ICONA SACRA E CONTEMPORANEA. Sulla mostra di Sonia Costantini al Museo Diocesano di Brescia

L’ambiente non è dei più adatti, l’allestimento è arioso ma molto freddo, il manifesto è riduttivo e anzi smentisce tutte le basi su cui è costruita; eppure, la mostra Abitare l’eternità. Sonia Costantini e l’icona sacra, curata da Alberto Cividati (al Museo Diocesano di Brescia, fino al 23 marzo) è veramente suggestiva.

L’idea è molto semplice, e pure infinitamente profonda: il monocromo nella contemporaneità diventa la chiave d’accesso alla “Rivelazione”, equivalendo sostanzialmente alle icone sacre. Entrambe sono scritte, ci tiene a ribadire il curatore; scrivere, dice infatti  Cividati, “indica i gesti di codifica di qualcosa di spirituale, di trascendente, che si è intuito. La trascendenza di Dio è la spiritualità che si origina dal contatto con il mondo ed è respiro dell’immaginazione, il movimento di tutto ciò che riguarda il mondo degli affetti”.

In entrambi i casi, nell’icona e nel monocromo, c’è silenzio, contemplazione, e una certa tendenza all’estasi spirituale. Un’esperienza mistica insomma. Ce l’hanno insegnato Florenskij da una parte, e Rothko dall’altra; e qui al Diocesano di Brescia ce lo ripropongono Costantini e Cividati. Inutile aggiungere troppe nozioni teoriche, il mio vuole essere solo un invito a visitare la mostra.

Nella prima delle due sale si può vedere un contrasto non indifferente: un Cristo Pantocratore ieratico e una Annunciazione esattamente descritta sono messe a confronto di due grandi tele bianche e una blu: le prime due, Bianco ombra e Bianco luce, formano un dittico di sensibile raffinatezza, in cui la superficie vibrante tende a spegnersi o viceversa esplodere di luce come mossa da una segreta energia endogena; la seconda, Annunciazione blu, totalmente blu appunto, ricorda un’eternità pacata (i cieli di Giotto, i monocromi di Yves Klein).

È una mostra dove il colore è protagonista, strumento puro e assoluto, concreto eppure intangibile, in grado di intercedere con il divino. Un ponte, una scala verso il sacro.

“La monocromia insegna il linguaggio del colore, rivelandone infinite gradazioni e mostrando come ogni tono sia un mondo, un modo di essere, la puntualità di uno stato spirituale della propria anima. I monocromi frammentano l’icona, perché ne sono l’alfabeto, le note della melodia”.

Sono le parole di Alberto Cividati che ho scelto di riportare per la loro sensibilità. Fanno da introduzione alla seconda sala, in cui un’icona riccamente abitata da santi si moltiplica, nell’opera di Sonia Costantini, in un infinito polittico di ogni sorta di colore.

Prosegue Cividati, anticipando il confronto tra antico e contemporaneo: “ogni nota è un colore e l’insieme dei colori è la possibilità delle infinite melodie dell’umano sentire, preghiera e invocazione nella ricerca di qualcuno che possa ascoltare, comprendere e accogliere. L’azione del singolo monocromo non si costituisce solo nella relazione con gli altri monocromi, bensì ogni monocromo è accesso, sviluppo di un paesaggio proprio e punto d’inizio per ricostruire nella sua tonalità l’intero paesaggio dell’icona”.

La mostra è molto intelligente, interessante, e come detto molto suggestiva. Peccato per l’ambiente: troppo luce, stanze troppo sterili e freddo; tutto insomma cozzava con la bellezza delle opere e del dialogo tra le due parti.

E poi il manifesto. Una mostra dedicata al tema della sacralità del monocromo, lunghi e ricchi testi del curatore per introdurre a una nuova visione del colore puro, tanta fatica e ricerca per insegnarci a guardare alla nuova arte sacra, eppoi? Il blu di un’opera di Costantini è usata  come sfondo per la scritta su un manifesto? Ahinoi!

Luciano Cardo

SOGNI FATTI DI COLORE. Nello studio di Alice Faloretti

Tebaldo Brusato è un’arida piazza (nomen omen si potrebbe chiosare) collocata in un punto strategico nel centro di Brescia; all’estremità est di Via Musei – antico decumano, nonché luogo principale per cultura e arte della città – e parallela a Piazzale Arnaldo – punto di riferimento per lo svago notturno bresciano. Si aggiunga che è inverno e le poche piante presenti, completamente spoglie, paiono ancora più imbruttite; e che c’è un freddo, e un’umidità tale da stringere le ossa come in una morsa: una mattinata pressoché nella norma in quel di Brescia.

Mi trovo in Piazza Tebaldo Brusato perché ho appuntamento fuori da Palazzo Monti con Alice Faloretti, giovane artista bresciana, emergente eppure già lodevolmente riconosciuta. L’appuntamento è per le 9.30; sono in ritardo per la prima volta credo della mia vita, e di ben sei minuti. E una sagoma femminile completamente vestita di nero, chiusa in un cappotto ancor più scuro, è già sulla soglia, impaziente (o spazientita). È Alice, che da un po’ di tempo (non saprei da quanto) mi sta aspettando.

Non faccio fatica a riconoscerla, seppure sia la prima volta che la incontro. È evidente che è lei. Una figura alta e slanciata, dai modi aggraziati e dosati, tanto che mi ricorda certe Madonne del Parmigianino, benché più reale e sincera, e carina (i ritratti di Parmigianino hanno sempre quel vago sentore di malizia, che non trovo assolutamente in lei); un volto pieno e sorridente, dai tratti sottili che me la fanno pensare persona ben disposta e tanto affabile.

Così è, infatti. Alice sta traslocando da Palazzo Monti e nonostante tutto mi riceve e parla e racconta la sua storia, i suoi studi e le sue esperienze; senza fretta, senza disprezzo o malavoglia. E anzi, con la passione (e il sorriso – perenne è il sorriso con cui si rivolge, attitudine ammirevole) e l’entusiasmo con cui si dilunga mi fanno capire quanto amore ha per il suo lavoro. È una ragazza fine, non direi timida ma riservata, sicuramente non estroversa ma posata. Non parla troppo e nemmeno poco; il giusto, e dosato.

A Palazzo Monti è restata per un mese, grazie a un progetto di residenza (ossia vivere e pitturare condividendo gli spazi con altri artisti), e proprio oggi Alice Faloretti deve lasciare questa sede e tornare nel suo studio al MO.CA in Via Musei. Io ho la fortuna, per grazie sua, di vederli entrambi.

Si potrebbe fare una storia dell’arte raccontata e suddivisa per laboratori e atelier, o almeno questo è uno dei miei molteplici propositi. Alice Faloretti si troverebbe certamente nella sezione ‘ordine e diligenza’ (mentre, chessò, Schifano – di cui è risaputo lanciasse barattoli dopo aver prelevato del colore, e non oso immaginare l’ambiente – sarebbe all’opposto). Passi Palazzo Monti, che essendo un atelier aperto ogni giorno un po’ di attenzione in più è giustificata; ma chi in genere è ordinato lo è sempre. E ordine fisico significa ordine mentale (Woody Allen nella sua autobiografia A proposito di niente racconta di una sua ex ragazza o moglie non ricordo, di cui aveva perso la testa, che dormiva in una camera in cui regnava il caos: questa si rivelò poi una squilibrata).

Faloretti dà tutta l’impressione di essere persona appagata e pittrice soddisfatta; l’ordine e la rasserenata freschezza con cui illustra i suoi quadri la riscontro nell’ambiente in cui dipinge. I quadri accuratamente disposti, la camicetta da lavoro – tutt’altro che un cencio, si capisce – appoggiata all’attaccapanni, e le scarpe accuratamente collocate al di sotto. Un solo cavalletto è al centro della stanza, ma questo non è fondamentale per la sua pittura.

Mi spiega che per pitturare i suoi quadri usa una personale tecnica, lavora cioè inizialmente con tela a terra, su cui versa grandi campiture di colore, poi distese e fuse tra loro tramite spatola, e definite infine a pennello. Il colore, appunto. Perché il colore è per Alice Faloretti il principale elemento delle sue opere, colori puri che sono al contempo forma e materia, immagine e mondi irreali, o meglio, surreali eppure concretissimi. “È pittura informale? astratta? figurativa?” si chiederebbe l’esperto. Si potrebbe allora dire che è tutte queste cose insieme; o per assurdo che non ne è nessuna. Ma poco importa.

Nelle opere di Faloretti scorgo amalgami di colore pure fitomorfo che rimanda a paesaggi lontani, a una natura immaginifica. In effetti mi dice che sono paesaggi personali ricomposti su tela, paesaggi sia mentali che reali (questi dedotti dalle fotografie del padre), frammenti onirici, ricordi, memorie, che si fondono; anche grazie alla materia pittorica: è questa che guida l’evoluzione delle forme.

In questo senso Alice Faloretti prosegue una tradizione tanto forte quanto duratura, che è quella dei coloristi veneti, ovvero Tiziano, Giorgione, Tintoretto. Mi confessa che guarda molto soprattutto a quest’ultimo, ma anche a Marco Ricci (un paesaggista molto emblematico), e alla pittura fiamminga.

Che Alice sia una maestra del colore l’ho notato appena entrato nello studio. Nelle sue tele convivono colori che altrimenti soli sarebbero improponibili; invece questi scontri coloristici sono geniali, toccanti, evocativi. Una serie insomma di accostamenti cromatici accentuati, in cui dialogano con una sorta di odi-et-amo catulliano colori caldi e freddi. Non mi dimentico che Vasari parlava di una pittura veneta come di “tonale” e “atmosferica”; e allora che non ne sia Alice Faloretti una nuova discente, erede privilegiata di tale scuola?

La giovane pittrice inoltre, raccontandosi, non nasconde il suo amore per la lettura: non perde l’occasione per documentarsi, è sempre alla ricerca di suggestioni, e quasi sempre dal mondo dell’arte: pittura sì, ma anche cinema (ama Bergman, e non è da tutti). Poi mi sorprende con una dichiarazione, che al tempo corrente suona come una rivelazione. Perché ammette che è fondamentale, per l’artista, la conoscenza della storia dell’arte, “non dipingerei così se non avessi la cognizione del passato”.

Guardare il passato per creare il futuro. E per adesso questa risolutezza le sta dando ragione. Sicuramente l’ambiente di Venezia, dove si è diplomata all’Accademia di Belle Arti, ha contato molto.  Appena uscita dall’Accademia comunque, e appena cominciato a dipingere è stata subito notata. E questo non è da poco, in un mondo in cui essere artisti, e vivere da tali non è affatto semplice.

I suoi dipinti sono immediatamente riconoscibili: dote pregevole. Nonostante la tecnica sia bene o male utilizzata da molti, Faloretti riesce a ricavarne dei dipinti che difficilmente non si riconoscono, e ancora più difficilmente si dimenticano. I titoli –  che sono ricercati e hanno spesso un rinvio altro – e la firma sono dietro la tela: non ha bisogno di ostentare nulla, e anche perché si capisce subito che è un suo quadro.  E del resto questa delicatezza è coerente con la sua personalità.

E allora la ringrazio, lei mi saluta. E sta ancora sorridendo.

Damiano Perini

VELÀZQUEZ ALLA TOSIO MARTINENGO PER PROMUOVERE IL PITOCCHETTO: CE N’ERA PROPRIO BISOGNO?

Dal 26 novembre 2021 al 27 febbraio 2022 sarà esposto nella sala XII della Pinacoteca Tosio Martinengo, dedicata a Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, uno dei primi dipinti di Diego Velàzquez, Il Pranzo. Il comunicato stampa dell’ente è un baluginio di emozioni, sprizza entusiasmo a suon di aggettivi e avverbi. Si legge a esempio in un passo: “In mostra l’eccezionale prestito, finora mai esposto in Italia, de Il Pranzo […] proveniente da Ermitage, etc.” In più la cura del progetto è stata affidata a un nome di rilevanza, Guillaume Kientz, dal curriculum facoltoso e lunghissimo, sicuramente un grande studioso e competente, ma è altrettanto vero che nessuno del “grande pubblico” lo conosce, né tantomeno nessuno se ne ricorderà dopo; e in sostanza bisogna capire cosa ha arrecato di prezioso e nuovo, dunque se ne valesse davvero la pena. Ma questo è un altro discorso.

La mostra, intitolata “Velàzquez per Ceruti”, fa parte di un progetto di scambio e prestiti a livello internazionale, in questo caso tra Italia e Russia, “un’occasione di incontro e confronto tra due maestri della pittura”. Certo, lo scopo è intuibile: rileggere Giacomo Ceruti in funzione di Velàzquez. E è altrettanto certo l’intento concreto: promuovere Giacomo Ceruti, e più in generale la Tosio Martinengo, sfruttando come pretesto il nome celebre celebrissimo di Velàzquez. Un sistema più che lecito, un tentativo condivisibile; e più che giusto se si vuole richiamare l’attenzione sulla galleria bresciana, una chicca di pinacoteca, dotata di importanti opera e allestita in modo mirabile.

Il dialogo comunque tra i due maestri, il grande Velàzquez (1599-1660) e il minore Ceruti (1698-1767), pur breve è intenso; pur lapidario è esemplificativo; in virtù della schiettezza,  dell’immediatezza, è efficace, lampante. Giacomo Ceruti, che nasce a Milano ma praticamente è bresciano “d’adozione”, come si dice, è un pittore che si caratterizza per i soggetti particolarmente poveri delle sue opere, per la dignità della loro condizione, “in cui la ricerca del vero restituisce con nobiltà il senso del vivere quotidiano della povera gente”. Il tutto ambientato in spazi ancor più poveri, scarni e ombrosi; in cui la luce, inesistente all’esterno, è come se rifulgesse dai personaggi stessi. Una pittura pauperistica l’hanno definita, che ha fatto guadagnare al pittore nel Novecento il nome di Pitocchetto.

Ceruti artista origina dalla pittura naturalista del Seicento europeo; quello di Velàzquez, appunto. Ecco allora che l’opera Il Pranzo può dare nuova vita al Pitocchetto, in questo incontro-scontro alla Pinacoteca Tosio Martinengo. Una fatica colossale, un progetto ambizioso. Ma, lasciata la sala XII, ho come una sensazione amara in bocca, e un dubbio mi sorge: ce n’era proprio bisogno?

Si ripensi il progetto, e si affianchi al Pitocchetto un altro grande pittore di scene di vita quotidiana e misera; un pittore molto più vicino, più comodo e dalla logistica meno faticosa, il cui dialogo sarà egualmente eloquente: si ripensi il progetto, e si affianchi al Pitocchetto il bresciano Ugo Aldrighi.

Luciano Cardo

ANDREOLETTI È LA MIA NUOVA PASTICCERIA BRESCIANA PREFERITA

Dopo Pasticceria Veneto, dopo San Carlo, ora la Pasticceria Andreoletti è ufficialmente la mia nuova pasticceria preferita; a Brescia, s’intende. La nuova sede – dico nuova perché pochi anni fa era da un’altra parte, ci andai a fare colazione e non mi entusiasmò – si trova in Corso Cavour, civico 32. Si trova proprio nella parrocchia di Sant’Alessandro a due passi dalla chiesa dedicata, dove si può osservare tra gli altri il capolavoro ricolmo d’oro di Jacopo Bellini, una delle più belle rappresentazioni dell’Annunciazione dell’arte moderna in Italia.

Jacopo Bellini, Annunciazione, 1425-1435, Sant'Alessandro, Brescia
Jacopo Bellini, Annunciazione, 1425-1435, Sant’Alessandro, Brescia (Wikipedia)

Così dopo aver fatto due passi, dopo essermi goduto la pregevole opera veneziana, e fattomi  venire un appetito dignitoso, mi intrufolo nella pasticceria dalla nuova veste.

Sarà l’accogliente color Tiffany delle pareti (a grosse righe che mi ricordano Buren) con cui sono avvolto; o per la divisa delle giovani ragazze, gentilissime, che mi servono, in camicetta bianca e fiocchetto nero al collo; o per la qualità dei pasticcini. Naturalmente per tutte queste cose.

La crema con cui sono farcite le veneziane è libidinosa e giustamente equilibrata, i macarons sottilmente e impercettibilmente croccanti all’esterno si sciolgono in bocca, la sfoglia delle sfogliatine croccantissima. Peccato per il cappuccino, troppo schiumoso, tessuto grande della montatura che sembra un compattato d’aria. E per le tazzine grosse e grossolane che mi danno una sgradevole sensazione sulle labbra.

Ma le qualità superano i difetti, e così pasciuto pago il conto, soddisfatto e un po’ più dolce.

DP

DA DAVIDE LAZZARI, SOSPESI SUL COLLE DI CAPRIANO

Sembra impossibile a pensarci, eppure è proprio così: lì, tra le lande infinite della pianura coltivate a frumento, tra cascine, abnormi allevamenti di maiali e capannoni industriali; proprio lì, nel mezzo della Bassa Bresciana, si innalza – seppur leggermente – una collina inimmaginabile e di non poca estensione: aprica, ridente, solare.

Sono arrivato a Capriano del Colle, un paesino di circa 4,5 mila anime, posto a metà strada tra Brescia e Barbariga, il paese del Casoncello. La sorpresa è tanta, perché qui tutto è diverso. Dove sono capitato? È sufficiente oltrepassare il fiume Mella dalla pianura e si è trasportati in un ambiente opposto alla monotonia padana: vegetazione rigogliosa, alberi in fioritura da set cinematografico (sono i primi giorni di primavera), contadini sorridenti e piuttosto anziani che mi salutano; e, soprattutto, tanti, tantissimi campi vitati.

Sono arrivato dalla parte opposta della provincia per conoscere Davide Lazzari e visitare la cantina di famiglia. Davide è un parlatore dalla capacità innata, conosce precisamente il suo mondo e ancora meglio lo esprime benissimo, con scioltezza e semplicità. Lui rappresenta l’azienda in Italia (e nel mondo), mentre il fratello, il padre e il nonno – il fondatore dell’azienda – si occupano delle parte agronomica e vinificazione. “C’è molta complicità tra di noi, mettiamo sul tavolo le singole idee e le discutiamo”, mi dice Davide, “anche se a volte ‘begóm’”, scherza.

Forse è per questo, intuisco, che l’azienda ha trovato un certo prestigio nel panorama bresciano, nonostante la poca considerazione del territorio a livello vitivinicolo (Capriano è una DOC), non solo in Italia, ma pure all’interno della provincia. C’è alle spalle un sottile lavoro di promozione, oltre che ovviamente di ricerca qualitativa del vino, che si percepiscono in Davide in maniera chiara e netta. “Capriano del Colle non è conosciuto e ne siamo consapevoli; quindi bisogna lavorare sulla identità”, dice. Che si traduce in un grande lavoro in vigna, dando al suolo il vessillo di caratterizzazione.

Concetto di terroir che si sviluppa sui terreni del Monte Netto, così lo chiamano qua, “monte”, anche se l’altitudine massima è di soli 133 m s.l.m., e “netto”  per due ragioni possibili: “perché è da sempre ‘pulito’, privo di vegetazione, oppure ‘piano’, perché appare come tagliato”, mi spiega Davide. Il suolo qua è composto prevalentemente da argilla rossa, ricco di ferro per l’accumulo derivato dal fiume Mella, che scende dalla Valtrompia.

Tre sono gli appezzamenti dell’azienda: Feniletti, Le Brede e il Brolo di San Lorenzo; quest’ultimo forse il più romantico per il suo confinamento con la Chiesa di San Michele Arcangelo, dal campanile altissimo. In totale 9 ettari vitati, per un totale di circa 45 mila bottiglie annue. “La vigna è la parte caratterizzante”, non smette di ricordarmi mentre ci camminiamo vicino, ”la cantina serve solo a trasformare quello che ci sta qua davanti”. È un giorno di foschia, peccato, perché altrimenti dal punto in cui mi trovo si vedrebbero a sud gli Appennini e a nord le Alpi: un’isola ben definita che galleggia sul mare della Pianura Padana: ecco come mi appare ora Capriano del Colle.

Poi però torno alla realtà e comincio a avere sete. Propongo a Davide di tornare in cantina e provare i suoi vini (chissà altrimenti quanto sarebbe stato lì ancora a spiegarmi il loro lavoro in campagna). Le etichette sul mercato a oggi sono 5 (più un metodo classico, Adamah, di recente produzione), i cui vitigni cardine sono marzemino per il rosso e la turbiana per i bianchi. Il Fausto è “il vino del nonno”, a lui dedicato, e è un bianco di carattere.  Berzamì, ovvero marzemino in dialetto locale, è una delle espressioni più accattivanti che abbia mai bevuto di questa uva: piacevolmente speziato, acidità giusta, e di corpo fine. Adagio è un rosso rotondo, di struttura non troppo intensa e piuttosto di beva (anche troppo). C’è poi la Riserva degli Angeli, massima espressione del rosso prodotto in azienda, il cui vino è frutto di un diradamento intenso in vigna. Il vino che preferisco però, nemmeno a dirlo, è il Bastian Contrario: un bianco intenso e penetrante, dal corpo avvolgente e al contempo dotato di una acidità tagliante. Vino prodotto da uve attaccate parzialmente da muffa nobile, e vinificato in maniera attenta. Speriamo riesca a durare anche nella mia cantina per un po’ di tempo, così da conoscerne il comportamento in evoluzione. Ma la vedo dura.

DP