LA MALIA INSPIEGABILE DELLA PITTURA DI GNOLI. La retrospettiva concepita da Germano Celant presso la Fondazione Prada

Respiro in modo lento e disteso, tranquillo, all’interno del Podium della Fondazione Prada, sede della recente, perfetta, esemplare retrospettiva dedicata a Domenico Gnoli. L’atmosfera è calma e pacata, vige una totale distensione, i miei sensi sono assuefatti da tanto relax; tutto è immobile, come sospeso in una realtà altra rispetto all’ambiente esterno di Milano. Persino gli altri visitatori mi sembrano immobili e sereni come bonzi in contemplazione.

È certo merito dell’allestimento della mostra, progettato dallo studio 2×4 di New York (mi sembra necessario segnalarlo), il quale basando su una rigida e ordinata serie di pareti, tracciano delle prospettive lineari. Risultato: 1) una sequenza regolare di opere suddivise per temi, il cui occhio vaga senza mai stancarsi, e 2) possibilità di osservare la mostra nell’insieme (la varie texture degli oggetti ingigantiti, dipinti da Gnoli, fanno particolare effetto se visti da lontano) e dettagliatamente uno per uno (idem, da vicino). Ma è merito, soprattutto, delle opere esposte, lavori di finissima e raffinata tecnica quanto di inventiva.

Figlio d’arte (“mio padre, critico d’arte, mi ha sempre presentato la pittura come l’unica cosa accettabile”, dichiara nel 1965), Domenico riceve una rigorosa quanto variegata formazione artistica, che lo porterà a diversi impieghi nel campo (disegnatore, illustratore, incisore, scenografo, pittore). Persona colta, dalla vita brillante e prodigiosa, purtroppo breve, bruciante (“una meteora” lo definì Sebastiano Grasso) a 18 anni già è artista comunemente riconosciuto, e poco più tardi consacrato – muore a 37 anni, come Raffaello, Parmigianino, Van Gogh.

Nel Podium della Fondazione è possibile osservare tutta la suo opera, o quasi: dai capolavori dell’ultimo periodo, cioè gli ingrandimenti di oggetti, dipinti a partire dagli anni ’60, al piano terra; al piano più sopra invece è possibile prendere in esame tutti i suoi lavori come disegnatore, sceneggiatore, illustratore e incisore, e così capacitarsi del suo amore per il teatro.

Chissà perché mi affascina tanto, Gnoli, nonostante tanta semplicità, essenzialità, purezza. È un passeggio estatico quello accanto a questi ormai celebri dipinti, in cui l’oggetto, o meglio una piccola parte di un oggetto diventa il soggetto; non posso non restare incantato mentre guardo questo micromondo ingrandito, monumentale. E che senso di quiete trasmettono queste opere!

L’autore mi sta simpatico, pure: per l’occasione leggo i suoi scritti, e oltre a trovarlo brillante e acculturato, lo scopro dotato di fine autoironia oltreché ricco di battute di spirito.

I temi di Gnoli sono presi dal quotidiano, sono oggetti di tutti i giorni, accessori secondari, quali orologi, scarpe, divani, tessuti, letti, sofà, muri; colletti di camicia, asole, bottoni, addirittura il telaio retrostante di un quadro, forse proprio di quello (bellissimo gioco in stile Magritte). E poi capelli: tanti, tantissimi, lucidissimi e bellissimi (scusate i superlativi, ma sono dovuti) capelli.

Domenico Gnoli è famoso per la sua tecnica particolare che sfrutta l’acrilico misto a sabbia. Ne conseguono due effetti al contempo, ottico e materico. È, quindi, da un lato un perdersi continuo nell’ipnotico saliscendi della texture del tessuto di questi oggetti inanimati; dall’altra, intuisco il dialogo tra pittura e scultura per le forme plastiche accentuate (mi riferisco in particolare alla serie dei Dormienti) – e materico in Gnoli significa antichizzante, affidando alla materia dipinta il ruolo di trompe-l’oeil, come lui stesso ammette.

Questo zoom e conseguente taglio di tutto ciò che concerne il sedicente contesto attorno, questo isolamento insomma, provoca spaesamento e senso di agio allo stesso tempo. Il suo modo di rappresentare asettico e clinico, non so come ma produce un senso di attesa e di sospensione. Di “silenzi” e “assenze” parla lo stesso Gnoli in qualche scritto, e non posso che quotarlo.

Quello di Gnoli è un “guardare, in un’accezione di estrema limpidezza, inusitato rigore e algido straniamento.” Il suo occhio non si limita solo a selezionare, ma “compie un incredibile blow up portando gli oggetti, o parti di essi, a un ingrandimento tale da renderci, di rimbalzo, dei veri e propri lillipuziani”, scrive Roberto Pasini.

Le opere per cui è noto sono ambivalenti, al limite – sottile – tra iperrealismo e astrazione (si guardino a esempio il tessuto di Bouton, 1967: è una rappresentazione esatta della trama, oppure un gioco di colori e luce in stile Vasarely, e quindi Op Art?). Sicuro non è mai appartenuto a quella “natura informale che allora dominata tirannicamente pittori e amatori” , per dirla con l’artista. “Io isolo e rappresento”, dice. Stop.

I primi piani sono dilatati ma non esaltati, manipolati, animati; ovunque impassibilità e ineloquenza, con uno spiccato gusto, però, evocativo: il dettaglio rivela quello che l’insieme cela, e i vuoti devono essere riempiti con l’immaginazione (Settis parla di un “teatro di assenze”, mentre Achille Bonito Oliva avverte un “distaccato erotismo”). Sono continue allusione, preparano il campo alla mente che, a suo piacere, è chiamata a ricostruire il circostante.

E non chiamatela nemmeno Pop Art. L’arte di Gnoli, in particolare quella a partire dal 1963, si differenzia nettamente dalla Pop per questioni di contenuto, tra cui il totale disinteresse al mondo merceologico. Seppur sia grazie a questa – come ammette anche lo stesso Gnoli – che la sua arte sarà rivalutata con altri occhi, e esaltata dalla critica (dapprima americana).

Domenico Gnoli origina dalla Metafisica; fa rinascere in altre forme la fissità e l’immobilità del Quattrocento italiano, in particolare di Piero della Francesca. Gnoli, con il silenzio e la sospensione di quelle realtà atemporali e  frammentate, prosegue imperterrito, e forse inconsapevole, la magia del Realismo Magico.

Scorro allora in rassegna le opere una a una di questa mostra, e, pervaso da una pace interiore che non mi aspettavo, mi lascio cullare col sorriso da questo incanto, da questa malìa inspiegabile, e troppo bella per farsi futili domande.

Damiano Perini

 

(La mostra riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Inaugurata il 28 ottobre 2021, sarà possibile visitarla fino al 27 febbraio 2022.)

 

Bibl.: W. Guadagnini (curatore), Domenico Gnoli, catalogo della mostra, Silvana editoriale, 2001 (con testi di W. Guadagnini e A. Bonito Oliva); D. Gnoli, Lettere e scritti, a cura di W. Guadagnini Abscondita, 2004; R. Pasini, Vedere e guardare, QuiEdit, 2015; G. Celant (curatore), Domenico Gnoli, Fondazione Prada, 2021.

POSSA IL “SILENZIO ASSORDANTE” DELLE OPERE LEGATE AL REALISMO MAGICO COLMARE, ANCHE PER UN ISTANTE, MILANO

Un giorno di pioggia leggera e nebbiolina a Milano è un piacevole pretesto per fare molte cose. C’è chi passa la mattina in un caffè, chi passeggia senza meta sotto l’ombrello, chi dentro e fuori per librerie. Io in questa atmosfera di spleen milanese colgo l’occasione per visitare una mostra. L’umore è adatto, chissà che non ne ricavi pure qualcosa di buono.

Mi porto così passeggiando senza fretta a Palazzo Reale, passando per vetrine in allestimento (è mattina presto) e per una Piazza Duomo godibilmente semi-deserta. Ho grandi aspettative dalla mostra che voglio visitare, Realismo magico. Uno stile italiano (dal 19 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022), sia perché sono un amante del genere, sia perché la cura Valerio Terraroli (insieme a Gabriella Belli, e promossa dal Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e 24 ORE  Cultura-Gruppo 24 ORE) – professore pignolo e grande conoscitore, di cui ai tempi fui allievo.

Cortile di Palazzo Reale, Milano

Nel cortile di Palazzo Reale la situazione che trovo è tragicomica: lunghissima fila a sinistra per la mostra di Monet (ahinoi), due persone invece – a cui va aggiunto il sottoscritto – in attesa di entrare nelle sale dedicate al Realismo Magico, dall’altro lato. Le condizioni sono quindi delle migliori, poca gente significa spazi più ampi e serenità d’animo, visibilità più prolungata e soprattutto in santa pace. Mi perderò gli esperti della domenica, i pittoreschi gruppi scolareschi, gli ancor più pittoreschi gruppi di anziani e i loro sapidi commenti, ma pazienza; per quello passerò al Cenacolo più tardi, o andrò a teatro settimana prossima.

Il clima soffuso della mostra giova alla meditazione, oltre che alla goduria mera delle opere esposte. Da subito mi trovo dinnanzi come d’incanto Le figlie di Loth di Carlo Carrà, opera assoluta, quasi un manifesto dell’intera esposizione: uno “dei punti di partenza del fenomeno del Realismo magico, nella quale convergono, in una composizione sapiente e meditata, i valori della geometria euclidea, il tempo sospeso di matrice metafisica, un racconto bloccato in una composizione arcaicizzante”, scrive in proposito Valerio Terraroli nel pregiato (per il rigore filologico e di documentazione), completo (per le nozioni storiografiche) e eloquente (il professore scrive bene) saggio introduttivo al catalogo.

Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919

In sostanza, “rigore geometrico, tempo sospeso, atmosfere  metafisiche,  forme  arcaiche,  recupero  della  tradizione e dell’antico, nuovo interesse per i valori della pittura, il mistero che emerge attraverso l’ordito della realtà”, sono le caratteristiche comuni dei protagonisti di questo movimento, che va circa dal 1920 al 1935. Questi sono artisti e intellettuali per lo più liberi e senza vincoli di reciproco rapporto, non appartenenti a nessun gruppo (come sarà invece per Novecento di Margherita Sarfatti), e legati al movimento principalmente per sottili affinità di stile e di pensiero.

E grazie a questa mostra ho l’opportunità di vederli insieme, questi maestri. Ci sono i grandi nomi, Giorgio de Chirico,  Carlo Carrà e Gino Severini; ai quali si aggiunge l’autorevole presenza di Felice Casorati, Antonio Donghi e Cagnaccio di San Pietro (i tre “pilastri” del Realismo magico secondo Terraroli). E ancora: Ubaldo Oppi, Achille Funi, Mario e Edita Broglio, Mario Sironi e, citato per ultimo solo per caso, Arturo Martini.

Lentamente le sale ospitano sempre più persone, ma affollate, fortunatamente, non sono mai. Incrocio più  volte, per esempio, un signore bizzarro su con l’età, degnamente vestito e col bastone in mano, che fotografa con una reflex datata ogni singola opera (un buontempone o un flaneur dei nostri tempi?). Un tipo stravagante e iperattivo poi mi chiede divertito di fotografarlo insieme a uno dei quadri esposti, ringraziandomi poi in estasi, confessando di esserne il proprietario. Un clima surreale anche fuori dalle opere, penso.

Flaneur o buontempone? (foto di Carlotta Coppo)

Però me la sto godendo, e quindi vago e giro per questa mostra con un interesse sempre più vivo. Qua e là scorgo tracce di arcaismo quattrocentesco, di neo-giottismo (“mi sento un Giotto dei miei tempi”, scrive Carrà in una lettera del 1915), di atmosfere metafisiche, di reminiscenze Déco, di vaghi sentori cezanniani.  Guardo Mario Sironi e intravedo l’imponenza di Masaccio, Felice Casorati e ne percepisco l’immobilità di Piero della Francesca, Ubaldo Oppi e rivaluto la sospensione di Domenico Veneziano, Cagnaccio e  riammiro la prospettiva di Paolo Uccello… Maestri redivivi, per spazialità e geometria delle forme.

Maestri neo-quattrocenteschi, per così dire. Ma il quattrocento appunto, secondo de Chirico, è il secolo in cui meglio di tutti si può intuire uno “spirito italiano in pittura”. Una “pittura chiara e solida in cui figure e cose appaiono come lavate e purificate e risplendenti di una luce interna.”

E tutto italiano è il movimento del Realismo magico,  che “è un modo di sentire, percepire, leggere e interpretare il contingente, la quotidianità, il qui e ora, il cui medium è una pittura che, opponendosi alle tensioni dinamiche futuriste e alle sensibilità deformanti espressioniste” (Terraroli), mentre il riferimento, cioè il soggetto è lucidamente rappresentato, reale, il contesto in cui è rappresentato è completamente fuorviante e immaginifico, un mondo sospeso e raggelato la cui origine è mentale.

La definizione ossimorica di “realismo magico”, coniata nel 1927, la dobbiamo a Massimo Bontempelli. Lo stesso che ne traccia, teorizzandola, una linea canonica: “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. Piuttosto che di fiaba, abbiamo sete d’avventura.”

I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)
I curatori Valerio Terraroli e Gabriella Belli (foto di Carlotta Coppo)

La curatela della mostra è raffinata e esemplare, dettata forse da un eccesso filologico e storiografico; è una rilettura attualissima, nonché l’occasione di rivalutare una corrente e degli autori non solo perché di alta qualità (vedi Carrà) ma ché sono stati in grado di influire su correnti figurative future. Una lettura facilitata dalla divisione per temi (che ne fa una mostra didattica, ma ben comprensibile):  dal ritratto alla maternità ai bambini, dai nudi femminili e l’eros al paesaggio,  alla  natura  morta,  all’allegoria. La grandiosità della mostra, aggiungo, è quella di incrociare e mettere a confronto il gruppo fittizio dei realisti magici con i destini di “Novecento”, il gruppo milanese creato da Margherita Sarfatti, e con le esperienze estere, come la Nuova Oggettività tedesca.

Una mostra taciturna e immobile, sospesa e misteriosa. Possa il “silenzio assordante” (l’ossimoro è di Terraroli) di queste opere irrompere fuori da Palazzo Reale, e colmare, anche per un istante, Milano.

Damiano Perini

ALLA BORIA (E AL FINTO PAUPERISMO) DEGLI ARTISTI GIOVANI PREFERISCO L’UMILTÀ (E LA SCHIETTA VENALITÀ) DI SEVERO SCALVINI

Non sono mai andati così d’accordo, l’umiltà e la venalità, come nella figura artistica di Severo Scalvini. Troppi ne vedo e fortunatamente pochi ne conosco di artisti giovani, cosiddetti emergenti, che al primo passo buono, alla prima mostra buona, alle prime tre righe su qualche megazine online o catalogo-mattone buone perdono la testa e si trastullano in un Olimpo (tutto loro, chiaro).

Non mi era mai balzata così nitida l’immagine di questi nuovi giovani (magari anche simpatici) che spavaldi si pavoneggiano con falsa modestia, con sprezzatura scimmiottata, che pitturano o creano arte solo seguendo il loro “sentire interiore” e altre balle simili (e vendendo poi quadri a prezzi spropositati); non mi era mai balzata così nitida quest’immagine, fino all’incontro con Severo Scalvini, pittore esimio e di lunga data, caratterizzato da un linguaggio provinciale e notevolmente identificabile.

Lo incontro in una pizzetta desolata di un borgo gardesano, in un pieno pomeriggio estivo, con un calore tremendo (l’ora di Pan direbbe il classicista). Classe 1939, Scalvini è nato a Sabbio Chiese in Valsabbia (provincia di Brescia), e residente oggi a Bovezzo con sua moglie, dove ha pure il laboratorio. Ottantaduenne gagliardo, dai pantaloni lunghi e la camicia a mezze maniche a quadretti, ricambia il mio ossequio sorridendomi e allo stesso tempo asciugandosi con un fazzoletto il sudore dalla fronte; uguale la sua signora, distinta e seduta al suo fianco.

Modi di fare molto umili e alla mano, si capisce che non viene da Milano ma da qualche paesino periferico; e ciò non lo nasconde, e nemmeno lo enfatizza: semplicemente se ne frega. Comincia a dipingere a 13 anni, formazione autodidatta e carriera da venditore in ogni o quasi mercatino o esposizione (anche di località sconosciute e dimenticate) del Nord Italia. È il pittore meno snob che abbia conosciuto sinora: dà attenzione a tutto e a tutti. È, altresì, il pittore meno retorico che abbia mai conosciuto: pratico, schietto, diretto; le sue opere sono quelle, cambiano di forma magari (orizzontali piuttosto che verticali o quadrate), ma hanno da decenni lo stesso identico soggetto.

Lavora tantissimo nonostante l’età, produce al mese un numero esagerato di quadri, probabilmente in serie, ricordandomi una cosa fondamentale: l’artista fa arte anche per vendere. Non  si nasconde dietro un dito, Scalvini, non ha bisogno di cazzate pauperiste per dare di sé l’immagine dell’artista illuminato da chissà quale divinità. Di quadri ne fa tanti, alcuni magari anche freddi e frettolosi; ma la richiesta è alta, si vende molto, e questa è l’unica soluzione. Severo Scalvini è discreto e mirabilmente modesto; epperò allo stesso tempo è dotato di una sana e aggraziata venalità, direi molto realista.

Per una semplice chiacchierata sono omaggiato di un suo quadretto. Il soggetto, il carattere e lo stile sono inequivocabili. Ci sono casette affastellate in un luogo ideale, immaginario e immaginifico, che viene dalla fiaba, dai sogni. Un luogo isolato dal mondo, anzi questo è il mondo stesso; una luna irraggia una fievole luce, due paesani – vestiti da montanari o contadini – tornano verso casa. Il tutto è avvolto da un silenzio attutito dalla neve, da una quiete armonica che solo i paesini di provincia possono raggiungere. Pare un presepe, un locus amoenus in versione bresciana; s’intuisce il freddo dell’inverno e dalla luce calda che esce dalle finestrelle il bisogno d’intimità domestica.

Il linguaggio artistico è semplice e riconoscibile: grandi linee spesse e nere delimitano le figure, così che mi ricordano Ottorino Garosio, eccellente pittore, anche lui originario della Valsabbia. E di Garosio vedo anche certi temi. Mentre invece l’atmosfera e la cromia – con quella capacità di evocare un mondo magico, surreale e sospeso –  mi fanno venire in mente il grande illustratore Guillermo Mordillo.

Non mi sentirò più a disagio nei soleggiati e caldi pomeriggi estivi; mi basterò dare un’occhiata al quadretto che Scalvini mi ha gentilmente offerto per ritrovarmi di fianco al fuoco a bere vino, mentre il cotechino  cuoce in padella e fuori la neve cade.

Damiano Perini