ALLA BORIA (E AL FINTO PAUPERISMO) DEGLI ARTISTI GIOVANI PREFERISCO L’UMILTÀ (E LA SCHIETTA VENALITÀ) DI SEVERO SCALVINI

Non sono mai andati così d’accordo, l’umiltà e la venalità, come nella figura artistica di Severo Scalvini. Troppi ne vedo e fortunatamente pochi ne conosco di artisti giovani, cosiddetti emergenti, che al primo passo buono, alla prima mostra buona, alle prime tre righe su qualche megazine online o catalogo-mattone buone perdono la testa e si trastullano in un Olimpo (tutto loro, chiaro).

Non mi era mai balzata così nitida l’immagine di questi nuovi giovani (magari anche simpatici) che spavaldi si pavoneggiano con falsa modestia, con sprezzatura scimmiottata, che pitturano o creano arte solo seguendo il loro “sentire interiore” e altre balle simili (e vendendo poi quadri a prezzi spropositati); non mi era mai balzata così nitida quest’immagine, fino all’incontro con Severo Scalvini, pittore esimio e di lunga data, caratterizzato da un linguaggio provinciale e notevolmente identificabile.

Lo incontro in una pizzetta desolata di un borgo gardesano, in un pieno pomeriggio estivo, con un calore tremendo (l’ora di Pan direbbe il classicista). Classe 1939, Scalvini è nato a Sabbio Chiese in Valsabbia (provincia di Brescia), e residente oggi a Bovezzo con sua moglie, dove ha pure il laboratorio. Ottantaduenne gagliardo, dai pantaloni lunghi e la camicia a mezze maniche a quadretti, ricambia il mio ossequio sorridendomi e allo stesso tempo asciugandosi con un fazzoletto il sudore dalla fronte; uguale la sua signora, distinta e seduta al suo fianco.

Modi di fare molto umili e alla mano, si capisce che non viene da Milano ma da qualche paesino periferico; e ciò non lo nasconde, e nemmeno lo enfatizza: semplicemente se ne frega. Comincia a dipingere a 13 anni, formazione autodidatta e carriera da venditore in ogni o quasi mercatino o esposizione (anche di località sconosciute e dimenticate) del Nord Italia. È il pittore meno snob che abbia conosciuto sinora: dà attenzione a tutto e a tutti. È, altresì, il pittore meno retorico che abbia mai conosciuto: pratico, schietto, diretto; le sue opere sono quelle, cambiano di forma magari (orizzontali piuttosto che verticali o quadrate), ma hanno da decenni lo stesso identico soggetto.

Lavora tantissimo nonostante l’età, produce al mese un numero esagerato di quadri, probabilmente in serie, ricordandomi una cosa fondamentale: l’artista fa arte anche per vendere. Non  si nasconde dietro un dito, Scalvini, non ha bisogno di cazzate pauperiste per dare di sé l’immagine dell’artista illuminato da chissà quale divinità. Di quadri ne fa tanti, alcuni magari anche freddi e frettolosi; ma la richiesta è alta, si vende molto, e questa è l’unica soluzione. Severo Scalvini è discreto e mirabilmente modesto; epperò allo stesso tempo è dotato di una sana e aggraziata venalità, direi molto realista.

Per una semplice chiacchierata sono omaggiato di un suo quadretto. Il soggetto, il carattere e lo stile sono inequivocabili. Ci sono casette affastellate in un luogo ideale, immaginario e immaginifico, che viene dalla fiaba, dai sogni. Un luogo isolato dal mondo, anzi questo è il mondo stesso; una luna irraggia una fievole luce, due paesani – vestiti da montanari o contadini – tornano verso casa. Il tutto è avvolto da un silenzio attutito dalla neve, da una quiete armonica che solo i paesini di provincia possono raggiungere. Pare un presepe, un locus amoenus in versione bresciana; s’intuisce il freddo dell’inverno e dalla luce calda che esce dalle finestrelle il bisogno d’intimità domestica.

Il linguaggio artistico è semplice e riconoscibile: grandi linee spesse e nere delimitano le figure, così che mi ricordano Ottorino Garosio, eccellente pittore, anche lui originario della Valsabbia. E di Garosio vedo anche certi temi. Mentre invece l’atmosfera e la cromia – con quella capacità di evocare un mondo magico, surreale e sospeso –  mi fanno venire in mente il grande illustratore Guillermo Mordillo.

Non mi sentirò più a disagio nei soleggiati e caldi pomeriggi estivi; mi basterò dare un’occhiata al quadretto che Scalvini mi ha gentilmente offerto per ritrovarmi di fianco al fuoco a bere vino, mentre il cotechino  cuoce in padella e fuori la neve cade.

Damiano Perini

“I 12 MESSAGGERI DEI MONTI”: GRAZIE ALLA FONDAZIONE CARIPLO I CAMPANILI DI TREMOSINE SARANNO RISTRUTTURATI

Che sia un freddo e nevoso inverno la cui atmosfera è sordamente smorzata dalla neve, oppure un crepuscolo estivo dal tepore dolcemente scosso dai grilli e dal frusciare delle foglie, le campane, specialmente dei paesi più appartati, rintoccano colmando l’ambiente con un suono familiare e carezzevole, sfiorando nel profondo le corde dell’animo.

Da San Paolino di Nola, il vescovo che  applicò la campana a uso sacro, e da cui verosimilmente deriva l’etimo (‘aera campana’, ossia ‘bronzi di Campania’), fino a personalità di altri tempi e dall’esistenza opposta, come Baudelaire, questo strumento ha evocato immagini collegate direttamente all’anima.  Le campane, infatti,  e in particolare il loro suono, sono citate dal dandy parigino in profondissimi passaggi de I fiori del male. Si animano: “cantano nella nebbia”, “…sbattono  con  furia  e  lanciano  verso  il  cielo  un  urlo orrendo…”; sino a diventare muse ispiratrici. “Voglio, per  comporre  castamente  le  mie  egloghe”, scrive Baudelaire,  “dormire  […]  vicino  ai  campanili, ascoltare  sognando  i  loro  inni  solenni  portati  via  dal  vento;  […]  campanili,  alberi maestri della città”.

Le campane sono storia, cultura; per secoli sono state parte sociale integrante delle comunità. Si pensi, a esempio, al ruolo che svolgevano nella scansione della vita quotidiana, lavorativa e liturgica. Il valore immateriale del suono, però, sarebbe impossibile senza una struttura adatta, un supporto fondamentale che ne permetta la fruizione. Ecco allora l’importanza basilare dei campanili, degli “alberi maestri”, architettura ormai proverbiale che identifica, distingue e valorizza un singolare paese o una circoscritta comunità – di qui il termine ‘campanilismo’. Ma la materia degrada, e la struttura necessita costantemente di cura, manutenzione, ristrutturazione.

Tremosine. Tutto ha inizio col terribile nubifragio che ha investito la provincia bresciana, in particolare l’Alto Garda, il 28 ottobre 2018. Il campanile di Sermerio, già in stato precario, raggiunge il limite di sopportazione. Don Ruggero Chesini, arciprete delle parrocchie tremosinesi, senza perdere tempo segnala l’accaduto all’architetto Alberto Lancini – stimato professionista con alle spalle molti anni di esperienza nel campo del restauro e della progettazioni per l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Brescia – che per una provvidenziale coincidenza opera in quel momento alla ristrutturazione della canonica di Pieve. Lapidario e coeso il consulto: il vaso è colmo, urge manutenzione.

Nel gennaio 2019 si verifica un’altra fortuita coincidenza. Esce infatti il bando, emesso dall’Area Arte e Cultura di Fondazione Cariplo nell’ambito della linea “Patrimonio culturale e sviluppo locale”, con l’obiettivo di “promuovere e attuare politiche di conservazione programmata e preventiva sull’edificato di interesse culturale”. Un’occasione ghiotta che don Ruggero non si fa scappare.

“Il don è stato molto coraggioso”, dichiara Lancini, ora coordinatore generale del progetto e progettista, “perché una volta che il bando è approvato bisogna metterlo in pratica e portarlo a termine”. Per essere però preso in considerazione, il bando doveva essere esteso; il solo campanile di Sermerio non permetteva il finanziamento. Così il progetto si allarga, si fa ambizioso: di necessità virtù, e presto tutti i 12 campanili delle parrocchie di Tremosine (meno quello di Campione), molti dei in stato rovinoso, sono inseriti ufficialmente nella proposta. Questa è approvata con esito positivo con una delibera del 19 dicembre 2019.

Il merito per il titolo del progetto è ancora di don Ruggero: “il suono delle campane ha un valore immateriale; comunica, chiama, indica la presenza di Dio, la sua voce, la sua chiamata alle ore, alla festa. In più i campanili presi in esame sono dodici, come gli apostoli, i primi portavoce del Signore”. Ecco allora il titolo efficacissimo di “I 12 messaggeri dei monti”, seguito dalla chiosa più tecnica e esplicativa “recupero,  cura  e  manutenzione  programmata  del  sistema  di  campanili  delle Parrocchie di Tremosine (BS)” (anche su Instagram alla voce @campanilitremosine).

Alla Fondazione Cariplo, principale sostenitrice del progetto, si accodano la Diocesi, grazie a don Giuseppe Mensi, vicario episcopale per l’amministrazione e, successivamente, la C.E.I., insieme a un piccolo stanziamento del Comune di Tremosine s/G.

I tempi. “Siamo in ritardo di circa un anno per il Covid”, dichiara amareggiato Lancini. I lavori di progettazione stanno comunque per essere ultimati. Si prevede che le imprese vincitrici dell’appalto inizino per la primavera del 2022, terminando non prima del secondo trimestre del 2023. Ultimata l’opera è in programma un concerto dei Campanari di Bergamo, i quali, oltre a sostenere il progetto con rara sensibilità, stanno provvedendo a una mappatura sonora di tutte le campane, al fine di valorizzare, parallelamente, anche il patrimonio sonoro.

Damiano Perini, luglio 2021

AL FRANET DI NEVESE A TREMOSINE SUL GARDA, L’ACROPOLI DEL FORMAGGIO CAPRINO

La località chiamata Nevese, a Tremosine sul Garda, è un monte di altitudine circa 750 m s.l.m., sinuoso e garbato, levigato e piacevole. È un posto a coronamento dell’intero comune; da qualunque paesino sottostante  lo si guardi o anche solo lo si intraveda – sia Villa (a nord), Arias (a est) o Cadignano (a sud) – esso appare subito amichevole e  confortante, invitando a una inevitabile visita. Qui, nell’acmé tra il verde dei pascoli e degli alberi, spunta come un’acropoli l’azienda agricola Al Frànet di Ines Grezzini.

Per arrivare passo per una strada stretta costeggiata da boschi e enormi prati. A un certo punto una santella benefica e molto semplice, dedicata alla “Madonna dell’amore”, mi indica che sono quasi arrivato; infatti dopo aver preso un sentiero cementato, forse di origine tratturale, mi trovo di lì a poco davanti alla stalla. Mi accoglie Ines puntuale alle 9.00, insieme a un panorama sensazionale: da quel punto quasi magico scorgo il Lago di Garda e il Monte Cas di Tignale – luogo di pace e beatitudo su cui è eretto l’eremo di Montecastello.

Sono ospite per una visita guidata, il formaggio di capra mi piace e ne mangio parecchio; è buono, anzi buonissimo e per chi ha problemi di colesterolo come il sottoscritto (da C.T. di 320 con impegno sono sceso ora a  247) fa anche meglio (o comunque meno peggio) di quello vaccino. E se il formaggio caprino normalmente è buono, quello dell’Azienda Agricola Al Frànet è ancora meglio, e duqnue voglio capire il perché.

La visita comincia dalla stalla. Sono investito da un gradevole odore di fieno e da un belare confuso ma nell’insieme simpatico. Quaranta capre e tredici capretti (il becco e altre due sono all’esterno) mi danno il benvenuto nella loro dimora. Sono di razza Saanen, e infatti nomen omen:  bianchissime e dall’aria ancor più sana ‘giocano’ tra di loro incornandosi e poi leccandosi, mangiano e girano nei loro box con una libertà di movimento invidiabile. “Devono avere i loro spazi nei box”, mi dice Ines, “anche questo contribuisce alla qualità del latte, e quindi del formaggio.

Questi animali mangiano bene, solo fieno di Tremosine ossia locale, e un mangime altamente selezionato. Vengono munte due volte al giorno, la prima la mattina alle 6.00 e alle 16.00 la seconda. È un lavoro duro quello di Ines (e degli agricoltori in genere); il riposo da seguire è quello della natura, e cioè mai. Anche se il lavoro è gratificante le vacanze non esistono. “Sto ancora aspettando la luna di miele, per esempio”, dice ridendo. Viso stanco ma felice, soddisfatto. Poi aggiunge, “il lavoro non sarebbe possibile senza l’aiuto dei miei figli”, due gemelli di poco più di dieci anni e le figlie Cristina e Michela.

Mi guardo intono e alle pareti della stalla scorgo, oltre a una falce antica, una pannocchia secca e un mazzetto di lavanda, il calendario di Frate Indovino, simbolo di una certa tradizione cattolica e contadina tipica del territorio.

La produzione del formaggio avviene nella saletta attigua, rigorosamente pulita e in ordine. Qui avvengono con un procedimento progressivo e standard le varie fasi di produzione: coagulazione, rottura della cagliata, cottura (in un gigantesco ramino), estrazione della cagliata, messa in forma e salagione (ovvero il primo sale) e, infine, maturazione e stagionatura.

La saletta di stagionatura dell’Azienda Agricola Al Franèt è un incantevole luogo scavato nella roccia, con umidità e temperature controllate (circa 11-12 °C), e qui riposano anche fino a un anno le forme di caprino. È un tripudio di profumi, la vista di tutti quei prodotti è concupiscenza pura, e io sono un gaudente e mi basta poco per cedere. Ines mi fa assaggiare il formaggio più stagionato della batteria, stagionatissimo: libidine proverbiale.

Felice prendo la medesima strada per il ritorno. Scorgendo prima l’eremo di Montecastello, e poi la madonnina della santella, ringrazio.

DP

CI RINCUORI L’ANGELO DI LANDI DEL CIMITERO DI PIEVE: MONUMENTO AL DANNUNZIANESIMO CHE IL BORGO CONOBBE, MA CHE NON ESISTE PIÙ

Mi rincuora ogni volta la visita a un cimitero, e mi rasserena il conforto dei defunti, soprattutto dei miei cari. La visita al cimitero di Pieve però mi rincuora di più, in virtù della lunetta dipinta da Angelo Landi, perché è solo e grazie a essa che si respira, seppur fievolmente, quell’atmosfera di dannunzianesimo che toccò Tremosine agli inizi del Novecento, e che non tornerà più.

L’opera rappresenta un angelo (una firma iconografica si può dire), ideato con una composizione semplicissima: una figura che occupa l’intero spazio, vestita con una veste lunghissima e bianca, in una posa molle e adagiata in senso diagonale. I capelli sono – o così appaiono – folti, lunghi e arricciati, il viso poco caratterizzato; spunta l’ala sinistra mentre l’altra si può solo intuirla perdersi in uno sfondo indefinito di un giallo inquietante. La figura è perfettamente inserita nei canoni artistici del tempo, ossia gli anni Dieci del XX secolo, con la sua torsione elegante del busto, con quel fluire di linee sinuose, “fitomorfe” come si dice in gergo, vulgo floreali (lo stile Liberty è infatti anche detto “stile floreale”, e corrisponde in Italia a quello che è stato in Francia l’Art Nouveau).

Va detto, a onor del vero, che l’opera è in uno stato di degrado avanzato e ingiustificato, eguale e forse peggio di quanto già denunziava Daniele Andreis parecchi anni fa (D. Andreis, Tremosine nella storia. Voci, personaggi, vicende, 2007, pp.168-176), e visibile tutt’oggi se non in modo vago e rarefatto. Non si capisce a questo punto perché non ci si interessi per una urgente operazione di restauro e riqualifica: si ignora forse la fama dell’artista?

Angelo Ignazio Giuseppe Landi (1879-1944), prolificissimo pittore, nasce e muore sulla sponda bresciana del Garda, precisamente a Salò, da una famiglia nobile. Studia all’Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano, diventandone poi accademico. Fu un ottimo ritrattista, dipinse documentandole le atrocità della Prima Guerra Mondiale, e numerosi  e suggestivi sono i suoi paesaggi. Sacro o profano non importava, Landi affrontò qualsiasi tema con la stessa abilità a seconda del mezzo, sia esso olio su tela o affresco. Le sue opere sono note da Salò a Napoli, ma anche in città fuori l’Italia, come Parigi o il Cairo. Fu un insaziabile viaggiatore: passò anni a Buenos Aires (dove si sposò), poi in Africa, prima di andare a vivere a Roma. Ma nonostante la sua voracità di conoscenza fu sempre legato al territorio di nascita. Dipinse per Padenghe, moltissimo per Salò e, soprattutto, per il Vate e per il suo Vittoriale, dove dipinse, attorno al 1924, le lunette di San Francesco e di Santa Chiara.

Ci si stupisca allora che un artista di tale rilevanza abbia lasciato una testimonianza anche a Tremosine sul Garda, all’interno del cimitero di Pieve. Landi ci ha lasciato un angelo, oggi un po’ svanito, indebolito dal tempo, ma una volta indubbiamente acceso e luminoso, che ci accoglie al cimitero dando le spalle, disinvolto, al Monte Baldo. Un angelo altresì nobile e grazioso, che spicca in mezzo alla cappella, struttura severa e ieratica ispirata al romanico, interamente in tufo e quindi consunta. Ci confortino i defunti del cimitero di Pieve, e ci rincuorino sempre. Ci rincuori anche e per molto tempo ancora la lunetta del grande artista, monumento a quel clima portato da D’Annunzio che, seppur con pallidi riflessi, toccò anche Tremosine a inizio Novecento, e di cui non si avverte più il dolce tepore.

Luciano Cardo

BARRIANI E IL SUO DEBOLISSIMO “MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO”: UNA PROPOSTA DI COMMITTENZA

*Articolo apparso su “Comunità”, aprile 2021, Tremosine sul Garda, pp. 9-10.

Leggo con soddisfazione e godimento il volume enciclopedico di Alfredo Cattabiani, “Santi d’Italia. Vita leggende, iconografia, feste, patronati, culto”. Il sottotitolo la dice lunga, e il libro infatti è una raccolta (quasi) esaustiva dei santi italiani o che comunque in Italia hanno trovato una forte venerazione (come Caterina d’Alessandria). Lo scrittore tiene conto sia dell’agiografia ufficiale ecclesiastica e delle testimonianze storiche, ma anche e soprattutto di leggende e tradizioni popolari; e le racconta sullo stesso piano di importanza. Il registro è quello favolistico, il linguaggio sciolto e veloce. Un libro che coinvolge e si legge bene, e si colloca senza dubbi sulla scia della tradizione agiografica che parte da Jacopo da Varazze.

Scopro così della durissima e faticosa vita di Padre Pio da Pietrelcina, della austera vita di San Zeno di Verona (il quale si nutriva unicamente dei pesci da lui stesso pescati nell’Adige), delle imprese epiche di Sant’Eustachio, che salvò Matera dall’assalto dei Saraceni; ricordo della coraggiosa vita di Francesco di Paola, dell’impresa avventuriera di Colombano di Bobbio (fondatore del celebre monastero), dell’erudizione di Chiara d’Assisi, dell’umiltà e della modestia di Damiano e Cosma (“due medici detti anargiri, cioè ‘senza denaro’ perché secondo la tradizione praticavano la medicina senza chiedere compensi”).

Ma leggo con passione e orgoglio cristiano anche della vita di San Bartolomeo apostolo. Il Santo, patrono  tra il resto della parrocchiale e dei parrocchiani di Vesio, pur essendo poco considerato dai Vangeli sinottici (appare nell’elenco in associazione a Filippo) e assente nel Vangelo di Giovanni (il nome è sostituito con Natanaele), è protagonista di diversi episodi, anche abbastanza macabri e – come diciamo dopo Tarantino –pulp. “La tradizione gli attribuisce lunghi viaggi missionari in vari Paesi dell’Oriente, dall’Arabia Felix alla Partia alla Mesopotamia, e infine in Armenia dove fu martirizzato: crocifisso secondo gli orientali, decapitato secondo i Martirologi di Rabano Mauro, Adone e Usuardo. La morte per scuoiamento è sostenuta invece da Isidoro di Siviglia e dal Martirologio di Beda” –  riferisce Cattabiani; è proprio quest’ultimo caso di martirio che ha ispirato le leggende e l’iconografia nell’Occidente cristiano.

Un’iconografia che è visibile anche nella chiesa di Vesio, nel lato destro del presbiterio, su un enorme dipinto, a cui corrisponde di fronte l’episodio antecedente della Chiamata di Gesù. Dell’autore si sa poco se non il cognome, un certo Barriani di Brescia; sulla targhetta metallica posta al di sotto delle opere è riportata la data 1866. Né – ammetto con sconforto – mi sono interessato più di tanto a questo pittore, tale è la scadenza dei due risultati che ho sott’occhio. A essere buoni, l’unico elemento della “Chiamata” gradevole è il cielo: vagamente suggestivo, lievemente carico di fausti presagi, con quei toni rossastri all’orizzonte come di un’alba che chiude dietro di sé una notte, e schiude un nuovo giorno e una nuova luce: quelli di Cristo e della nuova èra. Per il resto, il gruppo degli apostoli è, dal punto di vista pittorico, maldestramente ammassato attorno a Gesù, scioccamente al centro della composizione, rispettando una simmetria infantile e poco originale. Le figure sono sproporzionate (basti guardare le grandezza delle mani e dei piedi con quella dei corpi); le vesti rigide e sgraziate; le pose inverosimili e squilibrate. I volti sembrano caricature; i due personaggi più laterali sono inguardabili, i loro volti tanto allungati che paiono musi di cavallo.

Il Martirio di San Bartolomeo, che fa da pendant, riprende lo stesso schema del precedente: ammassamento centrale e simmetria scolastica, tratti bruttissimi, pose ferme e poco plastiche, i gesti sono congelati e irrealistici, i volti e le azioni non esprimono emozioni alcune. Il dipinto, e chiudo il lugubre elenco di commenti, non è armonico; in altre parole, non ha anima. E un’espressione artistica che non ha anima non ha la potenza per essere recepita da chi la osserva, o, nel mio caso di cristiano, per essere contemplata. È un’opera così inutile, incapace di trasmettere il messaggio di cui si fa carico. E quindi la carneficina del Santo apostolo, il dolore e la passione provate dal martire sono ai nostri occhi disegno fatto male e nulla più.

Si guardi, per avere un confronto, la statua di San Bartolomeo posta nel Duomo di Milano: la carne scuoiata è percettibile e fa venire i brividi al solo sguardo. Si guardi, un altro esempio tra i più noti, il San Bartolomeo di Michelangelo della Cappella Sistina: la molle e cadente pelle tenuta in mano dal santo fa accapponare la nostra, di pelle. Mi viene a questo punto un’idea, utile anche come suggerimento: il tempo in cui viviamo non è adatto, ma commissionare due nuove opere, della stessa misura e con lo stesso soggetto, a un artista contemporaneo potrebbe essere una soluzione. Il nome è quello di Giovanni Gasparro, pittore italiano di arte sacra contemporaneo: solito a scene tetre in ambientazioni oscure e inquietanti, di scene capaci di evocare e provare l’agonia dei personaggi rappresentati: perfetto per rappresentare San Bartolomeo.

Damiano Perini

IL LEGNO CHE PRENDE VITA GRAZIE ALL’ARTE DI GIACOMO LUCCHINI

L’ebanisteria, intesa nelle sue forme più sublimi di intaglio e intarsio, è un’espressione squisitamente frutto dell’ingegno e dello spirito umano, un’attività duplice, come un Giano Bifronte, al contempo arte e artigianato. Questa sua doppia caratteristica però, questo suo essere, per così dire, borderline, è forse il motivo principale della sua scarsa, o comunque minore considerazione rispetto alle arti maestre (pittura, scultura: non a caso l’ebanisteria è sempre stata definita, appunto, una “arte minore”).

Si può dire sia un’espressione artistica che necessità di grande abilità tecnica, concentrazione, esperienza; ma viceversa è anche una manifattura che abbisogna di creatività, immaginazione, conoscenza e animo artistico. Insomma, un ebanista per forza di cose è sia artigiano che artista.
Deve essere per questa difficoltà a classificare l’ebanisteria che nei manuali di storia dell’arte difficilmente si ha traccia, non di una storia, ma solo un breve accenno ai grandi intagliatori che si sono susseguiti. È materia purtroppo ancora troppo sottaciuta e confinata tra gli specialisti o antiquari.

Da questo oblio non si esime neppure Giacomo Lucchini, straordinario intagliatore trentino, originario di Castel Condino, vissuto agli inizi del Diciottesimo secolo, di cui si trova traccia in qualche sporadico scritto e per di più difficile da reperire. Siamo soliti, ormai un’abitudine, considerare il fine intagliatore Giacomo Lucchini in riferimento a Tremosine sul Garda; e è giusto così: alla Pieve dello stesso comune, infatti, instaurò bottega per la durata di circa trent’anni, lavorando un numero elevato di pregevoli oggetti. Le sue poche notizie sono ricavate da queste opere, e sono documentate dal 1700 al 1729.

Bisogna trovarsi dinnanzi, o meglio direi immersi in questa serie d’intagli della parrocchiale di san Giovanni Battista di Tremosine s/G, per comprenderne la magnificenza, la sontuosità, l’eleganza, la raffinatezza. Per la chiesa di Pieve Giacomo Lucchini realizzò dapprima intagli per l’organo e la cantoria in legno di larice, e successivamente, in noce, i confessionali, gli stalli del coro, la cattedra, il bancone armadio della sacrestia, dossali e cornici. Altro che “arte minore”: con Lucchini il legno si anima, prende vita sottoforma vegetale: racemi, foglie e verzura paiono mossi dal vento, oppure da un qualche moto sovrannaturale, soffio divino. I Putti del coro parlano, si esprimono con tutta la loro corporeità: linguaggio non verbale, chiaro, deciso coinvolgente.

Di lui ne parla Elisa Cassoni (2008), evidenziandone per questi lavori “l’uso di un vibrante intreccio di nastri e di elementi naturali”, e sottolineando come lo stile di Lucchini sia basato sul movimento. Chi ha parlato però forse meglio di tutti e in modo più approfondito di questo intagliatore barocco (ma ricondotto al “barocchetto”) è Valerio Terraroli. Scrive il professore a proposito delle raffigurazioni intagliate: “un mondo semplice e quotidiano dove allegoria e natura convivono armoniosamente”, in cui si fondono “ridondanza di intrecci”, un “infinito repertorio di temi naturalistici”, e una “briosità” d’insieme.

Un “rutilante repertorio fitomorfo” e un “inesausto impulso decorativo” (Terraroli) del coro di Pieve che si trova anche nel mobile della sacrestia della parrocchiale di Limone sul Garda. Sicuramente opera dei primi anni Trenta – come conferma la data iscritta nel legno che riporta 1718 –, mentre teneva bottega a Tremosine. Il mobile è solenne: austero e icastico con quella cromia scurissima e severa tipica del noce e dalle dimensioni notevoli, 2,84 x 4,12 m, è un’opera in cui l’occhio si perde vagando per gli intarsi pregiatissimi e vari, mentre pare di essere “schiacciati” dalla sua maestosità.

Il mobile è in condizioni conservative ottime, anche per il recente restauro di Vincenzo Marini di Rovato. È diviso in due parti, basamento e alzato, per un totale di 18 cassetti divisi da 4 lesene. Repertorio strepitoso e variegato di frutta intagliata a tutto tondo, che funge da pomoli: grappoli di uva, melograni, mele, pere, fichi, prugne e cardi… frutti che sembrano veri, e se fossero colorati sicuramente invoglierebbero pure a mangiarli. Degni di particolare nota sono anche i 4 putti-lesena del basamento: come a Pieve essi paiono organismi carichi di vita propria, esuberanti nel loro gesticolare, nella loro espressione. E ovunque fiori, rami, vegetazione… un Eden esclusivo: sinuoso, levigato, spumeggiante, intarsiato.

(bibl. minima): G. Vezzoli, La scultura dei secoli XVII e XVIII, 1964; M. Trebeschi, D. Fava, Limone sul Garda, 1990; V. Terraroli, La scultura del Settecento nella Lombardia orientale, 1991; E. Cassoni, Altari, dipinti e sculture, 2008.

Damiano Perini

CHE FINE HA FATTO VILLANESE, IL MORDACE ARTISTA CHE EBBE IL CORAGGIO DI OMAGGIARE DUCHAMP ALLA PIEVE DI TREMOSINE?

Che fine ha fatto Damiano Villanese,  l’artista mordace che ebbe il coraggio di omaggiare Duchamp e il Dadaismo in un piccolo paesino dell’Alto Garda Bresciano? Ricordo ancora con un sorriso quell’esposizione sfrontata di questo pressoché ignoto artista, che curiosamente porta il nome del sottoscritto, in quel vetusto borgo di Pieve di Tremosine sul Garda, in provincia di Brescia, in occasione della “Notte Romantica” organizzata da I borghi più belli d’Italia nel 2016.

In mezzo a pittori di quadretti di genere, che un critico cattivo avrebbe definito  i più “della domenica”, questo Villanese non si fece scrupoli a esporre opere assolutamente provocatorie, in pieno stile dada, non preoccupandosi di non venire capito o essere deriso. Nessuno in mezzo a quel pubblico conosceva Duchamp o il movimento a cui appartenne; immaginarsi se qualcuno sapesse che in quel 2016 correva il centenario dalla nascita del movimento!

Le opere di Villanese, disposte lungo i bellissimi vicoli di Pieve, non erano presiedute da nessuno; se non talvolta da un ometto simpatico e amichevole, che i paesani con confidenza chiamavano “Gianèto”. Nessuna traccia dell’artista in quel giorno, e nemmeno sono riuscito a dargli una età: poteva averne venti di anni come sessanta: un artista è sempre vivace di mente, e la fanciullezza in lui non muore mai.

Una scintilla, “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva/ dallo sguardo che m’ha fatto subito rinascere,/ti rivedrò solo nell’eternità?”, scriverebbe Baudelaire.  Di lui non si sa nulla, se non il nome scritto su un cartiglio, esposto come glossa, a mo’ di introduzione,  di fianco all’opera nel mezzo, in cui si leggevano le seguenti parole:

1916 – 2016

OMAGGIO AI CENTO ANNI DEL DADAISMO

E DI RIVOLUZIONE ARTISTICA “DUCHAMPIANA”

 

Con questa esposizione Damiano Villanese propone un omaggio alla più grande rivoluzione artistica degli ultimi secoli, particolar modo a colui che fu definito “l’uomo più intelligente del XX secolo”, Marcel Duchamp.

Più tardi, mentre ero al bar con amici, ho ricevuto per email, da indirizzo ormai non più valido, la seguente nota, scritta in terza persona da un autore anonimo. In allegato, il misterioso mittente inserì con scrupolosa cura le riproduzioni in formato fotografico di ogni singola opera. Questo che segue è quanto è rimasto di quella lettera.

DAMIANO VILLANESE: ESPOSIZIONE PER LA NOTTE ROMANTICA DEI BORGHI 2016

OMAGGIO AI CENTO ANNI DEL DADAISMO E DI RIVOLUZIONE ARTISTICA DUCHAMPIANA

 

È significativa, e particolarmente rilevante, la presenza dell’artista Damiano Villanese all’esposizione collettiva per la “Notte Romantica dei Borghi più Belli D’Italia” tenutasi alla Pieve di Tremosine sul Garda il 25 giugno.

La sua presenza assume una distinta importanza, non tanto per la personalità artistica, ma piuttosto per l’originale e coraggiosa scelta del tema offerto; importanza ancor maggiore se si pensa alla sterile e quasi anestetizzata cultura artistica di Tremosine, e alla medio-bassa capacità di ricezione del pubblico passante, per lo più ancora legato alla percezione artistica-estetica ottocentesca del quadretto di genere.

Il Villanese per l’appunto presenta con tutto orgoglio un personale omaggio ai cento anni del Dadaismo, in particolar modo ai cento anni dalla rivoluzione culturale, artistica ed estetica duchampiana (seppur il primo “ready-made” di Duchamp risalga al 1913, con la “Ruota di Bicicletta”, la piena consapevolezza  della nuova concezione matura attorno al 1916, in parallelo alla corrente dadaista).

Ma cosa s’intende con Dadaismo? Il Dadaismo è una corrente artistico-culturale nata a Zurigo nel 1916 e sviluppatasi tra Europa e Stati Uniti nel secondo decennio del XX secolo.  La base concettuale del movimento artistico la si deve a Marcel Duchamp, definito “l’uomo più intelligente del XX secolo” da Breton, ideatore inconsapevole di un nuovo modo di fare (o non-fare) arte grazie al  “Ready-made”, ovvero un oggetto già fatto preso da un contesto ordinario, modificato nel suo stato di oggetto comune con minimi interventi, attribuendogli dichiaratamente un significato artistico-estetico, spogliandolo  quindi di ogni attributo utilitaristico. Duchamp non utilizza strumenti o pratiche artistiche ma approfitta di ogni tipo di elementi preesistenti, favorendo nuove possibilità per l’oggetto, in cui avviene una “distorsione non formale ma semantica”.      

Si proponeva a questa guisa la  “riduzione dell’occhio retinico a favore di un “occhio” mentale”;  l’opera non si ferma alla proiezione superficiale visibile anche distrattamente, ma va “oltre” richiedendo più alla mente che non alla vista, che diviene un veicolo e non più destinazione. Non è un rifiuto dell’arte ma una “diversa considerazione delle sue possibilità”: l’idea di arte si dissocia dall’idea di bellezza. Gli oggetti, a detto proprio di Duchamp, sono selezionati “con indifferenza visiva e assenza totale di gusto”.

Va inoltre aggiunto che con Duchamp, ma con il Dadaismo in genere, assume particolare importanza la terminologia e la nominazione:  la parola diviene fattore estetico dell’opera d’arte, sua parte integrante e imprescindibile. Il testo non circoscrive o limita, ma anzi estende il significato.  Si sfruttano le possibilità dell’omofonia con la possibilità di oltrepassare i limiti del linguaggio giocando sui significati (o scambio di significati) dei termini.

Le opere esposte.

Per tutte queste ragioni negl’intimi e pittoreschi vicoli della Pieve nell’allestimento dedicato a Villanese troviamo un’ enorme porta logorata dal tempo e appoggiata al muro con il titolo “ImPortante, ma non per te”, e poco di fronte uno scheletro di letto di quasi cento anni, impolverato e appena uscito dalla cantina, montato in modo superficiale senza troppo zelo con la scritta “L’hai Letto ma non l’hai capito”.  Il titolo è quindi partecipe dell’opera e non è solamente un gioco di parole, ma assurge anche a provocazione nei confronti dell’osservatore con quel “non l’hai capito”. Sulla stessa riga intimidatoria e demoralizzante, per cui si lascia cadere ogni speranza di comprensione allo spettatore, è “telaio senza tela, ovvero l’inutilità del fare per l’incapacità di capire”, in cui un telaio che normalmente serve da supporto alla tela è esposto nella sua natura nuda e intoccata, come se fosse un opera fatta e finita; il principio s’identifica con la conclusione.  Altri interventi che richiamano il non-fare e giocano intorno al finito/non-finito sono i due pannelli, inizialmente cominciati a dipingere con della pittura a olio, ma poi sospesi e lasciati incompiuti (“definitivamente incompiuto: disarmonia in rosso” e “definitivamente incompiuto: arancione nel nero”) fino ad arrivare al più estremo “completamente non cominciato”, ovvero un quadro, con tela completamente lasciata bianca, incorniciato con una cornice: ancora una volta il non-iniziato coincide col finito. La chiave di lettura è sempre incuneata attorno all’ironia e alla provocazione, un sottile umorismo, da non dimenticare mai nell’osservazione  di queste opere.  Quasi un gioco enigmistico sono i due disegni su foglio pentagrammato, che uniscono musica e scacchi (sia il disegno su pentagramma che gli scacchi sono chiari riferimenti a Duchamp): “Scacco al re diesis abbastanza veloce” e “scacco al re un po’ lento”, in cui l’aggiunta al titolo in tono del tutto scherzoso di “abbastanza veloce” e “un po’ lento” che nulla hanno a che fare con gli scacchi, deriva naturalmente dalla natura del “re” di essere rispettivamente di 1/8 (nota croma) il primo e di 4/4 (nota semibreve) la seconda. Sempre un gioco di parole tra provocazione e ironia, questa volta sarcastica e ridicolizzante, coinvolge i due “Only look at Me”, due tavole ottometriche professionali in cui risultano evidenziate in rosso le lettere M e E, e quindi risulta che letteralmente l’osservatore deve guardare “ME”, cioè lui stesso, dato che  queste tavole servono proprio all’esercizio del vedere, o meglio al controllo di tale funzione. È un attacco sprezzante al narcisista assuefatto. Altra sferzata diretta al pubblico è l’opera forse più dadaista dell’intera esposizione, dal titolo “si acChiodomi pure, signore!”, che consiste in una vecchia sedia da cantina in legno il cui sedile è stato sostituito con un piano chiodato bianco e pervaso di vernice rosso sangue.

Con Damiano Villanese il dadaismo penetra nei vicoli e nei borghi dell’antica Tremosine. Un giorno alla Pieve ci si ricorderà di lui come quello che ha esposto come opera d’arte una vecchia e consunta porta inutilizzabile.  

Giugno 2016

Non so che fine abbia fatto il Villanese. Innegabile però quel soffio di ilarità e di cultura artistica che grazie a lui si godette in quei due giorni – e che tutt’oggi ci rifresca l’animo, anche solo a ricordarlo.

Damiano Perini, marzo 2021