ALLA BORIA (E AL FINTO PAUPERISMO) DEGLI ARTISTI GIOVANI PREFERISCO L’UMILTÀ (E LA SCHIETTA VENALITÀ) DI SEVERO SCALVINI

Non sono mai andati così d’accordo, l’umiltà e la venalità, come nella figura artistica di Severo Scalvini. Troppi ne vedo e fortunatamente pochi ne conosco di artisti giovani, cosiddetti emergenti, che al primo passo buono, alla prima mostra buona, alle prime tre righe su qualche megazine online o catalogo-mattone buone perdono la testa e si trastullano in un Olimpo (tutto loro, chiaro).

Non mi era mai balzata così nitida l’immagine di questi nuovi giovani (magari anche simpatici) che spavaldi si pavoneggiano con falsa modestia, con sprezzatura scimmiottata, che pitturano o creano arte solo seguendo il loro “sentire interiore” e altre balle simili (e vendendo poi quadri a prezzi spropositati); non mi era mai balzata così nitida quest’immagine, fino all’incontro con Severo Scalvini, pittore esimio e di lunga data, caratterizzato da un linguaggio provinciale e notevolmente identificabile.

Lo incontro in una pizzetta desolata di un borgo gardesano, in un pieno pomeriggio estivo, con un calore tremendo (l’ora di Pan direbbe il classicista). Classe 1939, Scalvini è nato a Sabbio Chiese in Valsabbia (provincia di Brescia), e residente oggi a Bovezzo con sua moglie, dove ha pure il laboratorio. Ottantaduenne gagliardo, dai pantaloni lunghi e la camicia a mezze maniche a quadretti, ricambia il mio ossequio sorridendomi e allo stesso tempo asciugandosi con un fazzoletto il sudore dalla fronte; uguale la sua signora, distinta e seduta al suo fianco.

Modi di fare molto umili e alla mano, si capisce che non viene da Milano ma da qualche paesino periferico; e ciò non lo nasconde, e nemmeno lo enfatizza: semplicemente se ne frega. Comincia a dipingere a 13 anni, formazione autodidatta e carriera da venditore in ogni o quasi mercatino o esposizione (anche di località sconosciute e dimenticate) del Nord Italia. È il pittore meno snob che abbia conosciuto sinora: dà attenzione a tutto e a tutti. È, altresì, il pittore meno retorico che abbia mai conosciuto: pratico, schietto, diretto; le sue opere sono quelle, cambiano di forma magari (orizzontali piuttosto che verticali o quadrate), ma hanno da decenni lo stesso identico soggetto.

Lavora tantissimo nonostante l’età, produce al mese un numero esagerato di quadri, probabilmente in serie, ricordandomi una cosa fondamentale: l’artista fa arte anche per vendere. Non  si nasconde dietro un dito, Scalvini, non ha bisogno di cazzate pauperiste per dare di sé l’immagine dell’artista illuminato da chissà quale divinità. Di quadri ne fa tanti, alcuni magari anche freddi e frettolosi; ma la richiesta è alta, si vende molto, e questa è l’unica soluzione. Severo Scalvini è discreto e mirabilmente modesto; epperò allo stesso tempo è dotato di una sana e aggraziata venalità, direi molto realista.

Per una semplice chiacchierata sono omaggiato di un suo quadretto. Il soggetto, il carattere e lo stile sono inequivocabili. Ci sono casette affastellate in un luogo ideale, immaginario e immaginifico, che viene dalla fiaba, dai sogni. Un luogo isolato dal mondo, anzi questo è il mondo stesso; una luna irraggia una fievole luce, due paesani – vestiti da montanari o contadini – tornano verso casa. Il tutto è avvolto da un silenzio attutito dalla neve, da una quiete armonica che solo i paesini di provincia possono raggiungere. Pare un presepe, un locus amoenus in versione bresciana; s’intuisce il freddo dell’inverno e dalla luce calda che esce dalle finestrelle il bisogno d’intimità domestica.

Il linguaggio artistico è semplice e riconoscibile: grandi linee spesse e nere delimitano le figure, così che mi ricordano Ottorino Garosio, eccellente pittore, anche lui originario della Valsabbia. E di Garosio vedo anche certi temi. Mentre invece l’atmosfera e la cromia – con quella capacità di evocare un mondo magico, surreale e sospeso –  mi fanno venire in mente il grande illustratore Guillermo Mordillo.

Non mi sentirò più a disagio nei soleggiati e caldi pomeriggi estivi; mi basterò dare un’occhiata al quadretto che Scalvini mi ha gentilmente offerto per ritrovarmi di fianco al fuoco a bere vino, mentre il cotechino  cuoce in padella e fuori la neve cade.

Damiano Perini