BARRIANI E IL SUO DEBOLISSIMO “MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO”: UNA PROPOSTA DI COMMITTENZA

*Articolo apparso su “Comunità”, aprile 2021, Tremosine sul Garda, pp. 9-10.

Leggo con soddisfazione e godimento il volume enciclopedico di Alfredo Cattabiani, “Santi d’Italia. Vita leggende, iconografia, feste, patronati, culto”. Il sottotitolo la dice lunga, e il libro infatti è una raccolta (quasi) esaustiva dei santi italiani o che comunque in Italia hanno trovato una forte venerazione (come Caterina d’Alessandria). Lo scrittore tiene conto sia dell’agiografia ufficiale ecclesiastica e delle testimonianze storiche, ma anche e soprattutto di leggende e tradizioni popolari; e le racconta sullo stesso piano di importanza. Il registro è quello favolistico, il linguaggio sciolto e veloce. Un libro che coinvolge e si legge bene, e si colloca senza dubbi sulla scia della tradizione agiografica che parte da Jacopo da Varazze.

Scopro così della durissima e faticosa vita di Padre Pio da Pietrelcina, della austera vita di San Zeno di Verona (il quale si nutriva unicamente dei pesci da lui stesso pescati nell’Adige), delle imprese epiche di Sant’Eustachio, che salvò Matera dall’assalto dei Saraceni; ricordo della coraggiosa vita di Francesco di Paola, dell’impresa avventuriera di Colombano di Bobbio (fondatore del celebre monastero), dell’erudizione di Chiara d’Assisi, dell’umiltà e della modestia di Damiano e Cosma (“due medici detti anargiri, cioè ‘senza denaro’ perché secondo la tradizione praticavano la medicina senza chiedere compensi”).

Ma leggo con passione e orgoglio cristiano anche della vita di San Bartolomeo apostolo. Il Santo, patrono  tra il resto della parrocchiale e dei parrocchiani di Vesio, pur essendo poco considerato dai Vangeli sinottici (appare nell’elenco in associazione a Filippo) e assente nel Vangelo di Giovanni (il nome è sostituito con Natanaele), è protagonista di diversi episodi, anche abbastanza macabri e – come diciamo dopo Tarantino –pulp. “La tradizione gli attribuisce lunghi viaggi missionari in vari Paesi dell’Oriente, dall’Arabia Felix alla Partia alla Mesopotamia, e infine in Armenia dove fu martirizzato: crocifisso secondo gli orientali, decapitato secondo i Martirologi di Rabano Mauro, Adone e Usuardo. La morte per scuoiamento è sostenuta invece da Isidoro di Siviglia e dal Martirologio di Beda” –  riferisce Cattabiani; è proprio quest’ultimo caso di martirio che ha ispirato le leggende e l’iconografia nell’Occidente cristiano.

Un’iconografia che è visibile anche nella chiesa di Vesio, nel lato destro del presbiterio, su un enorme dipinto, a cui corrisponde di fronte l’episodio antecedente della Chiamata di Gesù. Dell’autore si sa poco se non il cognome, un certo Barriani di Brescia; sulla targhetta metallica posta al di sotto delle opere è riportata la data 1866. Né – ammetto con sconforto – mi sono interessato più di tanto a questo pittore, tale è la scadenza dei due risultati che ho sott’occhio. A essere buoni, l’unico elemento della “Chiamata” gradevole è il cielo: vagamente suggestivo, lievemente carico di fausti presagi, con quei toni rossastri all’orizzonte come di un’alba che chiude dietro di sé una notte, e schiude un nuovo giorno e una nuova luce: quelli di Cristo e della nuova èra. Per il resto, il gruppo degli apostoli è, dal punto di vista pittorico, maldestramente ammassato attorno a Gesù, scioccamente al centro della composizione, rispettando una simmetria infantile e poco originale. Le figure sono sproporzionate (basti guardare le grandezza delle mani e dei piedi con quella dei corpi); le vesti rigide e sgraziate; le pose inverosimili e squilibrate. I volti sembrano caricature; i due personaggi più laterali sono inguardabili, i loro volti tanto allungati che paiono musi di cavallo.

Il Martirio di San Bartolomeo, che fa da pendant, riprende lo stesso schema del precedente: ammassamento centrale e simmetria scolastica, tratti bruttissimi, pose ferme e poco plastiche, i gesti sono congelati e irrealistici, i volti e le azioni non esprimono emozioni alcune. Il dipinto, e chiudo il lugubre elenco di commenti, non è armonico; in altre parole, non ha anima. E un’espressione artistica che non ha anima non ha la potenza per essere recepita da chi la osserva, o, nel mio caso di cristiano, per essere contemplata. È un’opera così inutile, incapace di trasmettere il messaggio di cui si fa carico. E quindi la carneficina del Santo apostolo, il dolore e la passione provate dal martire sono ai nostri occhi disegno fatto male e nulla più.

Si guardi, per avere un confronto, la statua di San Bartolomeo posta nel Duomo di Milano: la carne scuoiata è percettibile e fa venire i brividi al solo sguardo. Si guardi, un altro esempio tra i più noti, il San Bartolomeo di Michelangelo della Cappella Sistina: la molle e cadente pelle tenuta in mano dal santo fa accapponare la nostra, di pelle. Mi viene a questo punto un’idea, utile anche come suggerimento: il tempo in cui viviamo non è adatto, ma commissionare due nuove opere, della stessa misura e con lo stesso soggetto, a un artista contemporaneo potrebbe essere una soluzione. Il nome è quello di Giovanni Gasparro, pittore italiano di arte sacra contemporaneo: solito a scene tetre in ambientazioni oscure e inquietanti, di scene capaci di evocare e provare l’agonia dei personaggi rappresentati: perfetto per rappresentare San Bartolomeo.

Damiano Perini

IL LEGNO CHE PRENDE VITA GRAZIE ALL’ARTE DI GIACOMO LUCCHINI

L’ebanisteria, intesa nelle sue forme più sublimi di intaglio e intarsio, è un’espressione squisitamente frutto dell’ingegno e dello spirito umano, un’attività duplice, come un Giano Bifronte, al contempo arte e artigianato. Questa sua doppia caratteristica però, questo suo essere, per così dire, borderline, è forse il motivo principale della sua scarsa, o comunque minore considerazione rispetto alle arti maestre (pittura, scultura: non a caso l’ebanisteria è sempre stata definita, appunto, una “arte minore”).

Si può dire sia un’espressione artistica che necessità di grande abilità tecnica, concentrazione, esperienza; ma viceversa è anche una manifattura che abbisogna di creatività, immaginazione, conoscenza e animo artistico. Insomma, un ebanista per forza di cose è sia artigiano che artista.
Deve essere per questa difficoltà a classificare l’ebanisteria che nei manuali di storia dell’arte difficilmente si ha traccia, non di una storia, ma solo un breve accenno ai grandi intagliatori che si sono susseguiti. È materia purtroppo ancora troppo sottaciuta e confinata tra gli specialisti o antiquari.

Da questo oblio non si esime neppure Giacomo Lucchini, straordinario intagliatore trentino, originario di Castel Condino, vissuto agli inizi del Diciottesimo secolo, di cui si trova traccia in qualche sporadico scritto e per di più difficile da reperire. Siamo soliti, ormai un’abitudine, considerare il fine intagliatore Giacomo Lucchini in riferimento a Tremosine sul Garda; e è giusto così: alla Pieve dello stesso comune, infatti, instaurò bottega per la durata di circa trent’anni, lavorando un numero elevato di pregevoli oggetti. Le sue poche notizie sono ricavate da queste opere, e sono documentate dal 1700 al 1729.

Bisogna trovarsi dinnanzi, o meglio direi immersi in questa serie d’intagli della parrocchiale di san Giovanni Battista di Tremosine s/G, per comprenderne la magnificenza, la sontuosità, l’eleganza, la raffinatezza. Per la chiesa di Pieve Giacomo Lucchini realizzò dapprima intagli per l’organo e la cantoria in legno di larice, e successivamente, in noce, i confessionali, gli stalli del coro, la cattedra, il bancone armadio della sacrestia, dossali e cornici. Altro che “arte minore”: con Lucchini il legno si anima, prende vita sottoforma vegetale: racemi, foglie e verzura paiono mossi dal vento, oppure da un qualche moto sovrannaturale, soffio divino. I Putti del coro parlano, si esprimono con tutta la loro corporeità: linguaggio non verbale, chiaro, deciso coinvolgente.

Di lui ne parla Elisa Cassoni (2008), evidenziandone per questi lavori “l’uso di un vibrante intreccio di nastri e di elementi naturali”, e sottolineando come lo stile di Lucchini sia basato sul movimento. Chi ha parlato però forse meglio di tutti e in modo più approfondito di questo intagliatore barocco (ma ricondotto al “barocchetto”) è Valerio Terraroli. Scrive il professore a proposito delle raffigurazioni intagliate: “un mondo semplice e quotidiano dove allegoria e natura convivono armoniosamente”, in cui si fondono “ridondanza di intrecci”, un “infinito repertorio di temi naturalistici”, e una “briosità” d’insieme.

Un “rutilante repertorio fitomorfo” e un “inesausto impulso decorativo” (Terraroli) del coro di Pieve che si trova anche nel mobile della sacrestia della parrocchiale di Limone sul Garda. Sicuramente opera dei primi anni Trenta – come conferma la data iscritta nel legno che riporta 1718 –, mentre teneva bottega a Tremosine. Il mobile è solenne: austero e icastico con quella cromia scurissima e severa tipica del noce e dalle dimensioni notevoli, 2,84 x 4,12 m, è un’opera in cui l’occhio si perde vagando per gli intarsi pregiatissimi e vari, mentre pare di essere “schiacciati” dalla sua maestosità.

Il mobile è in condizioni conservative ottime, anche per il recente restauro di Vincenzo Marini di Rovato. È diviso in due parti, basamento e alzato, per un totale di 18 cassetti divisi da 4 lesene. Repertorio strepitoso e variegato di frutta intagliata a tutto tondo, che funge da pomoli: grappoli di uva, melograni, mele, pere, fichi, prugne e cardi… frutti che sembrano veri, e se fossero colorati sicuramente invoglierebbero pure a mangiarli. Degni di particolare nota sono anche i 4 putti-lesena del basamento: come a Pieve essi paiono organismi carichi di vita propria, esuberanti nel loro gesticolare, nella loro espressione. E ovunque fiori, rami, vegetazione… un Eden esclusivo: sinuoso, levigato, spumeggiante, intarsiato.

(bibl. minima): G. Vezzoli, La scultura dei secoli XVII e XVIII, 1964; M. Trebeschi, D. Fava, Limone sul Garda, 1990; V. Terraroli, La scultura del Settecento nella Lombardia orientale, 1991; E. Cassoni, Altari, dipinti e sculture, 2008.

Damiano Perini