero uno dei disegnatori di nudo”, “il Daumier dei due secoli, fine XX e inizio XXI”), Enrico Robusti (“il più balzachiano dei pittori viventi”), Luca De Angelis, Daniele Galliano, Giovanni Gasparro, Nicola Verlato, Daniele Vezzani…

Insomma il nostro borghesotto è un committente morboso e un collezionista vorace, e non si capisce fino alla fine se nei ritratti vive la bellezza eterna di Benedetta, o se vive l’ammirazione e il suo amore in quel dato tempo, o se vive la facoltà dell’artista che ripropone e eterna un dato assoluto, oppure se è tutte queste cose insieme: e proprio questo è il punto. Il romanzo di Langone vale oggi come Il capolavoro sconosciuto di Balzac valeva per i suoi tempi; è uno sentito elogio dell’arte (pittura) contemporanea, della committenza, del collezionismo e, soprattutto, ma forse solo quello, un meraviglioso encomio alla ritrattistica.

Damiano Perini

I CIMITERI SONO LUOGHI BELLI OLTRE CHE SACRI. Andate al camposanto, anche quello più sperduto, o per commemorare o per godere

I cimiteri sono luoghi e al tempo stesso non-luoghi, luoghi di passaggio (fisico e simbolico) quindi sacri, ma anche parte integrante del paesaggio e pertanto, nella maggior parte dei casi, belli. Belli e affascinanti, tenuti più o meno bene, vialetti curati, natura variegata (fiori, quando non finti, e piante, tanti cipressi), e i più fortunati dotati di vista panoramica. Ospitano le tombe dei nostri cari, di conoscenti, di persone famose. E al cimitero anche la persona più insulsa in vita è degna di una preghiera, un ricordo, un pensiero.

I cimiteri rinfrescano e innalzano la memoria dei defunti, e al contempo possono giovare al sopravvissuto. Sia esso un familiare, un conoscente, o uno sconosciuto. Il camposanto è un luogo di consolazione, non solo pianto ma anche sorriso, sorriso benevolo oppure di scherno (si pensi all’ Amici Miei, Atto II di Monicelli, dove il cimitero divento scenario per uno scherzo). È comunque sempre luogo di silenzio inverosimile, un silenzio quieto, saziante, tranquillo che tranquillizza; è un luogo meditativo, quasi metafisico.

Monicelli, Amici Miei Atto II, Lo scherzo al vedovo
Monicelli, Amici Miei Atto II, Lo scherzo al vedovo

Ugo Foscolo forse esagerava. “Non vive ei forse anche sottoterra, quando/ gli sarà muta l’armonia del giorno,/ se può destarla con soavi cure/ nella mente de’ suoi?” scriveva, in uno dei passaggi preferiti (Dei Sepolcri, 1807). Il sepolcro foscoliano è un fatto politico, civile, sociale, patriottico; insieme elemento materiale (il marmo, la foto, i fiori) e eterno (i simboli, la memoria, la sacralità). Per Foscolo le tombe sono come altari destinati a perpetuare, insieme alla memoria dei defunti, l’emulazione delle loro virtù; ossia “i sepolcri degli uomini illustri” fomentano (o dovrebbero farlo) in noi vivi le passioni civili e portano (idem) le persone a imitare l’eroe commemorato.

Un amante dei cimiteri, un grande amante intendo, è Camillo Langone. Non manca novembre in cui non lo ricorda nella sua rubrica La Preghiera, sul Foglio; sono molti gli spunti che si ricavano dalla sua sintesi estrema.  “I cimiteri sono una grande, silenziosa sacca di resistenza alla cancellazione culturale” (02 novembre 2021) scrive Langone, definendo “iconoclastia assoluta” la cremazione, pratica opposta alla sepoltura. Non commemorare i morti significa dimenticarli, e dimenticare i morti è un po’ come cancellare il passato. Chi va al cimitero (non necessariamente il 2 novembre) prolunga, perpetua la cultura, la storia, la civiltà.

Mi ricorda, lo stesso Camillo Langone, che la morte senza un monumento (in senso etimologico: ricordo) è tristezza, immensa tristezza: “la morte del Ventunesimo secolo”, dice, è “la morte raddoppiata dalla cremazione, la morte senza corpo e senza ricordo materiale, la morte davanti alla quale non si può sostare, pensare, pregare. La morte di una civiltà che spreca la morte, che non impara nulla dalla morte, e che muore” (2 novembre 2022). Meditare sul defunto allieva la vita, solleva dalle fatiche quotidiane; e tante volte mette pure umore. I cimiteri, inoltre, al contrario di certe chiese o altri edifici di culto, “non attirano i turisti” (2 novembre 2017), e sono quindi i meglio adatti alla preghiera.

Consiglia poi, Langone, una visita al cimitero a ansiosi e depressi, “insomma i vivi” (16 novembre 2019). “A differenza degli psicofarmaci”, scrive, “i cimiteri sono gratuiti, non richiedono ricetta e non hanno effetti collaterali. Ricordando la brevità della vita, le tombe ricordano la brevità del dolore e dunque dell’inutilità del preoccuparsi”. Nei cimiteri “abbondano religione, arte, storia. Che lezioni i cimiteri.”

Cimiteri di provincia.

Appassionato di cimiteri lo sono anch’io; e più che assiduo frequentatore mi definirei un flâneur cimiteriale. Io pure, nei miei viaggi o viaggetti, tendo a sostare in cimiteri sconosciuti, piccoli o piccolissimi, di paesini o borghi di provincia. Li reputo i migliori : so bene che nei monumentali cittadini l’arte e l’architettura funeraria raggiungono l’apice; ma i dettagli, le bizzarrie, la delicata decadenza, la fascinosa imperfezione dei cimiteri provinciali nascondono delle bellezze ineguagliabili.

Cimitero di Bagolino
Cimitero di Bagolino

Innanzitutto è una profusione di nomi, che alla lettura dell’uomo contemporaneo suonano arcaici e bislacchi. Non può non sfuggire un sorriso leggendo nomi, per fare qualche esempio, come Zita, Luigia, Irma, Dina, Bruna, Gelsomina, Rosmunda, Oreste, Bice, Anita, Avellino, Ersilia, Clateo, Ermenegilda, Girolamo, Ermida, Bortolo, Vittore, Lodovico (con la “o”), Egidio, Dirce, Elvira Celestino, Cesira (da un cimitero del bresciano). Leggendo poi la menzione “Primo” mi torna in mente il memorabile prologo de La spartizione di Piero Chiara.

Il racconto esordisce con un excursus di nomi stravaganti della provincia, e delle origini di questi. Si legge la storia degli “Emerenziani e Emerenziane”, un caso “come quello di alcuni di Cuvio che si chiamavano Divo perché i parenti avevano letto sulla facciata della chiesa Divo Martino Martiri Patrono”. C’era poi chi “si chiamava Ferito per colpa di una canzone del tempo: Garibaldi fu ferito…”. Oppure il caso ancora più esaltante dove, “dopo la guerra 1915-1918 altri apparvero, nel Veneto, che si chiamavano Firmato perché in fondo ai bollettini di guerra di leggeva Firmato Cadorna”. E chissà quante curiose storie ci sono dietro quei nomi bizzarri apposti sulle lapidi più vecchie.

Tra i miei cimiteri preferiti spicca sicuramente quello di Bagolino, con tutto quella rapsodia disordinata di cappelle esterne, lungo la strada che corre veloce verso il Gavia e quindi il Passo Crocedomini; sicuramente devo menzionare il cimitero di Sermerio, piccola frazione di Tremosine sul Garda, un intimo e piccolissimo camposanto, dove le anime pare proprio che stiano in beatitudine perpetua. Qui a Sermerio inoltre è degna di nota una singolare tomba, unica posta al suolo al centro e contornata da tutte le lapidi a muro, la cui ricercatezza artistica (una statua bronzea dalla forma di una ninfa, in posa pudica eppure sensualissima) si discosta completamente dal pauperismo paesano dell’ambiente.

Un altro cimitero cui la visita è d’obbligo è quello di Cologna di Tenno. Questo è posto sulla strada che da Riva conduce a Tenno, e la posizione strategica permette di godere di una vista strepitosa sul Lago di Garda. Da circa due mesi nel mia classifica dei dieci migliori cimiteri provinciali del Nord Italia si è aggiunto quello di Cavedago, paesino della provincia di Trento, si può dire approssimativamente tra La Paganella e la Val di Non. Mi ha colpito per tante cose, in particolare: 1) l’ordine e il rigore generale, 2) la ieratica e maestosa croce al centro, 3) la vista sulla valle, in cui la natura montana si mischia benissimo all’artificio umano di case, casette e meleti, 4) la chiesetta qui posta e 5) il muretto a secco che perimetra il camposanto, creando a tutti gli effetti un hortus conclusus.

C’è un altro dettaglio poi che ha colpito la mia attenzione: sulla sinistra, affissa sulla parete della chiesetta, una umilissima, semplicissima lapida recita le seguenti parole: “PIETRO VIOLA ∙ OSTE ∙ ”. Ho ammirato particolarmente il fatto che il signore abbia voluto farsi ricordare insieme al suo mestiere, e ancor più mi sono esaltato perché il signore abbia voluto eternare quel mestiere. Onore, dunque, a Pietro; onore, sempre, all’oste!

Damiano Perini