SE BOSCH RIVIVE IN CHIAVE CONTEMPORANEA GRAZIE A UN ARTISTA BRESCIANO. Sulla mostra a Palazzo Reale e sulla visita nello studio di Alessandro Fusari, in arte Alfi

Bosch a Palazzo Reale.

Jheronimus Bosch (1453 – 1516) era evidentemente in contatto diretto con l’Aldilà, con qualche spirito o demone, se non addirittura con Dio stesso o con Mefistofele. E lo capisco visitando la mostra a lui dedicata ora in atto a Palazzo reale di Milano, curata da Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi, dal titolo inequivocabile che tutto dice, “Bosch e un altro Rinascimento”. Guardo tutti quei santi, tutti quei mostri impossibili, quelle scene ricche e infinite, fuori dallo spazio fisico e dal tempo che noi percepiamo: Bosch vedeva diverso, vedeva di più, vedeva oltre.

L’esposizione comincia in medias res, non fai in tempo a immergerti nell’oscurità delle sale che subito tre delle sue opere principali ti si stagliano davanti scoppiettanti come fuochi d’artificio, nati dal genio creativo di un poeta visionario. Il celebre Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio di Lisbona, il Trittico dei santi eremiti di Venezia e le Meditazioni di san Giovanni Battista di Madrid rappresentano i tre perni su cui è costruita l’intera mostra; una mostra basata sui rapporti e gli influssi tra nord e sud dell’Europa, ma anche tra le varie arti. Me lo aspettavo perché di Aikema seguivo le lezioni (“si usa la parola ‘influssi’ e non ‘influenze’; l’influenza è una brutta cosa” – soleva ripetere Aikema nelle sue lezioni), e perché la fortuna dei fiamminghi è grazie soprattutto all’Italia e ai rapporti commerciali con la Toscana dei banchieri (una passeggiata agli Uffizi lo può confermare).

Il titolo allude proprio a questo: il “fenomeno Bosch”, come lo chiamano i curatori, non inizia dalle Fiandre, ma dal mondo mediterraneo (ossia Spagna e Italia) del Cinquecento; un tempo in cui il Classicismo Rinascimentale (Tiziano l’esempio in mostra) dominava il gusto generale. Il Rinascimento “Altro” cui si richiama l’attenzione, dunque, è proprio quello di Bosch e del “linguaggio boschiano” sviluppatosi in seguito. Un “Davide contro Golia” che ha generato molti e insospettabili seguaci, committenti, collezionisti (il cardinale Domenico Grimani ne andava matto, sue alcune opere oggi a Venezia) e appassionati, che i curatori hanno fatto capire molto bene. Forse troppo. È una mostra in cui domina l’horror vacui, non solo all’interno delle opere esposte (apocalissi, inferni, riti magici, demoni,…), ma anche per la quantità di opere e documenti). Il gusto della grottesca prevale in alcune sale successive. Oltre alle tavole sono presenti rari e immensi arazzi (status symbol dell’élite dell’epoca), stampe, illustrazioni, lesene. Opere e autori di spicco: Pieter Brueghel il Vecchio, il Francesco Colonna dell’Hypnerotomachia Poliphili e quindi le illustrazioni di questo, Dürer, Garofalo, Martin Schongauer, Arcimboldo.

E simulazioni di Wunderkammer. Mirabilia, naturalia, curiosità e gli oggetti più vari, infatti, e questo lo si comprende bene, rappresentano un dato imprescindibile per le scene di Bosch. È l’inconscio che si presenta. Uccelli rappresentati precisamente e sproporzionati rispetto alle figure umana, oppure strumenti musicali impressi in un contesto paesaggistico fuori luogo, ne fanno del pittore un surrealista ante litteram a tutti gli effetti. Non solo, perché la costruzione delle sue bestie e dei suoi mostri sono un ready-made dadaista in piena regola. Certo domina l’orrore, lo stravagante e il grottesco; ma perché no anche un po’ di provocazione?

Il linguaggio di Bosch è limpido eppure difficilissimo, dove il fantastico si lega al mondo onirico, l’immaginifico al visionario, pervaso da lucide allucinazioni. È la realtà quotidiana che vive sotto forme di sogno e incubo insieme, dove emergono ossessioni e scherzi, vizi e paradossi. In luoghi terribili e favolistici compaiono e scompaiono mostri e mostriciattoli. Un vero e proprio bestiario, un “Bestiario Boschiano” caratteristico che la mostra ha il merito di aver analizzato e catalogato, dedicandone una parte (una tra le più belle).

Bosch, Hieronymus (c. 1450-1516): The Temptations of Saint Anthony, 1510-1515 Madrid Prado

La vita di tutti i giorni si mostra in forme grottesche e inquietanti, è trasformata, e gli attori sono dei personaggi ibridi, deformi, scomposti; i quali vivono situazioni stravolte e illogiche. Cosa ci fanno quelle figure ingenue e nude che paiono anche pure, insieme a quelle figure crudeli e terribili? Va da sé che questo vale per tutte le opere presenti in mostra di Bosch; eppure ognuna di essa è un mondo a se stante.

Questi rappresentano una fittissima rete di simboli, un simbolismo fitto i cui rimandi non sembrano finire mai, specialmente nelle opere che trattano scene infernali e apocalittiche. Si resta sempre sorpresi di fronte a queste opere, i dettagli si susseguono, uno sguardo ne chiama un altro e un altro ancora, e poi ecco lì, lo hai guardato millanta volte l’opera ma hai scoperto un particolare nuovo che non avevi mai visto. La lettura di questi dipinti può essere svolta a più livelli (satirica, religiosa, moralistica), e a questa pluralità semantica ne consegue una gamma vastissima di interpretazioni del suo fantastico, che dipendono dalle diverse tradizioni.

Bosch è un pittore dalla doppia faccia, perché è tanto bizzarro e inusuale quanto stregone e profeta; e da questa ambiguità ne deriva la sua immortalità. Lo spirito di Jheronimus Bosch ha sempre occupato il suo angolino nella storia dell’arte, e la mostra lo di-mostra, appunto. Nel corso dei secoli Bosch e il “linguaggio boschiano” non è mai venuto meno. E vive tutt’ora tra noi.

Alfi, ossia Alessandro Fusari.

Conosco Alessandro Fusari, in arte Alfi, per caso. Due sue opere appese in una confusa quanto eterogenea sala di un jazz bar mi bastano per riconoscerne il talento, la qualità tecnica, la visionarietà, la capacità di trasmettere a quelle forme e a quei colori la vita. So che farei bene a andare a trovarlo, e così faccio.

Alfi nel suo studio di Brescia

Alfi mi accoglie nel suo studio tutto indaffarato, ma cordiale e ospitale. Mi apre la porta ma il suo sguardo non va a me, è ancora sulla sua opera, inedita, che sta ultimando; il quadro è già comprato mi dice, ma la sua riproduzione comparirà sull’etichetta di un lotto a edizione limitata di uno degli amari bresciani più famosi e amati. Sono fortunato quindi, perché vedo pure una anteprima che farà successo.

Lo studio è un arioso garage appena fuori dal centro di Brescia, in cui dominano colori e forme apparentemente – apparentemente – divertenti. Grande è la mia sorpresa di fronte a questa galleria d’autore, a questa esposizione monografica. Tutto mi sembra vivere, e allora chiedo da dove nascano queste opere.  Alessandro Alfi si forma al I.I.S.S. Camillo Golgi della stessa città come grafico pubblicitario. E questo lo si nota subito dalla chiarezze delle forme, dalla precisione del disegno, dall’invenzione scenica (c’è molto di graffitismo, di post-moderno, di street art). Un taccuino che mi mostra ne è la prova definitiva: inchiostri e chine e zero sbavature, limpidezza e stravaganza sono le considerazioni che ne ricavo.

Ma mi manca ancora un pezzetto. Come me li spiego tutti quegli esseri animati come da una strana forza endogena, parlanti, schiamazzanti a tratti assordanti, irrequieti e ansiogeni? Alessandro Fusari, mi confessa, senza retorica né enfasi né commozione, comincia a dipingere nel 2012 a seguito di una malattia molto grave, a cui sorprendentemente si è ripreso molto bene. Il successo è immediato, prosegue, “ la mia prima personale è stata a New York; da lì in poi un successo incredibile. È il karma che gira”.

Da questa malattia ne deriva un mondo folle e parallelo al nostro, un mondo di mostri e mostriciattoli, in cui convivono l’inquietante e lo stravagante, l’ironia e il dolore. Mi spiega che ultimamente si dà anche agli Nft, che vanno molto. Ma dove meglio sa esprimersi Alfi è nei quadri di medio e grande formato in cui tanti esseri, forse proprio il quotidiano, la natura umana sotto forme bizzarre e orribili insomma, convivono in scenari angoscianti. Un horror vacui intenso e profondo e uroborico, che non si conclude e anzi si rigenera ogni volta. Quadri che sono mondi, che sono vita.

È una pittura che colpisce subito quella di Alfi anche per la sua natura ossimorica. I colori spesso solari, caldi e vivaci sono il ponte verso contesti oscuri, enigmatici; le figure che ci sguazzano, apparentemente simpatiche e buffe, a uno sguardo più attento si rivelano macabre e atroci.

Di tutti questi esserini ne estraggo un bestiario, un “Bestiario Alfiano”. I Setoli, ossia i vermiciattoli, sono quasi onnipresenti; “sono super sensibili” mi dice. Rappresentano forse il temperamento, e la fragilità, la capacità di assorbire gli choc (di ricordo baudelairiano) della vita. C’è Fantasnino, un piccolo esserino venuto da chissà quale pianeta, il proteiforme Rebelot, essere ibrido che ricorda i carri delle Tentazioni di Sant’Antonio di Dalì e gli AT-AT di Star Wars. E poi arti mozzati o addentati, carcasse che si sciolgono, si macerano, si contorcono, si deteriorano; insomma, personaggi che soffrono o fanno soffrire. E poi il Bunga, l’immagine più iconica e identificativa di Alfi.

Alfi, street art in Via Lattanzio Gambara, Brescia

L’arte di Alfi, così come a me pare, viene da lontano eppure è perfettamente contemporanea e allineata al nostro tempo; tanti e diversi sono gli stili a cui si avvicina, e tanti i rimandi che se ne traggono, eppure il suo linguaggio è unico e immediatamente distinguibile.

C’è naturalmente dietro tutto questo un esatto e rigoroso simbolismo, che Alfi non manca di enunciarmi. È una rappresentazione della realtà sotto mentite spoglie, estremizzata e allegorica. Ecco perché sbaglia Nicole di The Fashion Bloggart, una delle sue curatrici, scrivendo nel suo blog come l’arte di Alfi le ricordi “le margherite kawaii di Takashi Murakami, nonché le rivisitazioni micropop di Tomoko Nagao”. Il Superflat, questa corrente – se così la si vuole chiamare – a cui allude Nicole, e di cui Murakami ne è il membro più conosciuto, è un’arte puramente superficiale e di superficie, in cui l’elemento decorativo e ornamentale prevale, anzi ne è addirittura il soggetto. Non ci sono rimandi, simbolismo; è tutto tranne che profondità, anzi è leggerezza, colori sgargianti, apparenza. Tutto all’opposto di Alfi.

Alessandro Fusari deriva dalla grafica, la sua ironia paradossale e inquietante richiama quella del tedesco André Butzer, le sue scene entrano in una sfera tipicamente graffitista, in particolare quella di Basquiat, i colori sono della pop, la sua è street art su tela. Va di pari passo con le serie animate più brillanti di stampo surrealista e filosofico (una su tutte: The Midnight Gospel, creata da Duncan Trussell e Pendleton Ward).

Non bisogna scordarsi dell’inizio prettamente materico (Sottoderma) e ispirato a Alberto Burri, sua grande guida, e primo sfogo dopo la malattia (mi parla di colore siringato, materia pittorica battuta e lacerata); e dell’arte infantile ispirata a un parente disabile (gioioso e commovente il dipinto intitolato Papao). Certo, se si vuole, qualcosa c’entra con la game art degli inizi (il Bunga richiama il protagonista di Bubble Ghost, giochino per il game boy; i Setoli i vermi di Worms), e con il Superflat ha in comune l’horror vacui e i colori squillanti. Suggestioni, nulla più.

Il simbolismo è però pregante, e questi quadri sono un viaggio lisergico, oltre che monito efficacissimo. E se Alfi ha un’origine, questa la si trova in Jheronimus Bosch.

Da Bosch a Alfi il viaggio è lungo. Cinque secoli in cui mi limito a menzionare solo il nome di Faustino Bocchi (1659 – 1741), un pittore bresciano poco conosciuto, l’autore delle bambocciate tra nani: quadri grotteschi e enigmatici in cui il linguaggio boschiano è riconoscibilissimo.

Faustino Bocchi, Caccia al Pulcino (Brescia, Tosio Martinengo)

L’anima boschiana si svolge come un filo rosso nel corso del tempo. Si prenda a esempio queste due opere attribuite alla Bottega di Bosch, La visione di Tundalo e Discesa di Cristo al Limbo (qua soffermandosi sul particolare del mangiatore in secondo piano, e lo si paragoni a quest’altre due opere di Alfi, Restart del 2020 e L’ingordo del 2019.

Luoghi assurdi e impossibili, un horror vacui di mostri e mostriciattoli, colorati e bizzarri, un tripudio stravagante e continuo di dolore, passioni e gioie e sofferenze. E del resto, questa è la vita.

Damiano Perini

 

(Un’ultima piccolissima parentesi. Dove rivive ancora Bosch ai nostri tempi? Horror vacui, mostriciattoli accattivanti e bislacchi, scene divertenti e inquietanti, e altri rimembranze boschiane le ritrovo in un artista pavese, grafico pure lui. Un illustratore che lavora in bianco e nero, preciso e certosino. Si chiama Simone Verdi, e prima o poi ne dovrò parlare)

Simone Verdi, 2023

L’ATTITUDINE CREATIVA DI MAX ERNST È UN ELOGIO DELLA VITA, OLTRE CHE DELL’ARTE. Sulla retrospettiva a Palazzo Reale

L’attitudine creativa di Max Ernst – versatile, pluriforme, esaltata e esaltante – è un elogio della vita, oltre che dell’arte nella sua accezione più felice e totale. E me ne accorgo solo ora, visitando la mostra a Palazzo Reale di Milano, curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech (dal 4 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023).

Di Ernst (1891-1976) ne sapevo poco, e poco in genere se ne parla di questo super-eclettico e sperimentatore delle Avanguardie artistiche di inizio Novecento. A lui potrei accostare solo Carlo Carrà, forse pochissimi altri; di mostre a lui se ne sono dedicate poche, nei libri di storia dell’arte si dà uno spazio da comparsa, il nome chissà perché non ha un appeal clamoroso.  La mostra che visito però, al contempo filologica, esatta e divertentissima, me lo fa vedere sotto una luce nuova, che è la luce degli artisti illuminati, degli apripista, dei numeri uno, dunque dei classici contemporanei.

Merito innanzitutto dei curatori, certamente, in grado di mettere insieme una quantità immensa di opere che comprendono tutta la sua immensa varietà di temi e tecniche, in quella che è la prima retrospettiva in Italia su Max Ernst (il che mi fa pensare a quanto sia fortunato a visitarla).

Ernst è pittore, scultore, disegnatore, grafico, poeta, amante delle belle donne; con opere riconoscibilissime e personali si confronta con il Dadaismo, il Surrealismo, il Romanticismo (specie quello tedesco), la Patafisica. Trasforma il banale in poesia attraverso tecniche semplicissime (ma che in lui acquistano qualcosa di magico) come la sovrapittura, il collage, il frottage (da lui inventato), il grattage, la decalcomania, l’oscillazione (tecnica che anticipa il dripping di Pollock), l’illustrazione di racconti quando non veri e propri racconti illustrati.

È una persona colta, dotata di interessi numerosi, e ciò si evince dai temi trattati nelle sue opere, che vanno dalla poesia, alla letteratura alla filosofia, dall’alchimia alle scienze naturali, all’astrologia e astonomia; svariati e onnipresenti sono i richiami all’intero mondo della cultura e al mondo interiore.

E tutto è ancora più straordinario quando si scopre che è Ernst è autodidatta, ossia non frequenta nella sua vita nessuna scuola d’arte.

Secondo i curatori , questo “filosofo-pittore” inaugura “una nuova arte del vedere”, mediante una raffinata dialettica dove “il suo universo sfida di continuo la percezione tra stupore e meraviglia, combinando logica e armonia formale con enigmi impenetrabili, mentre arte e natura, bellezza e bizzarria coesistono magicamente”. Di lui, in una maniera molto dada dirà che “i suoi occhi bevono tutto quello che si presenta nel suo cono visivo”…  B-e-v-o-n-o! questo bellissimo verbo (che esprime voracità, necessità, sensualità, insomma: vita; insomma: tutto) messo in rapporto al vedere è qualcosa che mette i brividi.

E è una premessa imprescindibile alla visita di questa mostra.

Seguendo un ordine cronologico (filologia) si suddivide in nove stanze: ognuna di queste “diventa un palcoscenico della visione” (divertimento). Quindi nelle prime sale si ha a che fare con la formazione dell’artista, disegni algidi e meccanici che richiamano Picabia, collage portentosi, e la fondamentale adesione a un mondo metafisico, seguito alla scoperta di de Chirico sulla rivista Valori Plastici. Nella sala succissiva si nota come Ernst abbia abbracciato, o meglio “bevuto”, tornando al caro verbo, la lezione dei futuristi e in particolare dell’arte totale; nelle tele predisposte per la casa del suo amico Paul Éluard, mediante una pittura lieve e soffusa, si apre un mondo naturale, tanto fiabesco e giocoso da anticipare le illustrazione per l’infanzia dei nostri giorni.

Lo spazio seguente è dedicata all’eros. È una ambiente oscuro, dai temi profondi e cifrati, dai richiami lontani, archetipici. Anche la pittura si fa ombrosa, misteriosa, misterica. E prosegue su questa linea alchemica anche nelle sale successive, seppur i temi non sono più l’eros bensì la natura, o meglio la Natura, nel lato più nascosto, indicibile e infinito che possiede. Qui il frottage trova la miglior espressione e, anche grazie all’allestimento enciclopedico e dall’effetto stupefacente (una intera parete è pervasa di questi fogli), credo sia la parte migliore della mostra.

Dal frottage alla pareidolia. Ernst, sulla scorta di Leonardo da Vinci, intuisce una potenzialità nell’informe: dalla macchia può nascere qualcosa, e quel qualcosa può essere tutto e anzi lo è essendo le facoltà dell’osservatore infinite. Sono opere, quelle che si scorgono in queste sale, in cui lo sguardo interiore (tanto caro all’artista) giunge a esprimersi nelle strutture del visibile, o viceversa “il paesaggio esteriore rivela corrispondenze con la dimensione interiore nel senso proprio del romanticismo”, in una natura “selvaggia, primordiale, predatrice”.

Ma, come scrivono i curatori, “tutta l’opera di Ernst è un invito a vedere”.

E più si guardano, si scrutano queste opere, più si entra in contatto con loro, più si entra in quei singolari mondi più si ha voglia di scoprire, capire, sapere. Sono opere che coinvolgono, non solo per i temi, ma anche per la loro bellezza, originalità e sapienza.

Passando davanti ai capolavori (quelli sì, conosciutissimi)  come la Pietà o La Rivoluzione la notte, o L’Angelo del focolare, si arriva come a coronamento di questa lunga, ghiotta e complessa visione nella sala in cui il fascino dell’ignoto incontra l’abisso del segreto cosmico. Nell’ultima sala i curatori allestiscono una magico apparato dedicato al cosmo e alle scritture segrete. È un mistero: il cielo stellato assume forme di crittografia, di lettere disseminate in un modo apparentemente casuale ma che segue evidentemente una logica. Oppure no; sono quei codici che aprono alle costellazioni.

Il microcosmo è in relazione al macrocosmo, l’immagine alla scrittura, la terra all’universo: la conciliazione degli opposti è avvenuta, l’opera di Ernst si è fusa con il tutto; e noi con essa.

Damiano Perini

LA MALIA INSPIEGABILE DELLA PITTURA DI GNOLI. La retrospettiva concepita da Germano Celant presso la Fondazione Prada

Respiro in modo lento e disteso, tranquillo, all’interno del Podium della Fondazione Prada, sede della recente, perfetta, esemplare retrospettiva dedicata a Domenico Gnoli. L’atmosfera è calma e pacata, vige una totale distensione, i miei sensi sono assuefatti da tanto relax; tutto è immobile, come sospeso in una realtà altra rispetto all’ambiente esterno di Milano. Persino gli altri visitatori mi sembrano immobili e sereni come bonzi in contemplazione.

È certo merito dell’allestimento della mostra, progettato dallo studio 2×4 di New York (mi sembra necessario segnalarlo), il quale basando su una rigida e ordinata serie di pareti, tracciano delle prospettive lineari. Risultato: 1) una sequenza regolare di opere suddivise per temi, il cui occhio vaga senza mai stancarsi, e 2) possibilità di osservare la mostra nell’insieme (la varie texture degli oggetti ingigantiti, dipinti da Gnoli, fanno particolare effetto se visti da lontano) e dettagliatamente uno per uno (idem, da vicino). Ma è merito, soprattutto, delle opere esposte, lavori di finissima e raffinata tecnica quanto di inventiva.

Figlio d’arte (“mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile”, dichiara nel 1965), Domenico riceve una rigorosa quanto variegata formazione artistica, che lo porterà a diversi impieghi nel campo (disegnatore, illustratore, incisore, scenografo, pittore). Persona colta, dalla vita brillante e prodigiosa, purtroppo breve, bruciante (“una meteora” lo definì Sebastiano Grasso) a 18 anni già è artista comunemente riconosciuto, e poco più tardi consacrato – muore a 37 anni, come Raffaello, Parmigianino, Van Gogh.

Nel Podium della Fondazione è possibile osservare tutta la suo opera, o quasi: dai capolavori dell’ultimo periodo, cioè gli ingrandimenti di oggetti, dipinti a partire dagli anni ’60, al piano terra; al piano più sopra invece è possibile prendere in esame tutti i suoi lavori come disegnatore, sceneggiatore, illustratore e incisore, e così capacitarsi del suo amore per il teatro.

Chissà perché mi affascina tanto, Gnoli, nonostante tanta semplicità, essenzialità, purezza. È un passeggio estatico quello accanto a questi ormai celebri dipinti, in cui l’oggetto, o meglio una piccola parte di un oggetto diventa il soggetto; non posso non restare incantato mentre guardo questo micromondo ingrandito, monumentale. E che senso di quiete trasmettono queste opere!

L’autore mi sta simpatico, pure: per l’occasione leggo i suoi scritti, e oltre a trovarlo brillante e acculturato, lo scopro dotato di fine autoironia oltreché ricco di battute di spirito.

I temi di Gnoli sono presi dal quotidiano, sono oggetti di tutti i giorni, accessori secondari, quali orologi, scarpe, divani, tessuti, letti, sofà, muri; colletti di camicia, asole, bottoni, addirittura il telaio retrostante di un quadro, forse proprio di quello (bellissimo gioco in stile Magritte). E poi capelli: tanti, tantissimi, lucidissimi e bellissimi (scusate i superlativi, ma sono dovuti) capelli.

Domenico Gnoli è famoso per la sua tecnica particolare che sfrutta l’acrilico misto a sabbia. Ne conseguono due effetti al contempo, ottico e materico. È, quindi, da un lato un perdersi continuo nell’ipnotico saliscendi della texture del tessuto di questi oggetti inanimati; dall’altra, intuisco il dialogo tra pittura e scultura per le forme plastiche accentuate (mi riferisco in particolare alla serie dei Dormienti) – e materico in Gnoli significa antichizzante, affidando alla materia dipinta il ruolo di trompe-l’oeil, come lui stesso ammette.

Questo zoom e conseguente taglio di tutto ciò che concerne il sedicente contesto attorno, questo isolamento insomma, provoca spaesamento e senso di agio allo stesso tempo. Il suo modo di rappresentare asettico e clinico, non so come ma produce un senso di attesa e di sospensione. Di “silenzi” e “assenze” parla lo stesso Gnoli in qualche scritto, e non posso che quotarlo.

Quello di Gnoli è un “guardare, in un’accezione di estrema limpidezza, inusitato rigore e algido straniamento.” Il suo occhio non si limita solo a selezionare, ma “compie un incredibile blow up portando gli oggetti, o parti di essi, a un ingrandimento tale da renderci, di rimbalzo, dei veri e propri lillipuziani”, scrive Roberto Pasini.

Le opere per cui è noto sono ambivalenti, al limite – sottile – tra iperrealismo e astrazione (si guardino a esempio il tessuto di Bouton, 1967: è una rappresentazione esatta della trama, oppure un gioco di colori e luce in stile Vasarely, e quindi Op Art?). Sicuro non è mai appartenuto a quella “natura informale che allora dominata tirannicamente pittori e amatori” , per dirla con l’artista. “Io isolo e rappresento”, dice. Stop.

I primi piani sono dilatati ma non esaltati, manipolati, animati; ovunque impassibilità e ineloquenza, con uno spiccato gusto, però, evocativo: il dettaglio rivela quello che l’insieme cela, e i vuoti devono essere riempiti con l’immaginazione (Settis parla di un “teatro di assenze”, mentre Achille Bonito Oliva avverte un “distaccato erotismo”). Sono continue allusione, preparano il campo alla mente che, a suo piacere, è chiamata a ricostruire il circostante.

E non chiamatela nemmeno Pop Art. L’arte di Gnoli, in particolare quella a partire dal 1963, si differenzia nettamente dalla Pop per questioni di contenuto, tra cui il totale disinteresse al mondo merceologico. Seppur sia grazie a questa – come ammette anche lo stesso Gnoli – che la sua arte sarà rivalutata con altri occhi, e esaltata dalla critica (dapprima americana).

Domenico Gnoli origina dalla Metafisica; fa rinascere in altre forme la fissità e l’immobilità del Quattrocento italiano, in particolare di Piero della Francesca. Gnoli, con il silenzio e la sospensione di quelle realtà atemporali e  frammentate, prosegue imperterrito, e forse inconsapevole, la magia del Realismo Magico.

Scorro allora in rassegna le opere una a una di questa mostra, e, pervaso da una pace interiore che non mi aspettavo, mi lascio cullare col sorriso da questo incanto, da questa malìa inspiegabile, e troppo bella per farsi futili domande.

Damiano Perini

 

(La mostra riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Inaugurata il 28 ottobre 2021, sarà possibile visitarla fino al 27 febbraio 2022.)

 

Bibl.: W. Guadagnini (curatore), Domenico Gnoli, catalogo della mostra, Silvana editoriale, 2001 (con testi di W. Guadagnini e A. Bonito Oliva); D. Gnoli, Lettere e scritti, a cura di W. Guadagnini Abscondita, 2004; R. Pasini, Vedere e guardare, QuiEdit, 2015; G. Celant (curatore), Domenico Gnoli, Fondazione Prada, 2021.

I PAESAGGI AL CONTEMPO REALI E IMMAGINIFICI DI TULLIO PERICOLI. Sulla mostra monografica a Palazzo Reale di Milano

Ci  sono mostre in cui l’ambiente circostante, all’interno delle sale espositive dedicate, è già preludio alla mostra stessa. Così è per Frammenti, la retrospettiva dedicata a Tullio Pericoli, curata da Michele Bonuomo in collaborazione con l’artista medesimo, presso Palazzo Reale di Milano (dal 13 ottobre 2021 al 9 gennaio 2022).

C’è molta confusione nelle sale attigue – strabordanti di figure molteplici e bizzarre in estasi per la solita, dozzinale mostra di Monet. La personale di Tullio Pericoli invece, che ha sede in raffinate e deliziose stanze tappezzate di colori suggestivi, ospita visitatori rarefatti, e quei pochi che incontro sono persone distinte e a giudicare così a occhio sono tutti competenti, o comunque lodevolmente appassionati.

Tullio Pericoli, “Frammenti”, Palazzo Reale Milano

Del resto, un abile quanto criptico artista quale Pericoli – illustratore, ritrattista, paesaggista, informale, scrittore, e non so quale altra etichetta potergli riconoscere – non credo attragga la qualunque, anche se è apprezzatissimo dalla critica, e bene conosciuto tra quelli che la cultura un po’ la masticano.

È marchigiano di nascita, e dagli anni Sessanta vive e lavora a Milano. L’origine però della sua terra non l’ha mai dimenticata, e questo è lampante dalle opere esposte in mostra. Infatti, dichiara Tullio Pericoli: “li dipingo [i paesaggi] anche per ricordare che non ci si può e non ci si deve liberare della memoria, per seguire una storia che strato sotto strato si snoda per tempi infiniti.”

Tullio Pericoli, “Frammenti”, Palazzo Reale Milano

Pur non riducendosi a mero paesaggista, tuttavia, ha saputo affrontare i lati della natura umana attraverso figure di spicco della cultura italiana e internazionale. “Nella sua lunga pratica di pittura”, scrive il curatore Bonuomo, “si è immedesimato nel paesaggio naturale o in quello di un volto umano, suoi alter ego, muovendosi con disinvolta sprezzatura tra minuscolo e immenso nel tracciare e annotare ‘vedute’ autobiografiche.”

La mostra.

Mi immergo passeggiando per le vie di campagna e i tratturi perfettamente riconoscibili di queste opere evocative, tutte dal fondo bianco eppure straordinariamente variopinte. Luoghi ancestrali e sempiterni, appartenenti alla mente oltre che alla storia, questi paesaggi sembrano dipinti con una particolarissima tecnica mnemonica.

Faccio fatica a contestualizzare Tullio Pericoli: qua un’eco di grafismo,  là reminiscenze dell’astrattismo kandinskjano; ma la sua opera è percettibilmente figurativa, il paesaggio raffigurato pare sì che evapori da un momento all’altro, eppure è nitidissimo. Prevale il nero, stentano i colori; ma questi, quei pochi tratti utilizzati, sono vivi, accecanti.

Paesaggi sospesi nel tempo, immobili, dove nulla accade ma tutto succede. La prospettiva è tutta di Tullio Pericoli, e non credo abbia precedenti nella storia dell’arte: ci vedo un misto di Jacopo de’ Barbari (e quindi un’origine matematica), di Pieter Bruegel (e dunque un’origine mistica), di Giulio D’Anna, di “aeropittura” futurista (e quindi fantasiosa). Le diverse prospettive, ossia le vedute da più punti, si incrociano, delirano.  Il panorama è lucidamente distorto: vedo l’orizzonte, e allo stesso tempo le coltivazioni in tralice.

Pericoli, almeno per come lo vedo, unisce il linguaggio infantile (che so, Paul Klee, Cy Twombly) a quello articolato e matematico dei progettisti e cartografi; fonde la fantasia alla geografia, il mondo onirico con quello reale. I luoghi tangibili diventano immaginifici (o viceversa?).

Tullio Pericoli, “Frammenti”, Palazzo Reale Milano

Guardo i paesaggi di Pericoli e respiro la nebbia diffusa su quei campi,  percepisco di rado il vento che soffia, il contadino che, chissà quando, ora o forse mai, sta per sbucare dall’orizzonte. Il soggetto è il medesimo, ma il modo per arrivare a esso è diversissimo. Incredibile la differenza tra opera e opera, dai dettagli alla tecnica: una infinita variazione sul tema.

Faccio caso all’allestimento, meticoloso anche se semplicissimo. In qualche sala sono disposte delle seggiole, che per una volta sono pure comode, molto comode. Scorgo una chicca: i quadri con tinte rossastre sono nella sala tappezzata di rosso, quelli con tinte blu nella sala tappezzata in blu. Dettagli, ma non trascurabili.

Tullio Pericoli, “Frammenti”, Palazzo Reale Milano – Ritratto di Roberto Calasso

In mostra prevalgono i paesaggi, o vedute; ma sono presenti anche dilettevoli e gustosi acquerelli. Datati anni Ottanta, sono sogni ambientati in luoghi incantati e rarefatti, tenui e pulviscolari. Dimostrando l’uso magistrale della tecnica, Pericoli rappresenta invenzioni giocose, meccanismi impossibili in atmosfere suffuse e oniriche. Chiude la mostra la sala dei ritratti, dove non posso non citare – salutando con ossequio – Roberto Calasso.

D.P.

POSSA IL “SILENZIO ASSORDANTE” DELLE OPERE LEGATE AL REALISMO MAGICO COLMARE, ANCHE PER UN ISTANTE, MILANO

Un giorno di pioggia leggera e nebbiolina a Milano è un piacevole pretesto per fare molte cose. C’è chi passa la mattina in un caffè, chi passeggia senza meta sotto l’ombrello, chi dentro e fuori per librerie. Io in questa atmosfera di spleen milanese colgo l’occasione per visitare una mostra. L’umore è adatto, chissà che non ne ricavi pure qualcosa di buono.

Mi porto così passeggiando senza fretta a Palazzo Reale, passando per vetrine in allestimento (è mattina presto) e per una Piazza Duomo godibilmente semi-deserta. Ho grandi aspettative dalla mostra che voglio visitare, Realismo magico. Uno stile italiano (dal 19 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022), sia perché sono un amante del genere, sia perché la cura Valerio Terraroli (insieme a Gabriella Belli, e promossa dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 ORE  Cultura-Gruppo 24 ORE) – professore pignolo e grande conoscitore, di cui ai tempi fui allievo.

Cortile di Palazzo Reale, Milano

Nel cortile di Palazzo Reale la situazione che trovo è tragicomica: lunghissima fila a sinistra per la mostra di Monet (ahinoi), due persone invece – a cui va aggiunto il sottoscritto – in attesa di entrare nelle sale dedicate al Realismo Magico, dall’altro lato. Le condizioni sono quindi delle migliori, poca gente significa spazi più ampi e serenità d’animo, visibilità più prolungata e soprattutto in santa pace. Mi perderò gli esperti della domenica, i pittoreschi gruppi scolareschi, gli ancor più pittoreschi gruppi di anziani e i loro sapidi commenti, ma pazienza; per quello passerò al Cenacolo più tardi, o andrò a teatro settimana prossima.

Il clima soffuso della mostra giova alla meditazione, oltre che alla goduria mera delle opere esposte. Da subito mi trovo dinnanzi come d’incanto Le figlie di Loth di Carlo Carrà, opera assoluta, quasi un manifesto dell’intera esposizione: uno “dei punti di partenza del fenomeno del Realismo magico, nella quale convergono, in una composizione sapiente e meditata, i valori della geometria euclidea, il tempo sospeso di matrice metafisica, un racconto bloccato in una composizione arcaicizzante”, scrive in proposito Valerio Terraroli nel pregiato (per il rigore filologico e di documentazione), completo (per le nozioni storiografiche) e eloquente (il professore scrive bene) saggio introduttivo al catalogo.

Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919

In sostanza, “rigore geometrico, tempo sospeso, atmosfere  metafisiche,  forme  arcaiche,  recupero  della  tradizione e dell’antico, nuovo interesse per i valori della pittura, il mistero che emerge attraverso l’ordito della realtà”, sono le caratteristiche comuni dei protagonisti di questo movimento, che va circa dal 1920 al 1935. Questi sono artisti e intellettuali per lo più liberi e senza vincoli di reciproco rapporto, non appartenenti a nessun gruppo (come sarà invece per Novecento di Margherita Sarfatti), e legati al movimento principalmente per sottili affinità di stile e di pensiero.

E grazie a questa mostra ho l’opportunità di vederli insieme, questi maestri. Ci sono i grandi nomi, Giorgio de Chirico,  Carlo Carrà e Gino Severini; ai quali si aggiunge l’autorevole presenza di Felice Casorati, Antonio Donghi e Cagnaccio di San Pietro (i tre “pilastri” del Realismo magico secondo Terraroli). E ancora: Ubaldo Oppi, Achille Funi, Mario e Edita Broglio, Mario Sironi e, citato per ultimo solo per caso, Arturo Martini.

Lentamente le sale ospitano sempre più persone, ma affollate, fortunatamente, non sono mai. Incrocio più  volte, per esempio, un signore bizzarro su con l’età, degnamente vestito e col bastone in mano, che fotografa con una reflex datata ogni singola opera (un buontempone o un flaneur dei nostri tempi?). Un tipo stravagante e iperattivo poi mi chiede divertito di fotografarlo insieme a uno dei quadri esposti, ringraziandomi poi in estasi, confessando di esserne il proprietario. Un clima surreale anche fuori dalle opere, penso.

Flaneur o buontempone? (foto di Carlotta Coppo)

Però me la sto godendo, e quindi vago e giro per questa mostra con un interesse sempre più vivo. Qua e là scorgo tracce di arcaismo quattrocentesco, di neo-giottismo (“mi sento un Giotto dei miei tempi”, scrive Carrà in una lettera del 1915), di atmosfere metafisiche, di reminiscenze Déco, di vaghi sentori cezanniani.  Guardo Mario Sironi e intravedo l’imponenza di Masaccio, Felice Casorati e ne percepisco l’immobilità di Piero della Francesca, Ubaldo Oppi e rivaluto la sospensione di Domenico Veneziano, Cagnaccio e  riammiro la prospettiva di Paolo Uccello… Maestri redivivi, per spazialità e geometria delle forme.

Maestri neo-quattrocenteschi, per così dire. Ma il quattrocento appunto, secondo de Chirico, è il secolo in cui meglio di tutti si può intuire uno “spirito italiano in pittura”. Una “pittura chiara e solida in cui figure e cose appaiono come lavate e purificate e risplendenti di una luce interna.”

E tutto italiano è il movimento del Realismo magico,  che “è un modo di sentire, percepire, leggere e interpretare il contingente, la quotidianità, il qui e ora, il cui medium è una pittura che, opponendosi alle tensioni dinamiche futuriste e alle sensibilità deformanti espressioniste” (Terraroli), mentre il riferimento, cioè il soggetto è lucidamente rappresentato, reale, il contesto in cui è rappresentato è completamente fuorviante e immaginifico, un mondo sospeso e raggelato la cui origine è mentale.

La definizione ossimorica di “realismo magico”, coniata nel 1927, la dobbiamo a Massimo Bontempelli. Lo stesso che ne traccia, teorizzandola, una linea canonica: “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. Piuttosto che di fiaba, abbiamo sete d’avventura.”

I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)
I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)

La curatela della mostra è raffinata e esemplare, dettata forse da un eccesso filologico e storiografico; è una rilettura attualissima, nonché l’occasione di rivalutare una corrente e degli autori non solo perché di alta qualità (vedi Carrà) ma ché sono stati in grado di influire su correnti figurative future. Una lettura facilitata dalla divisione per temi (che ne fa una mostra didattica, ma ben comprensibile):  dal ritratto alla maternità ai bambini, dai nudi femminili e l’eros al paesaggio,  alla  natura  morta,  all’allegoria. La grandiosità della mostra, aggiungo, è quella di incrociare e mettere a confronto il gruppo fittizio dei realisti magici con i destini di “Novecento”, il gruppo milanese creato da Margherita Sarfatti, e con le esperienze estere, come la Nuova Oggettività tedesca.

Una mostra taciturna e immobile, sospesa e misteriosa. Possa il “silenzio assordante” (l’ossimoro è di Terraroli) di queste opere irrompere fuori da Palazzo Reale, e colmare, anche per un istante, Milano.

Damiano Perini

KIM DUPOND HOLDT AL PHOTOFESTIVAL 2021: BENE IL FOTOGRAFO DANESE, DA RIVEDERE LA CURATELA DI ROBERTO MUTTI

Palazzo Castiglioni a Milano è l’edificio che, dopo aver attraversato per il lungo quel angosciante Corso Venezia, mi distende l’animo. Ci voleva una facciata più ridente, morbida e creativa dopo quella lunga serie di finestroni asettici e austeri, timpani, colonnine e altri ninnoli lugubri in stile neoclassico. Sarà per quel simpaticissimo basamento fatto di pietra grezza che imita quasi una falesia rocciosa, per quegli oblò che lì son stati concepiti, quelle grate in ferro battuto sinuose che paiono mosse dal vento. Palazzo Castiglioni è un eccellente esempio di architettura Liberty a Milano, addirittura il “manifesto” di questa (leggo su qualche sito), e ideato dall’architetto Giuseppe Sommaruga agli inizi del Novecento.

Raggiungo questo edificio per la mostra del fotografo Kim Dupond Holdt, curata dal noto critico Roberto Mutti in occasione della sedicesima edizioni di Photofestival. La prima impressione è inquietante: l’edificio è sede di Confcommercio, e quel clima kafkiano di burocrati mi opprime, quel grigiore di stanze e di luci smunte mi spegne l’amor di poiesi, i portinai incravattati salutandomi con un perentorio “cosa cerca?” mi scoraggiano. Però ho fatto tanta strada quindi devo farmi forza.

Palazzo Castiglioni ospita diverse mostre di altri notevoli artisti; tra questi mi ispira parecchio Gabriele Tano e la sua personale Street Work: scatti strappati a azioni umane, tutte svolte su strada. Successivo a questo artista ritrovo, con brutta e strozzata sorpresa, Kim Dupond Holdt.

Dico brutta e strozzata certo non per i suoi lavori. Il fotografo danese infatti presenta una serie di sette dittici, quattordici lavori in tutto, in cui offre al pubblico milanese una epitome mirabile della sua ampia, anche se recente, produzione. Una coppia è dedicata ai tessuti, un sensuale zoom tra le linee fluttuanti di un panno grigio, dove la luce interagisce e crea un effetto conturbante. Due coppie di lavori sono pura geometria, linee rette e spigolose prese direttamente dall’architettura. I restanti otto lavori sono dedicati alla luce e al cromatismo, spesso acceso e folgorante, contrasti plastici che acquietano per un momento il mio fastidio. Molto bene, in sintesi, Dupond Holdt.

Ma queste opere perdono tutta la loro bellezza, tutto il loro significato se il contesto non è adatto. E la mostra di KDH, intitolata La sorpresa della luce e curata da Roberto Mutti, è collocata in un luogo completamente fuorviante.

Le quattordici riproduzioni sono disposte lungo un piccolo corridoio che sta nel mezzo di due scaloni; questi conducono al piano sotterraneo dell’edifico, dove c’è il bar per i dipendenti. Spazio piccolo, aperto e basso, che sa molto di ospedale. Mentre cerco di entrare in simbiosi con le opere, ossia con l’artista, mi giunge in continuazione il vocio degli impiegati incravattati, un sottofondo sonoro irritante in cui ogni tanto traspaiono frasi come “condizione inflazionistica” e altre formule a me incomprensibili.

Condizioni auditive pessime, quindi; e non solo per questo fatico a concentrarmi. Anche le altre regole museografiche/museologiche vengono meno: la luce è collocata al centro della coppia di quadri, ovvero nel punto distaccato delle fotografie, con un effetto distorto su queste. I cartellini con le informazioni sono appese troppo in basso, devo piegarmi eccessivamente facendo di conseguenza molta fatica a leggerle. Volendo, anche i quadri sono posizionati troppo in basso, ma questo dipende dall’altezza limitata dei pannelli (ricoperti con una moquette rosso-sporco non totalmente azzeccata).

Una sedia e un tavolino in ferro battuto (e dal sapore squisitamente Liberty) collocati all’inizio del percorso espositivo, dopo tutto, mi confortano; lì seduto osservo la mostra con sguardo mite, e penso a dove andrò a fare aperitivo.

Luciano Cardo