QUANTE COSE PUÒ DIRCI IL VINO? TANTE, FORSE INFINITE. Appunti sopra “Il linguaggio del vino” di Francesco Annibali

Preso atto che il vino ha un suo animato e piacevolissimo sospiro (L. Moio, Il respiro del vino), è ora di aggiungere una nozione in più: il vino parla. E a quanto pare è un gran chiacchierone, e pure dalla spiccata dote oratoria. Lo dimostra il libro di Francesco Annibali, Il linguaggio del vino (2021) edito dalla piccola casa editrice Ampelos (una super nicchia), della provincia di Lecce.

La formazione di Annibali è bolognese: studia filosofia, e con Umberto Eco. E infatti è un libro, o meglio, un testo (devo stare attento) che usa gli strumenti della semiotica per “interpretare” il linguaggio – particolarissimo –  del vino. Perché questo continua a parlare, anche se non abbiamo ancora stappato la bottiglia; ma di più, anche la bottiglia di quel determinato vino è vuota perché bevuta, questa continua comunicare. E chiunque (bevitore, degustatore, conoscitore), con un po’ di attenzione, può essere il lettore di quel vino.

Perché un bicchiere di vino è un “testo”, e un testo “alla pari di un cartellone pubblicitario, di un libro, di una poesia”, di un quadro o insomma di qualsiasi espressione o linguaggio con cui l’uomo comunica. “Il vino parla un linguaggio portatore di valori simbolici, emotivi, politici, ideologici”. E non solo il vino in sé al momento della degustazione ci parla: perché anche la forma delle bottiglie, i bicchieri, le etichette, le retroetichette, pubblicità aziendali e il contesto in cui questo è bevuto, degustato, assaggiato possiedono un loro modo tutto personale di comunicare.

È un libro che declina la semiotica al vino, ho detto, quindi non immediato; ma c’è da avere paura perché, grazie alle sue accortezze, l’autore – che con inusitata delicatezza, rara tra gli accademici – ci scrive un linguaggio appetibile, avvicinandoci a questo mondo (che è la dote del divulgatore). In che modo? Annibali si muove con uno stile che alterna agilmente il tecnico alla sprezzante, e questo permette una soddisfacente e insieme goduriosa lettura. In questo modo lo può leggere l’esperto di semiotica; lo può leggere l’appassionato che non ha mai aperto un libro nemmeno di Umberto Eco; oppure semplicemente i pigri come il sottoscritto che, seppur conoscendo abbastanza bene la materia, anzi proprio perché conosciuta, hanno scelto la leggerezza e quindi piacevolezza).

Grazie al piccolo vocabolario inserito alla fine del libro, risulteranno meno pesanti e terribili espressioni quali “segni”, “significazione”, “espressione significante”, “contenuto significato”, “dai fenomeni ai significati”, “semiosi”, “attante”, “wittgensteinianamente”, “antropomorfizzante”, “datità”, “problematizzato”, e altri termini e locuzioni e sintagmi difficilissimi.

Strutturalmente il libro è organizzato, con metodo, in tre parti: linguaggio della degustazione, linguaggio del contesto, analisi dei testi e del linguaggio attorno al mondo del vino.

Cosa ci dice il vino. Dietro al vino sta tutta una serie innumerevole e impensabile di “eventi” come li chiama l’autore, si genera ossia a partire da questo una serie di considerazioni, opinioni, idee; quante cose può dire il vino? E in che modo ci parla? Tante, forse infinite; e il libro di Annibali lo dimostra. Il pensiero e le speculazioni (mi si faccia passare il termine) di Annibali sono chiarissime, nette. In più spiegate bene, distese con metodo cristallino. Convincenti. E considerano veramente tutto.

“La nostra esperienza del vino e con il vino è sempre immersa – che ne siamo consapevoli o meno – in una rete labirintica di significazioni stratificate, di segni che rimandano infinitamente ad altri segni. […]la nostra esperienza del vino, dunque, non è altro […] che una intricatissima storia entro la quale trovano senso le nostre conoscenze, aspettativa, passioni e le nostre azioni.”

Il vino è una “opera aperta” per dirla con Umberto Eco, in cui convogliano e riaffiorano la nostra cultura, i nostri ricordi, le nostre conoscenze, i nostri piaceri. E questo continua a parlarci. “Come tutti i testi”, scrive Annibali, “il vino sollecita e richiede, a causa della propria struttura interna, una collaborazione indispensabile del destinatario”, ossia del lettore che è il bevitore/degustatore/assaggiatore. Il quale, quest’ultimo, ha un importante ruolo di interpretazione. Si può dire che il vino esiste in virtù di tale interpretazione? Presumo proprio di sì. Un lettore che è attivo, partecipativo, che lo voglia o no.

“Il vino è un testo che esplicita pochissimo, che di suo parla poco insomma, ma che contiene una miriade di informazioni anche nelle versioni meno impegnative”. Il vino continua a parlarci, ripeto, impariamo quindi a ascoltarlo.

La semiotica smonta la realtà, la complica rendendola difficile. Siamo nel campo della semiotica del vino, o meglio semiotica della degustazione. Eppure qui le cose si capiscono. Annibali sradica e spezzetta e ricompone le basi della critica enoica. Nel testo/vino “si intrecciano piani estetici, enologici, geografici, eccetera: è il discorso della critica.”

Cosa dice il contesto. Il vino “Biblioteca di Babele di borgesiana memoria”: un’immagine a cui non avevo mai pensato; e vera, e bellissima.

Che il bicchiere conti è risaputo; e basta bere in un contenitori diversi per capire la differenza. Ma se ancora non vi convince l’idea, o la pensato come una stravaganza da fighetti, si pensi alla seguente “analogia cinematografica: così come vedere lo stesso film su un tablet e al cinema dà effetti molto differenti, lo stesso dicasi per il vino”. Convincente no?

Inoltre, è bene che sia evidenziato nel capitolo il “legame sinestetico” tra le caratteristiche cromatiche e olfattive del vino, e quanto questo conti nel attribuire “frutta rossa” a vini rossi e “frutta bianca” o “gialla” a vini bianchi; legame infranto da un bicchiere nero, come nel caso delle degustazioni alla cieca.

Ma ancora meglio che si dia valore al bordo e al peso del bicchiere, attraverso la semiotica. “Il bicchiere ha dunque una sorta di funzione analitica, le cui componenti si svolgono in una successione che ha una sua sintassi piuttosto rigida”. E ancora, “il bicchiere permette al contempo di scomporre e successivamente ricomporre”, una macchina “indispensabile alla costruzione del senso del vino”.

Benissimo, soprattutto, che venga esaminata la sensuosità con cui approcciamo al vino: “la degustazione coinvolge tutti i sensi”, e sì, anche l’udito; dal vino, come nell’amore, pretendiamo un coinvolgimento di tutti i sensi. E il “bicchiere si presenta come una macchina sinestetica, ossia come il luogo in cui tutti i cinque sensi vengono coinvolti e reciprocamente implicati”.

Annibali passa poi in rassegna con una sorta di “breve storia del lessico” il linguaggio per la descrizione dei vini, che utilizza innumerevoli forme, termini dalle caratteristiche antropomorfe, inorganioche e organiche, “come se il vino riuscisse a raccontare tutto l’universo”. “La lingua del vino è una sorta di esperanto”. La terminologia della degustazione è dunque caratterizzata da un lessico “basato sulla rideterminazione semantica di aggettivi di uso comune”.

Interessantissima la parte dedicata alla “Confezione”: contenitore, etichetta, contro-etichetta (un “enogramma” che racconta una porzione di mondo, sfrutta una logica comunicativa al contempo informativa e persuasiva). Enogrammi in cui il vino si racconta in prima persona, la propria identità, la propria vita. E rilevo che il vino possiede anche la “capacità squisitamente politica di delineare, e a volte addirittura creare, forme di vita sociali”.

Si dilunga con parole saggia e ben distese sulla retorica del biologico, sulllo storytelling con cui viene propagata (dimostrandosi comunque a favore di questa visione  – semmai va contro il modo con cui viene comunicato). “Un alibi che crea false coscienze, un sistema di buone intenzioni – produco bio, e se dunque i ghiacciai si estinguono non è responsabilità mia – che paradossalmente può legittimare discorsi di potere”

Attorno al mondo del vino: l’“enosfera”. La terza parte è più discorsiva, di opinione, e meno tecnica (quindi più rilassante). E dove si ripassano alcune chicche, tipo questa: il Bordeaux diventa Bordeaux grazie al commercio iniziato nel Medioevo con l’Inghilterra, e grazie a un sistema “dei négociants” ideato dagli olandesi successivamente, nel Seicento. Chiaramente io semplifico, ma non voglio rubarvi il piacere delle lettura, che si scopre a poco a poco.

Qui Annibali poi analizza in modo chiaro il nuovo modo di bere e di ricercare nel bere dei millennials, più improntato sul desueto e sulla nicchia: “dietro alla ricerca del bianco in anfora georgiano senza importatore, o del rosso della Valcamonica prodotto in 300 esemplari, c’è dunque non tanto un bisogno di autoaffermazione sociale, come verrebbe da pensare automaticamente (quel bisogno fu soddisfatto dal Masseto, in quelli che vent’anni fa furono i nuovi consumatori), ma una necessità, ben più profonda, di autenticità fuori dalla rappresentazione tecnologica.”

Altri argomenti interessanti nello stesso capitolo: vino e tradizione (tradizioni che “appaiono in realtà il prodotto di logiche meticce, più che di un’autentica continuità con il passato”); una versione tutta enoica di “Apocalittici e Integrati”; il Vinitaly, una “fiera alimentata da una bruciante componente emotiva, identificativa e aggregante, dall’indole ostinatamente e squisitamente nazionalpopolare”; del populismo che non ha lasciato scampo nemmeno al mondo del vino, trovando “terreno fertile” nella “componente emotiva della nostra bevanda preferita”, e che sostituisce le conoscenze con le credenze.

Si esprime poi, tagliente come una lama, sulla “delegittimazione della figura del giornalista” – ma questo si può riscontrare anche in altri campi, su tutti quello dell’arte e della letteratura – , visto “nel migliore dei casi come orpello” tra produttori e consumatori, quando in realtà questa figura di mediazione è fondamentale per l’opinione pubblica, e per l’appassionato in particolare. “Un buon giornalista del vino serve a fare in modo che il lettore/assaggiatore” possa farsi la propria opinione sul mondo del vino”.

E ancora: definizione di “terroirs”; analisi dettagliata del termine “minerale” nel vino (“la mineralità come espressione diretta del suolo” è la “teoria più fantasiosa – e non vera”, e una cosa certa: “la mineralità non è ricollegabile alla chimica del terreno”); non manca nemmeno una brevissima storia del consumo del vino, da Alcibiade, ai romani, a Paolo apostolo (vino come rito).

In conclusione, non si dimentichi: il vino è cultura, intesa come “effetto di manipolazione della natura”, è “sempre atto comunicativo”; il vino ha la capacità di far dire il “non-detto, finanche l’indicibile”, dandone un significato concreto. Rileggere in chiave semiotica la degustazione del vino è un’idea conturbante, che provoca grande attrazione quanto terrore. E tuttavia Annibali ce la fa passare come un’esperienza piacevole.

Damiano Perini

LEGGANO “MAZZON E IL SUO PINOT NERO” I CULTORI DEL PREGEVOLE VITIGNO. Un libro di Michela Carlotto e Peter Dipoli per raccontare al contempo una zona e un vitigno, legati come due amanti

Lassù in Alto Adige, attorno al 46° parallelo, esiste un piccolo luogo, bucolico e collinare, quasi completamente coltivato a vite; si trova tra la Piana Rotaliana e Bolzano, sulla sinistra orografica del fiume Adige, a una altitudine compresa tra i 300 e i 450 m s.l.m. Un altipiano dolcemente inclinato, che s’innalza orgogliosamente e dirimpetto agli attigui comuni di Termeno e Caldaro.

Questo luogo, esposto a ovest e con andamento nord-sud, è “protetto” a est da un possente catena montuosa: sta infatti ai piedi delle montagne del Parco Naturale del Monte Corno, i cui rilievi ombreggiano l’intera zona per tutta la mattina.

Si aggiunga che questo gradevole paesino, composto da dodici singoli masi di origine medievale e germanica (“hof”, appunto, “maso”), e dotato di una propria chiesetta dedicata a San Michele Arcangelo, è caratterizzato da un singolarissimo suolo, composto ossia da un “pacchetto” di rocce calcaree in cui dominano le arenarie, le siltiti rosse e gialle e in calcari, insieme a marne e dolomia.

Questo luogo è Mazzon, piccola frazione di Egna, dove si producono i più complessi e fini Pinot nero d’Italia.

Mazzon e la vista sulla Valle (fonte: Suedtirolerland.it)

So che i Pinot nero alto atesini sono buoni, e ancora meglio quelli della bassa atesina. Non sapevo però che Mazzon fosse la zona più vocata della Penisola. Lo scopro solo grazie a Mazzon e il suo Pinot nero, un libro molto interessante e ben documentato di Peter Dipoli e Michela Carlotto, uscito nel 2017.

Si tratta di un libricino molto pregevole, dalla copertina elegantemente “vestita”, ben rilegato, dalla carta patinata; un libro direi di notevole qualità, edito dalla piccola casa editrice Retina (Raetia) di Bolzano. In questo libro due ottimi vignaioli, nonché bravissimi studiosi, racchiudono in una serie di capitoli la storia, il territorio e la produzione  di Mazzon; il che significa storia di cantine, di etichette e, soprattutto, di persone.

Dicevo: Mazzon è il territorio più vocato d’Italia per la produzione di Pinot nero. Certo; questo perché il delicato quanto prezioso vitigno ha bisogno di essere cullato, prima  dalla terra e dal clima, poi dal vignaiolo. È una varietà molto sensibile, e ha bisogno – per così dire – di attenzioni particolari.

Così spiegano i due vignaioli-studiosi che le catene montuose  a nord proteggono la zona “dall’arrivo di masse d’aria fredda”, e la valle facilita l’azione delle miti correnti dell’Ora del Garda (un vento che soffia da aprile a settembre nelle prime ore del pomeriggio, e non permette l’eventuale formazione di muffe).

Fondamentale poi per il Pinot nero è, insieme al suolo, l’esposizione a ovest: le montagne del Monte Corno svolgono un’azione di “protezione” dal sole mattutino e “consentono ai raggi solari di raggiungere i vigneti in ritardo [durando fino a tarda sera], e permettendo a questi inoltre di beneficiare della frescura notturna.” Lo sbalzo termico che ne deriva è notevole e rapido, e ne rappresenta una manna per la maturazione dell’uva.

Naturalmente il lavoro della natura sarebbe vano se non ci fosse un’eguale attenzione nella vinificazione. Questa, da anni, la portano avanti produttori medio-piccoli capaci e meticolosi. E di esperienza.

Si parla di Pinot nero in Alto Adige da almeno due secoli, grazie all’Arciduca Giovanni d’Asburgo (1782-1859), grande sostenitore e promulgatore dell’agricoltura durante l’Impero Austriaco. La presenza di Pinot nero in questa regione è documentata inoltre da Edmund Mach, il fondatore della scuola di San Michele all’Adige, in un libro del 1894.

Mazzo, un avista a ‘volo d’uccello’ (fonte Peer.tv)

Dal libro di Carlotto e Dipoli, molto documentato con tabelle e statistiche percentuali, noto come questo vitigno da sempre è coltivato per fare vini di qualità – poche bottiglie ma buone: infatti è nominato “vino da bottiglia” a inizio del Novecento, quando dominava il mercato verso la Germania la Schiava, vinificata per vini da tavola in grosse quantità. Due esempi: nel 1951 le barbatelle innestate di Pinot nero rappresentano l’1,9% (Schiava: 51%); nel 1972 il Pinot nero sale a 3,6% (Schiava 51,8%).

Nel solo contesto di Mazzon, è stata quantificata una superficie di 20,6 ettari nel 1975, cresciuti a 51,6 nel 2015. Ma se l’aumento della coltivazione di questa varietà è un fenomeno relativamente recente, la sua produzione è molto più antica. “I primi Pinot nero etichettati ‘Mazzon’ risalgono all’ultimo decennio del 1800, quando il titolare dell’azienda Gottardi, Emil Vogl von Fernheim prese […] il diploma d’onore alla mostra di Vienna, nel 1898”.

A oggi le aziende che producono vini da Pinot nero Mazzon sono: Gottardi, Brunnenhof, Kuckuckshof, e Kollerhof, che vinificano in loco; e  J. Hofstaetter, Ferruccio Carlotto, Franz Haas, Tramin, Kurtatsch, e Girlan, che hanno sede nei comuni limitrofi.

Oltre a una gustosissima serie di schede analitiche sulle aziende, nel libro sono inserite delle puntuali cartine divise in zone e sottozone, che permettono una visione immediata delle geografica del territorio, oltre ai dati annessi (p. es. l’indice di maturazione dell’uva per sottozone). Inoltre, il ricco apparato iconografico fa cornice a un testo non impegnativo epperò esaustivo.

Faccio in tempo a rileggerlo una seconda volta e, intanto che lo sfoglio mi permetto pure uno, anzi due calici di vino. Di Pinot nero, di Mazzon, ovvio. Perché qui come difficilmente da altre parti il territorio e il vitigno sono tra loro legati, indissolubilmente, come due amanti.

Damiano Perini

L’ARTE DEL PARLAR DEL VINO. Nicola Bonera nel suo libro “Lockwine” compendia anni di lezioni all’AIS, proseguendo la tradizione dei Veronelli

Leggo il libro da poco uscito di Nicola Bonera, Lockdown. Vini, piatti e pensieri di un sommelier confinato in casa (edito dall’Associazione Italiana Sommelier Lombardia), e ho la sensazione di sentire la sua voce, nitida e tonante, chiara, netta e dal timbro marcato, che ben ricordo dalle sue lezioni all’AIS e dalle degustazioni da lui condotte.

Chi lo ha scritto è un sommelier di professione, e dunque non avevo dubbi; ma scopro anche che l’autore è un appassionato, anzi di più, un esperto appassionato di gastronomia, se non proprio un cuoco. I modi con cui si rivolge al lettore sono gli stessi, galanti e mai superbi, con cui si rivolge a noi che lo abbiamo ascoltato e ancora lo ascoltiamo alle sue lezioni e degustazioni. “Caro lettore”, scrive nell’introduzione, “grazie per aver scelto questo libro”. Le sole primissime battute mi confermano la professionalità che già conosco, i tanti anni passati a ‘servire’ i clienti, la formazione all’istituto alberghiero.  Insomma, in questo libro Bonera ci scrive nello stesso modo con cui si rivolgerebbe al commensale in sala di un qualsiasi ristorante di medio o alto livello.

Nicola Bonera è oggi una tra le più figure più importanti e influenti dell’AIS, è il relatore degli applausi scroscianti finali, miglior sommelier d’Italia nel 2010; si dice un “inquieto che non smette mai di studiare, un curioso, un tenace”. Chiaro: senza queste facoltà nel mondo del vino, in perenne cambiamento, non si va molto lontano. È una persona dai modi tutto sommato umili, ho detto, ma non un moscio: resta comunque, come si può immaginare, un agonista, una persona competitiva che pur coprendo diversi ruoli non vuole “abbandonare ‘il mio primo amore’ per i concorsi”. Una persona sicura di sé e delle sue capacità, che ha saputo sfruttare le sue doti costruendosi, sudando, una carriera. E che si rilassa in cucina: “cucinare mi rilassa e mi aiuta a stimolare la mente, migliorare la concentrazione e, certamente, a dimenticare i problemi del quotidiano”. Ma non è un ricettario, o meglio non solo.

Lockdown è, tra le tante cose, ma soprattutto, un libro edonistico; dire, più semplicemente, che  è un libro di ricette e di vini consigliati sarebbe ingiusto, e troppo riduttivo.

Il linguaggio del testo è fluido. L’autore, come nelle spiegazioni orali, dosa e manipola le locuzioni, trova l’aggettivo esatto, azzecca il modo di inserirlo. Il taglio delle volte è secco, altre è più poetico, talvolta rasenta il lirico (e forse un pizzico il melenso: “nella scelta dei vini ho usato il cuore, oltre che i sensi”). Così il vino, che di per sé già vita ne ha a sufficienza, viene accompagnato (e – diciamolo, siamo tra critici – accresciuto).

Forbito quel che basta, asciutto di norma e eloquente sempre, Bonera è un maestro di sprezzatura. Lo sapevo perché ho seguito le sue lezioni; lo so ora che ho letto il suo libro.

E leggendo questo fruibilissimo libro di Bonera  recupero inconsciamente alcune delle sue uscite, che nel frattempo nella mia mente si erano fatti apoftegmi. Come: “il müller thurgau è il caso in cui il riesling ha fatto l’amore controvoglia”. Geniale commento detto (scherzosamente, ovvio) durante la serata dedicata ai Piwi (17 giugno 2019); parlando del Krug Vintage 2004 (serata del 2 luglio 2021) chiede, domanda retorica, “qual è il problema della 2004?”, dopo una breve pausa fintamente dubbiosa: “che finisce subito!”. Quindi divertente, ma anche evocativo. Capita con Bonera che il vino si materializzi, diventando libro (“lo trovo più leggibile”, riferito a un rosso di grande struttura); e, abituati alla sua affabulazione, certi commenti possono emergere per contrasto. In una serata dedicata al riesling tedesco del Medio Reno (esclusa la Mosella quindi), dopo aver preparato la platea a chissà quale monologo sull’“amato” riesling di P.J. Kühn, il responso è stato un lapidario: “è buono”, accompagnato da una calcolata pausa.

In aula illustra i vini e il mondo che ci sta attorno, ma insieme si dichiara, si racconta nella sue esperienze enoiche, aneddoti leggeri eppure coinvolgenti di vita da degustatore. Talvolta è affabile quando accompagna la degustazione, a volte più tagliante, ma ugualmente efficace.

NIcola Bonera, dal profilo Twitter
NIcola Bonera, dal profilo Twitter

Bonera è impeccabile, e non parlo solo del nodo alla cravatta o dei capelli o dei pantaloni sempre attentamente fino in fondo (guai che scappi un’idea di risvoltino); è preciso e pedantemente dettagliato nello sferzare dati, numeri, statistiche, cru (anche se non so se tenga testa all’altro grande dell’AIS – Invernizzi – a sciorinare territori vitigni e nomi impossibili di luoghi enologicamente misconosciuti). Tante nozioni, che forse qualche volte mi è capitato pure di imparare (per sfinimento, certo), di ettari, rese, ceppi per ettaro… Alla fin fine però credo che Bonera piaccia a tutti anche perché parla dei vini come parlare di donne (e quale combinazione migliore di donne e vino). Chiacchierando di bottiglie bevute ne evoca i ricordi, le memorie lontane, che a volte possono essere divertenti o addirittura bislacche se non assurde.

Certo Bonera viene dai Pellegrino Artusi; ma, soprattutto, prosegue con dignità la tradizione dei Veronelli, innovando il linguaggio e applicandosi perfettamente al tempo in cui vive. Per questo il libro è un libro godibile e per goderecci. La grafica di impaginazione è quella del web, i testi sono sintetici ma esaustivi, ogni ricetta e ogni vino sono affiancati da immagini ‘instagrammabili’ (e mi scuso per il termine) dei piatti, di cui le pietanza sono leziosamente impiattate (Marchesi docet). Pur essendo molto tecniche le ricette le ho letto benissimo, quando solitamente è la prima cosa che snobbo (io mangio tanto e bene, ma a cucinare non mi applico per niente).  Ho letto e riletto invece la descrizione dei vini, sia quelli più rinomati sia quelli più elusivi: in quelle poche battute c’è dentro tutto.

In Lockwine di Bonera ritrovo la stessa formula utilizzata da Luigi Veronelli in un libricino delizioso e penso ormai raro, Bere giusto. Ognuno può diventare un perfetto sommelier (Rizzoli, 1971), che trovai qualche anno fa a Bologna, in uno di quei mercatini sfigati e pittoreschi (ma ricolmi di meraviglie nascoste). Dopo una lunga presentazione dalla prosa sapida e immediata – una chiacchierata sul mondo del vino in forma scritta praticamente – Veronelli si lancia in un elenco infinito di ricette, ognuna delle quali accompagnata da un vino consigliato per l’abbinamento. Dai più sofisticati: “Codone Brillat-Savarin . Vino consigliato: rosso, maturo, di pieno corpo, asciutto”, spiegando: “piatto ‘francese’ al mille […] ci vorrei un grosso vino di Borgogna, un Romanée-Conti tanto per dirne uno. Non ancora disposto a rovinarmi (del tutto) ripiegherei – ottima ritirata tuttavia – sul Granaccia di Vado, di 4-5 anni, servito a 20°C”. Ai piatti più umili: “Tonno con piselli. Vino consigliato: bianco, secco, giovane, di buon corpo. Preferire il Trebbiano di Montorio al Vomano, di 1 anno, servito a 10°C”.

E snob non lo è neppure Bonera nel suo libro. Prima descrive una “farinata di ceci con insalata di cavolo e cappuccio” (pp. 26-27), poi con la stessa appassionata enfasi illustra la preparazione dei “paccheri farciti con ragù di pesce” (pp. 66-67). È minuzioso e completo nel descrivere vini meno citati, come il riesling di Monte Cicogna (p. 49) o l’asprinio Santa Patena de I Borboni (p. 53), quanto i baluardi dell’enologia italiana, come il Ferrari Trento Doc (p. 41) o il Bukkuram di Marco De Bartoli (p. 113).

La suddivisione del volumetto e l’impaginazione sono abbastanza istintive; l’insieme mi piace, ma ancor più i dettagli. Mi spiego. Per i cibi, almeno, i titoli non sono mai solo titoli, perché questi indicano il piatto ma grazie al commento che subito segue si fanno poesia, evocando ricordi lontani, e seducendo non poco. Faccio subito un esempio: “Gnocchi alla romana. Dentro ognuno di noi si nasconde un bambino”; seguito dal pregevole commento: “un piatto a cui non so rinunciare, che ha accompagnato la mia infanzia e mi fa tornare il sorriso a prescindere dai problemi della giornata” (p.42).

O ancora, cito da qualche pagina indietro (a caso): “Torta salata al broccolo. Verso le notti più lunghe”; a cui segue: “una base di pasta che accoglie la farcitura al broccolo, un ortaggio che ci accompagna dal tardo autunno per tutto l’inverno, quando le giornate s’accorciano e il crepuscolo invita al raccoglimento” (p. 34).

Ecco, il broccolo come pretesto per un pensiero nostalgico e, se vogliamo, ‘crepuscolare’, mi mancava.

Ma dal libro ricavo anche curiosità pazzesche, come quella che vede il cartello pubblicitario della SVIC (Società Vinicola Italiana di Casteggio, paese oggi di nemmeno settemila anime in provincia di Pavia) collocato “in maniera ben visibile” nei pressi della Statua della Libertà di New York. Da non crederci, nonostante Ballabio sia una azienda che apprezzo e trovi i suoi Farfalla ottimi (p. 32).

Lockdown è un libro edonistico ma anche fortemente estetico. Il ricettario di Bonera è fatto di ingredienti e loro preparazione e, cosa non scontata, dalle indicazioni per la “finitura del piatto”. In questi paragrafi dà spazio alla sua natura di cuoco-artista, ma anche di preciso e raffinato buongustaio, con consigli direi proprio sensuosi.

Il Bonera sommelier però, e qui l’acme del libro, lo rilevo dai paragrafini titolati “Le pillole del sommelier”. Qui, come da nessun altra parte del testo, ritrovo il Nicola Bonera delle lezioni, il relatore, il degustatore, l’istruttore. Consigli professionali (e, nemmeno a dirlo, impeccabili) su: temperature di servizio (valutarle bene in relazione a ciò che si vuol far emergere dal vino!), conservazione delle bottiglie (esempio: mai tenerle troppo nel frigo!), sequenza dei vini da servire, sboccature diverse dei metodo classico, autoctoni vs internazionali (sfatandone, finalmente, il falso mito), il prezzo dei vini… e tantissime altre chicche, da leggere (e ovviamente imparare a memoria per chi fosse del mestiere come il sottoscritto).

Applausi (scroscianti).

Damiano Perini
AIS Brescia