CELEBRARE LA GIORNATA DELLA MEMORIA SENZA RETORICA. L’eloquente mostra al Mart di Arturo Nathan

Il Mart di Rovereto e Trento celebra la Giornata della Memoria senza retorica con una mostra algida, eppure, anzi in virtù di ciò, molto più eloquente di tante chiacchiere a vanvera sul tema. Arturo Nathan. Il contemplatore solitario, è infatti una personale focalizzata sulle opere (e quindi  sulla vita) dell’artista Arturo Nathan, ucciso in un campo di concentramento perché di origine ebraica.

Nathan nasce a Trieste nel 1891, e il suo percorso mi ricorda Kafka, mitteleuropeo e cosmopolita pure lui: il padre, ricco commerciante, lo indirizza verso l’attività di famiglia, ma lui restio sceglie la via opposta. A Genova, spedito dal padre per gli studi economici, si iscrive invece a filosofia.

L’esposizione al Mart (foto dell’autore)

Comincia a dedicarsi alla pittura pressoché da autodidatta solo nel 1919. Fondamentale è l’autorità del suo psicanalista Edoardo Weiss, allievo di Sigmund Freud – al quale si era rivolto per curare una forma depressiva – che gli suggerisce di dedicarsi alla pittura, scorgendo in lui delle capacità potenziali. Nel 1921 apre il suo primo studio cominciando ufficialmente la sua attività di pittore.

Per lui inizia una fase piuttosto serena della sua vita artistica; frequenta l’élite intellettuale triestina, conosce Umberto Saba e Italo Svevo, incontra poi de Chirico, prima a Roma nel 1925 e Milano nel 1930, stringendo un rapporto sincero e duraturo che influisce sulla sue opere.

Un curioso gioco di richiami: il visitatore con la giacca gialla è del tutto casuale (foto dell’autore)

Negli anni tra il 1926 e il 1929 assimila temi e atmosfere del Realismo Magico; tenta, in quegli stessi anni, di partecipare alla I Esposizione del Novecento italiano organizzata a Milano da Margherita Sarfatti. Ma, nonostante il sostegno dell’amico de Chirico, il tentativo fu vano. Le opere dei primi anni Trenta, in cui è palese l’amore per la Metafisica dechirichiana, sono animate da reperti archeologici e personaggi della statuaria classica.

La sospensione che pervade i quadri di Arturo Nathan ha uno stampo malinconico, cupo, accompagnata da una inquietudine esistenziale che raramente si trova in artisti legati alle retroguardie del Novecento. Per Vittorio Sgarbi, ideatore della mostra, “la pittura di Nathan è metafisica in senso diverso da quello del primo de Chirico, con il quale condivide l’ascendenza romantica. Nathan contrappone l’uomo e la natura, il limite della nostra vita e l’infinità della natura”.

Nel 1938, scendo su di lui come una lama l’oblio, il tentativo di una damnatio memoriae si va sempre più concretizzando. Alle politiche di discriminazione razziale imposte dal fascismo consegue la “scomparsa artistica” di Nathan.

Nelle parole della curatrice Alessandra Tiddia: Arturo Nathan “[…] verrà cancellato dalla vita pubblica. Non si potrà più recensire nessuna mostra dove espongono artisti ebrei, la partecipazione costante alle Biennali veneziane verrà interrotta, i suoi quadri al Museo Revoltella confinati in una stanza chiusa insieme a quelli degli altri pittori ebrei: la sua attività di artista proseguirà, nei disegni e in alcuni dipinti, e nella poesia, ma senza nessun riscontro pubblico”.

Nathan soffriva di una forma depressiva, per questo era in visita da uno psicanalista. Proprio grazie a quest’ultimo comincia la sua carriera di pittore (foto dell’autore)

L’ultimo dipinto, intitolato L’Attesa, risale al 1940. In questo quadro si raffigura di spalle rivolto verso un paesaggio al tramonto. Una prolessi. Tre anni più tardi è internato nel campo di prigionia di Carpi; l’anno seguente deportato in Germania prima nel campo di concentramento di Bergen-Belsen poi in quello di Biberach an der Riss. Qui muore, tragicamente, il 25 novembre 1944.

La mostra, curata da Alessandra Tiddia in collaborazione con Alessandro Rosada e la Galleria Torbandena di Trieste, si svolge al Mart di Rovereto e Trento; è stata inaugurata proprio in occasione della commemorazione delle vittime della Shoah, e durerà sino al 1 maggio 2022.

D.P.

POSSA IL “SILENZIO ASSORDANTE” DELLE OPERE LEGATE AL REALISMO MAGICO COLMARE, ANCHE PER UN ISTANTE, MILANO

Un giorno di pioggia leggera e nebbiolina a Milano è un piacevole pretesto per fare molte cose. C’è chi passa la mattina in un caffè, chi passeggia senza meta sotto l’ombrello, chi dentro e fuori per librerie. Io in questa atmosfera di spleen milanese colgo l’occasione per visitare una mostra. L’umore è adatto, chissà che non ne ricavi pure qualcosa di buono.

Mi porto così passeggiando senza fretta a Palazzo Reale, passando per vetrine in allestimento (è mattina presto) e per una Piazza Duomo godibilmente semi-deserta. Ho grandi aspettative dalla mostra che voglio visitare, Realismo magico. Uno stile italiano (dal 19 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022), sia perché sono un amante del genere, sia perché la cura Valerio Terraroli (insieme a Gabriella Belli, e promossa dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 ORE  Cultura-Gruppo 24 ORE) – professore pignolo e grande conoscitore, di cui ai tempi fui allievo.

Cortile di Palazzo Reale, Milano

Nel cortile di Palazzo Reale la situazione che trovo è tragicomica: lunghissima fila a sinistra per la mostra di Monet (ahinoi), due persone invece – a cui va aggiunto il sottoscritto – in attesa di entrare nelle sale dedicate al Realismo Magico, dall’altro lato. Le condizioni sono quindi delle migliori, poca gente significa spazi più ampi e serenità d’animo, visibilità più prolungata e soprattutto in santa pace. Mi perderò gli esperti della domenica, i pittoreschi gruppi scolareschi, gli ancor più pittoreschi gruppi di anziani e i loro sapidi commenti, ma pazienza; per quello passerò al Cenacolo più tardi, o andrò a teatro settimana prossima.

Il clima soffuso della mostra giova alla meditazione, oltre che alla goduria mera delle opere esposte. Da subito mi trovo dinnanzi come d’incanto Le figlie di Loth di Carlo Carrà, opera assoluta, quasi un manifesto dell’intera esposizione: uno “dei punti di partenza del fenomeno del Realismo magico, nella quale convergono, in una composizione sapiente e meditata, i valori della geometria euclidea, il tempo sospeso di matrice metafisica, un racconto bloccato in una composizione arcaicizzante”, scrive in proposito Valerio Terraroli nel pregiato (per il rigore filologico e di documentazione), completo (per le nozioni storiografiche) e eloquente (il professore scrive bene) saggio introduttivo al catalogo.

Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919

In sostanza, “rigore geometrico, tempo sospeso, atmosfere  metafisiche,  forme  arcaiche,  recupero  della  tradizione e dell’antico, nuovo interesse per i valori della pittura, il mistero che emerge attraverso l’ordito della realtà”, sono le caratteristiche comuni dei protagonisti di questo movimento, che va circa dal 1920 al 1935. Questi sono artisti e intellettuali per lo più liberi e senza vincoli di reciproco rapporto, non appartenenti a nessun gruppo (come sarà invece per Novecento di Margherita Sarfatti), e legati al movimento principalmente per sottili affinità di stile e di pensiero.

E grazie a questa mostra ho l’opportunità di vederli insieme, questi maestri. Ci sono i grandi nomi, Giorgio de Chirico,  Carlo Carrà e Gino Severini; ai quali si aggiunge l’autorevole presenza di Felice Casorati, Antonio Donghi e Cagnaccio di San Pietro (i tre “pilastri” del Realismo magico secondo Terraroli). E ancora: Ubaldo Oppi, Achille Funi, Mario e Edita Broglio, Mario Sironi e, citato per ultimo solo per caso, Arturo Martini.

Lentamente le sale ospitano sempre più persone, ma affollate, fortunatamente, non sono mai. Incrocio più  volte, per esempio, un signore bizzarro su con l’età, degnamente vestito e col bastone in mano, che fotografa con una reflex datata ogni singola opera (un buontempone o un flaneur dei nostri tempi?). Un tipo stravagante e iperattivo poi mi chiede divertito di fotografarlo insieme a uno dei quadri esposti, ringraziandomi poi in estasi, confessando di esserne il proprietario. Un clima surreale anche fuori dalle opere, penso.

Flaneur o buontempone? (foto di Carlotta Coppo)

Però me la sto godendo, e quindi vago e giro per questa mostra con un interesse sempre più vivo. Qua e là scorgo tracce di arcaismo quattrocentesco, di neo-giottismo (“mi sento un Giotto dei miei tempi”, scrive Carrà in una lettera del 1915), di atmosfere metafisiche, di reminiscenze Déco, di vaghi sentori cezanniani.  Guardo Mario Sironi e intravedo l’imponenza di Masaccio, Felice Casorati e ne percepisco l’immobilità di Piero della Francesca, Ubaldo Oppi e rivaluto la sospensione di Domenico Veneziano, Cagnaccio e  riammiro la prospettiva di Paolo Uccello… Maestri redivivi, per spazialità e geometria delle forme.

Maestri neo-quattrocenteschi, per così dire. Ma il quattrocento appunto, secondo de Chirico, è il secolo in cui meglio di tutti si può intuire uno “spirito italiano in pittura”. Una “pittura chiara e solida in cui figure e cose appaiono come lavate e purificate e risplendenti di una luce interna.”

E tutto italiano è il movimento del Realismo magico,  che “è un modo di sentire, percepire, leggere e interpretare il contingente, la quotidianità, il qui e ora, il cui medium è una pittura che, opponendosi alle tensioni dinamiche futuriste e alle sensibilità deformanti espressioniste” (Terraroli), mentre il riferimento, cioè il soggetto è lucidamente rappresentato, reale, il contesto in cui è rappresentato è completamente fuorviante e immaginifico, un mondo sospeso e raggelato la cui origine è mentale.

La definizione ossimorica di “realismo magico”, coniata nel 1927, la dobbiamo a Massimo Bontempelli. Lo stesso che ne traccia, teorizzandola, una linea canonica: “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. Piuttosto che di fiaba, abbiamo sete d’avventura.”

I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)
I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)

La curatela della mostra è raffinata e esemplare, dettata forse da un eccesso filologico e storiografico; è una rilettura attualissima, nonché l’occasione di rivalutare una corrente e degli autori non solo perché di alta qualità (vedi Carrà) ma ché sono stati in grado di influire su correnti figurative future. Una lettura facilitata dalla divisione per temi (che ne fa una mostra didattica, ma ben comprensibile):  dal ritratto alla maternità ai bambini, dai nudi femminili e l’eros al paesaggio,  alla  natura  morta,  all’allegoria. La grandiosità della mostra, aggiungo, è quella di incrociare e mettere a confronto il gruppo fittizio dei realisti magici con i destini di “Novecento”, il gruppo milanese creato da Margherita Sarfatti, e con le esperienze estere, come la Nuova Oggettività tedesca.

Una mostra taciturna e immobile, sospesa e misteriosa. Possa il “silenzio assordante” (l’ossimoro è di Terraroli) di queste opere irrompere fuori da Palazzo Reale, e colmare, anche per un istante, Milano.

Damiano Perini