QUANTE COSE PUÒ DIRCI IL VINO? TANTE, FORSE INFINITE. Appunti sopra “Il linguaggio del vino” di Francesco Annibali

Preso atto che il vino ha un suo animato e piacevolissimo sospiro (L. Moio, Il respiro del vino), è ora di aggiungere una nozione in più: il vino parla. E a quanto pare è un gran chiacchierone, e pure dalla spiccata dote oratoria. Lo dimostra il libro di Francesco Annibali, Il linguaggio del vino (2021) edito dalla piccola casa editrice Ampelos (una super nicchia), della provincia di Lecce.

La formazione di Annibali è bolognese: studia filosofia, e con Umberto Eco. E infatti è un libro, o meglio, un testo (devo stare attento) che usa gli strumenti della semiotica per “interpretare” il linguaggio – particolarissimo –  del vino. Perché questo continua a parlare, anche se non abbiamo ancora stappato la bottiglia; ma di più, anche la bottiglia di quel determinato vino è vuota perché bevuta, questa continua comunicare. E chiunque (bevitore, degustatore, conoscitore), con un po’ di attenzione, può essere il lettore di quel vino.

Perché un bicchiere di vino è un “testo”, e un testo “alla pari di un cartellone pubblicitario, di un libro, di una poesia”, di un quadro o insomma di qualsiasi espressione o linguaggio con cui l’uomo comunica. “Il vino parla un linguaggio portatore di valori simbolici, emotivi, politici, ideologici”. E non solo il vino in sé al momento della degustazione ci parla: perché anche la forma delle bottiglie, i bicchieri, le etichette, le retroetichette, pubblicità aziendali e il contesto in cui questo è bevuto, degustato, assaggiato possiedono un loro modo tutto personale di comunicare.

È un libro che declina la semiotica al vino, ho detto, quindi non immediato; ma c’è da avere paura perché, grazie alle sue accortezze, l’autore – che con inusitata delicatezza, rara tra gli accademici – ci scrive un linguaggio appetibile, avvicinandoci a questo mondo (che è la dote del divulgatore). In che modo? Annibali si muove con uno stile che alterna agilmente il tecnico alla sprezzante, e questo permette una soddisfacente e insieme goduriosa lettura. In questo modo lo può leggere l’esperto di semiotica; lo può leggere l’appassionato che non ha mai aperto un libro nemmeno di Umberto Eco; oppure semplicemente i pigri come il sottoscritto che, seppur conoscendo abbastanza bene la materia, anzi proprio perché conosciuta, hanno scelto la leggerezza e quindi piacevolezza).

Grazie al piccolo vocabolario inserito alla fine del libro, risulteranno meno pesanti e terribili espressioni quali “segni”, “significazione”, “espressione significante”, “contenuto significato”, “dai fenomeni ai significati”, “semiosi”, “attante”, “wittgensteinianamente”, “antropomorfizzante”, “datità”, “problematizzato”, e altri termini e locuzioni e sintagmi difficilissimi.

Strutturalmente il libro è organizzato, con metodo, in tre parti: linguaggio della degustazione, linguaggio del contesto, analisi dei testi e del linguaggio attorno al mondo del vino.

Cosa ci dice il vino. Dietro al vino sta tutta una serie innumerevole e impensabile di “eventi” come li chiama l’autore, si genera ossia a partire da questo una serie di considerazioni, opinioni, idee; quante cose può dire il vino? E in che modo ci parla? Tante, forse infinite; e il libro di Annibali lo dimostra. Il pensiero e le speculazioni (mi si faccia passare il termine) di Annibali sono chiarissime, nette. In più spiegate bene, distese con metodo cristallino. Convincenti. E considerano veramente tutto.

“La nostra esperienza del vino e con il vino è sempre immersa – che ne siamo consapevoli o meno – in una rete labirintica di significazioni stratificate, di segni che rimandano infinitamente ad altri segni. […]la nostra esperienza del vino, dunque, non è altro […] che una intricatissima storia entro la quale trovano senso le nostre conoscenze, aspettativa, passioni e le nostre azioni.”

Il vino è una “opera aperta” per dirla con Umberto Eco, in cui convogliano e riaffiorano la nostra cultura, i nostri ricordi, le nostre conoscenze, i nostri piaceri. E questo continua a parlarci. “Come tutti i testi”, scrive Annibali, “il vino sollecita e richiede, a causa della propria struttura interna, una collaborazione indispensabile del destinatario”, ossia del lettore che è il bevitore/degustatore/assaggiatore. Il quale, quest’ultimo, ha un importante ruolo di interpretazione. Si può dire che il vino esiste in virtù di tale interpretazione? Presumo proprio di sì. Un lettore che è attivo, partecipativo, che lo voglia o no.

“Il vino è un testo che esplicita pochissimo, che di suo parla poco insomma, ma che contiene una miriade di informazioni anche nelle versioni meno impegnative”. Il vino continua a parlarci, ripeto, impariamo quindi a ascoltarlo.

La semiotica smonta la realtà, la complica rendendola difficile. Siamo nel campo della semiotica del vino, o meglio semiotica della degustazione. Eppure qui le cose si capiscono. Annibali sradica e spezzetta e ricompone le basi della critica enoica. Nel testo/vino “si intrecciano piani estetici, enologici, geografici, eccetera: è il discorso della critica.”

Cosa dice il contesto. Il vino “Biblioteca di Babele di borgesiana memoria”: un’immagine a cui non avevo mai pensato; e vera, e bellissima.

Che il bicchiere conti è risaputo; e basta bere in un contenitori diversi per capire la differenza. Ma se ancora non vi convince l’idea, o la pensato come una stravaganza da fighetti, si pensi alla seguente “analogia cinematografica: così come vedere lo stesso film su un tablet e al cinema dà effetti molto differenti, lo stesso dicasi per il vino”. Convincente no?

Inoltre, è bene che sia evidenziato nel capitolo il “legame sinestetico” tra le caratteristiche cromatiche e olfattive del vino, e quanto questo conti nel attribuire “frutta rossa” a vini rossi e “frutta bianca” o “gialla” a vini bianchi; legame infranto da un bicchiere nero, come nel caso delle degustazioni alla cieca.

Ma ancora meglio che si dia valore al bordo e al peso del bicchiere, attraverso la semiotica. “Il bicchiere ha dunque una sorta di funzione analitica, le cui componenti si svolgono in una successione che ha una sua sintassi piuttosto rigida”. E ancora, “il bicchiere permette al contempo di scomporre e successivamente ricomporre”, una macchina “indispensabile alla costruzione del senso del vino”.

Benissimo, soprattutto, che venga esaminata la sensuosità con cui approcciamo al vino: “la degustazione coinvolge tutti i sensi”, e sì, anche l’udito; dal vino, come nell’amore, pretendiamo un coinvolgimento di tutti i sensi. E il “bicchiere si presenta come una macchina sinestetica, ossia come il luogo in cui tutti i cinque sensi vengono coinvolti e reciprocamente implicati”.

Annibali passa poi in rassegna con una sorta di “breve storia del lessico” il linguaggio per la descrizione dei vini, che utilizza innumerevoli forme, termini dalle caratteristiche antropomorfe, inorganioche e organiche, “come se il vino riuscisse a raccontare tutto l’universo”. “La lingua del vino è una sorta di esperanto”. La terminologia della degustazione è dunque caratterizzata da un lessico “basato sulla rideterminazione semantica di aggettivi di uso comune”.

Interessantissima la parte dedicata alla “Confezione”: contenitore, etichetta, contro-etichetta (un “enogramma” che racconta una porzione di mondo, sfrutta una logica comunicativa al contempo informativa e persuasiva). Enogrammi in cui il vino si racconta in prima persona, la propria identità, la propria vita. E rilevo che il vino possiede anche la “capacità squisitamente politica di delineare, e a volte addirittura creare, forme di vita sociali”.

Si dilunga con parole saggia e ben distese sulla retorica del biologico, sulllo storytelling con cui viene propagata (dimostrandosi comunque a favore di questa visione  – semmai va contro il modo con cui viene comunicato). “Un alibi che crea false coscienze, un sistema di buone intenzioni – produco bio, e se dunque i ghiacciai si estinguono non è responsabilità mia – che paradossalmente può legittimare discorsi di potere”

Attorno al mondo del vino: l’“enosfera”. La terza parte è più discorsiva, di opinione, e meno tecnica (quindi più rilassante). E dove si ripassano alcune chicche, tipo questa: il Bordeaux diventa Bordeaux grazie al commercio iniziato nel Medioevo con l’Inghilterra, e grazie a un sistema “dei négociants” ideato dagli olandesi successivamente, nel Seicento. Chiaramente io semplifico, ma non voglio rubarvi il piacere delle lettura, che si scopre a poco a poco.

Qui Annibali poi analizza in modo chiaro il nuovo modo di bere e di ricercare nel bere dei millennials, più improntato sul desueto e sulla nicchia: “dietro alla ricerca del bianco in anfora georgiano senza importatore, o del rosso della Valcamonica prodotto in 300 esemplari, c’è dunque non tanto un bisogno di autoaffermazione sociale, come verrebbe da pensare automaticamente (quel bisogno fu soddisfatto dal Masseto, in quelli che vent’anni fa furono i nuovi consumatori), ma una necessità, ben più profonda, di autenticità fuori dalla rappresentazione tecnologica.”

Altri argomenti interessanti nello stesso capitolo: vino e tradizione (tradizioni che “appaiono in realtà il prodotto di logiche meticce, più che di un’autentica continuità con il passato”); una versione tutta enoica di “Apocalittici e Integrati”; il Vinitaly, una “fiera alimentata da una bruciante componente emotiva, identificativa e aggregante, dall’indole ostinatamente e squisitamente nazionalpopolare”; del populismo che non ha lasciato scampo nemmeno al mondo del vino, trovando “terreno fertile” nella “componente emotiva della nostra bevanda preferita”, e che sostituisce le conoscenze con le credenze.

Si esprime poi, tagliente come una lama, sulla “delegittimazione della figura del giornalista” – ma questo si può riscontrare anche in altri campi, su tutti quello dell’arte e della letteratura – , visto “nel migliore dei casi come orpello” tra produttori e consumatori, quando in realtà questa figura di mediazione è fondamentale per l’opinione pubblica, e per l’appassionato in particolare. “Un buon giornalista del vino serve a fare in modo che il lettore/assaggiatore” possa farsi la propria opinione sul mondo del vino”.

E ancora: definizione di “terroirs”; analisi dettagliata del termine “minerale” nel vino (“la mineralità come espressione diretta del suolo” è la “teoria più fantasiosa – e non vera”, e una cosa certa: “la mineralità non è ricollegabile alla chimica del terreno”); non manca nemmeno una brevissima storia del consumo del vino, da Alcibiade, ai romani, a Paolo apostolo (vino come rito).

In conclusione, non si dimentichi: il vino è cultura, intesa come “effetto di manipolazione della natura”, è “sempre atto comunicativo”; il vino ha la capacità di far dire il “non-detto, finanche l’indicibile”, dandone un significato concreto. Rileggere in chiave semiotica la degustazione del vino è un’idea conturbante, che provoca grande attrazione quanto terrore. E tuttavia Annibali ce la fa passare come un’esperienza piacevole.

Damiano Perini