SOGNI FATTI DI COLORE. Nello studio di Alice Faloretti

Tebaldo Brusato è un’arida piazza (nomen omen si potrebbe chiosare) collocata in un punto strategico nel centro di Brescia; all’estremità est di Via Musei – antico decumano, nonché luogo principale per cultura e arte della città – e parallela a Piazzale Arnaldo – punto di riferimento per lo svago notturno bresciano. Si aggiunga che è inverno e le poche piante presenti, completamente spoglie, paiono ancora più imbruttite; e che c’è un freddo, e un’umidità tale da stringere le ossa come in una morsa: una mattinata pressoché nella norma in quel di Brescia.

Mi trovo in Piazza Tebaldo Brusato perché ho appuntamento fuori da Palazzo Monti con Alice Faloretti, giovane artista bresciana, emergente eppure già lodevolmente riconosciuta. L’appuntamento è per le 9.30; sono in ritardo per la prima volta credo della mia vita, e di ben sei minuti. E una sagoma femminile completamente vestita di nero, chiusa in un cappotto ancor più scuro, è già sulla soglia, impaziente (o spazientita). È Alice, che da un po’ di tempo (non saprei da quanto) mi sta aspettando.

Non faccio fatica a riconoscerla, seppure sia la prima volta che la incontro. È evidente che è lei. Una figura alta e slanciata, dai modi aggraziati e dosati, tanto che mi ricorda certe Madonne del Parmigianino, benché più reale e sincera, e carina (i ritratti di Parmigianino hanno sempre quel vago sentore di malizia, che non trovo assolutamente in lei); un volto pieno e sorridente, dai tratti sottili che me la fanno pensare persona ben disposta e tanto affabile.

Così è, infatti. Alice sta traslocando da Palazzo Monti e nonostante tutto mi riceve e parla e racconta la sua storia, i suoi studi e le sue esperienze; senza fretta, senza disprezzo o malavoglia. E anzi, con la passione (e il sorriso – perenne è il sorriso con cui si rivolge, attitudine ammirevole) e l’entusiasmo con cui si dilunga mi fanno capire quanto amore ha per il suo lavoro. È una ragazza fine, non direi timida ma riservata, sicuramente non estroversa ma posata. Non parla troppo e nemmeno poco; il giusto, e dosato.

A Palazzo Monti è restata per un mese, grazie a un progetto di residenza (ossia vivere e pitturare condividendo gli spazi con altri artisti), e proprio oggi Alice Faloretti deve lasciare questa sede e tornare nel suo studio al MO.CA in Via Musei. Io ho la fortuna, per grazie sua, di vederli entrambi.

Si potrebbe fare una storia dell’arte raccontata e suddivisa per laboratori e atelier, o almeno questo è uno dei miei molteplici propositi. Alice Faloretti si troverebbe certamente nella sezione ‘ordine e diligenza’ (mentre, chessò, Schifano – di cui è risaputo lanciasse barattoli dopo aver prelevato del colore, e non oso immaginare l’ambiente – sarebbe all’opposto). Passi Palazzo Monti, che essendo un atelier aperto ogni giorno un po’ di attenzione in più è giustificata; ma chi in genere è ordinato lo è sempre. E ordine fisico significa ordine mentale (Woody Allen nella sua autobiografia A proposito di niente racconta di una sua ex ragazza o moglie non ricordo, di cui aveva perso la testa, che dormiva in una camera in cui regnava il caos: questa si rivelò poi una squilibrata).

Faloretti dà tutta l’impressione di essere persona appagata e pittrice soddisfatta; l’ordine e la rasserenata freschezza con cui illustra i suoi quadri la riscontro nell’ambiente in cui dipinge. I quadri accuratamente disposti, la camicetta da lavoro – tutt’altro che un cencio, si capisce – appoggiata all’attaccapanni, e le scarpe accuratamente collocate al di sotto. Un solo cavalletto è al centro della stanza, ma questo non è fondamentale per la sua pittura.

Mi spiega che per pitturare i suoi quadri usa una personale tecnica, lavora cioè inizialmente con tela a terra, su cui versa grandi campiture di colore, poi distese e fuse tra loro tramite spatola, e definite infine a pennello. Il colore, appunto. Perché il colore è per Alice Faloretti il principale elemento delle sue opere, colori puri che sono al contempo forma e materia, immagine e mondi irreali, o meglio, surreali eppure concretissimi. “È pittura informale? astratta? figurativa?” si chiederebbe l’esperto. Si potrebbe allora dire che è tutte queste cose insieme; o per assurdo che non ne è nessuna. Ma poco importa.

Nelle opere di Faloretti scorgo amalgami di colore pure fitomorfo che rimanda a paesaggi lontani, a una natura immaginifica. In effetti mi dice che sono paesaggi personali ricomposti su tela, paesaggi sia mentali che reali (questi dedotti dalle fotografie del padre), frammenti onirici, ricordi, memorie, che si fondono; anche grazie alla materia pittorica: è questa che guida l’evoluzione delle forme.

In questo senso Alice Faloretti prosegue una tradizione tanto forte quanto duratura, che è quella dei coloristi veneti, ovvero Tiziano, Giorgione, Tintoretto. Mi confessa che guarda molto soprattutto a quest’ultimo, ma anche a Marco Ricci (un paesaggista molto emblematico), e alla pittura fiamminga.

Che Alice sia una maestra del colore l’ho notato appena entrato nello studio. Nelle sue tele convivono colori che altrimenti soli sarebbero improponibili; invece questi scontri coloristici sono geniali, toccanti, evocativi. Una serie insomma di accostamenti cromatici accentuati, in cui dialogano con una sorta di odi-et-amo catulliano colori caldi e freddi. Non mi dimentico che Vasari parlava di una pittura veneta come di “tonale” e “atmosferica”; e allora che non ne sia Alice Faloretti una nuova discente, erede privilegiata di tale scuola?

La giovane pittrice inoltre, raccontandosi, non nasconde il suo amore per la lettura: non perde l’occasione per documentarsi, è sempre alla ricerca di suggestioni, e quasi sempre dal mondo dell’arte: pittura sì, ma anche cinema (ama Bergman, e non è da tutti). Poi mi sorprende con una dichiarazione, che al tempo corrente suona come una rivelazione. Perché ammette che è fondamentale, per l’artista, la conoscenza della storia dell’arte, “non dipingerei così se non avessi la cognizione del passato”.

Guardare il passato per creare il futuro. E per adesso questa risolutezza le sta dando ragione. Sicuramente l’ambiente di Venezia, dove si è diplomata all’Accademia di Belle Arti, ha contato molto.  Appena uscita dall’Accademia comunque, e appena cominciato a dipingere è stata subito notata. E questo non è da poco, in un mondo in cui essere artisti, e vivere da tali non è affatto semplice.

I suoi dipinti sono immediatamente riconoscibili: dote pregevole. Nonostante la tecnica sia bene o male utilizzata da molti, Faloretti riesce a ricavarne dei dipinti che difficilmente non si riconoscono, e ancora più difficilmente si dimenticano. I titoli –  che sono ricercati e hanno spesso un rinvio altro – e la firma sono dietro la tela: non ha bisogno di ostentare nulla, e anche perché si capisce subito che è un suo quadro.  E del resto questa delicatezza è coerente con la sua personalità.

E allora la ringrazio, lei mi saluta. E sta ancora sorridendo.

Damiano Perini