ANCORA DUE COSE SU FRANCO CHIARANI. Un’altra visita allo studio del maestro trentino

Potrei tornarci ancora per dieci, cento, mille volte in quello studio – laboratorio – cantina dove Franco Chiarani crea le sue opere, che lo stupore non verrà mai meno. Ogni sua opera è come vivesse, e lo capisci solo guardandola. Pulsa di vita propria: è l’anima dell’artista. E non è una magia: è il duro e certosino lavoro di un uomo, unito al talento innato e alla inesausta volontà di ricerca. In fondo è proprio questo l’artista.

Non voglio dilungarmi troppo, alcune cose le ho già dette, e questo è (o comunque vorrebbe esserlo) un blog edonistico, non un bugiardino o un libretto per le istruzioni, e meglio evitare le ripetizioni. Però giusto due cose da aggiungere mi sento in dovere di scriverle.

Chiarani è un autodidatta, e nel corso della sua lunga vita di artista non ha mai smesso di sperimentare, arrivando piano piano a rasentare il limite della perfezione. Se si guardano i quadri degli inizi di carriera e gli ultimi ancora in corso di lavorazione (io ho avuto la fortuna di vederli uno accanto all’altro, e credo pochi anzi pochissimi altri – e è per questo che sto scrivendo questo pezzo) il confronto è come una botta secca alla testa. Non tanto perché c’è una differenza di qualità o stili o ecc. (quella la giudicheranno i critici severi); ma piuttosto nel constatare il paziente e faticoso lavoro per arrivare a una cifra stilistica che faccia dire: cazzo, questo è Chiarani! con quel “cazzo” che sta per “wow che qualità straordinaria!”.

L’intera opera di Chiarani, ma in particolare gli ultimi vent’anni, pone grandi interrogativi sul tema sempiterno del finito-non finito. Il non finito di Chiarani è magistrale, ma anche ricercatissimo; pochi come lui, credo, hanno un’attenzione così maniacale: intendiamoci, un’opera che non è finita non è un’opera che utilizza il non finito come mezzo e tecnica.

Le opere di Chiarani non sono infatti per tutti. Non è snobismo; ma per giudicarle o per lo meno comprenderle bisogna avere una minima educazione all’arte e all’immagine (lo sguardo insomma deve essere minimamente allenato). Certo, poi possono piacere o meno, ma quello è un altro discorso.

Le opere di Chiarani sono frutto di un lavoro minuzioso, lento, riflessivo. E chi potrebbe dirlo dandoci un semplice sguardo, passandoci davanti magari  frettolosamente in una mostra?!. Sono opere che richiedono una spiegazione (a questo servono i critici, del resto), due parole con l’artista, la conoscenza della tecnica.

Soprattutto di quest’ultima, perché le figure evanescenti eppure concretissime del Chiarani compaiono (o scompaiono, è lo stesso) da campiture vibranti, così concrete che è come fossero veri luoghi (si guardino i “paesaggi”: dov’è la mimesi tanto cara ai romantici? Qui o negli iperrealisti?). E questi sfondi sono anche sentimenti materializzati sotto forma di terre saggiamente fuse con il supporto della carta, sentimenti che aleggiano su figure assolute.

Proprio questo è il segreto di Chiarani, la parsimonia e la capacità di fondere il supporto alla materia, da cui nascono e insieme muoiono i suoi personaggi. Questi sono figure enigmatiche e straordinariamente duplici. Allo stesso tempo compaiono e scompaiono, sono vive eppure morte; sono i fantasmi di esseri umani che potremmo conoscere tranquillamente, anzi che incontriamo ogni giorno per strada, al lavoro, al ristorante. Sono esseri umani spogliati della loro corazza, della loro maschera quotidiana. E sono anche la concreta astrazione di anime, vagabonde e instabili, irrequiete e angosciate. Magari proprio le vostre.

DP

LA NUOVA MONOGRAFIA DI DAMIANO PERINI È UN CAPOLAVORO DI PROSA D’ARTE. Il volume raccoglie la vita artistica di Anastasia Rainelli con un linguaggio che è insieme critica e narrazione

È stata pubblicata (formato cartaceo, chiaro: a colori, cm 26×20, carta patinata) la nuova monografia di Damiano Perini, Anastasia Rainelli. Vitale ossessione materica (2022, pp. 96), dedicata alla prolifica e combattuta artista tremosinese.

Il catalogo gentilmente donatomi – che sfoglio con un piacere tattile e puerile; che osservo con voracità pagina dopo pagina – è una sorta di biografia per immagini della pittrice Anastasia Rainelli, in arte Aray. Un susseguirsi di opere – divise per capitoli, tanti quanto le fasi artistiche dell’artista, così come le ha concepite il curatore – permette di comprendere la vastità e la continua sperimentazione negli anni di Rainelli: mai ferma, mai sazia del proprio lavoro, e sempre alla ricerca di suggestioni dal vissuto quotidiano che la possano stimolare e ispirare nuovo opere.

Così pagina dopo pagina passo in rassegna i lavori fotografici (“Diario”), quelli della prima fase accademica (“Carne”), la ricerca tonale e strutturale (“Forme e colori”), sino alla fase più recente, materica e fisica (“Gesto e materia”). E scopro una vita, quella artistica di Rainelli, dalla sua formazione alla consapevolezza degli ultimi anni.

Ma a fare la differenza – per noi poveri lettori, avulsi o quasi dal mondo dell’arte – è il testo, brillante, di Perini. L’avevo intuito dalla splendida introduzione che il catalogo poteva essere inteso come opera a sé stante: in poche e chiare parole è racchiuso tutto quel mondo di immagini (misteriose a chi non conosce l’artista; incomprensibili a chi non mangia, per così dire, pane e arte tutti i giorni). Damiano Perini, con uno sforzo comprensibile, ci regala una grande emozione.

Nel saggio della postfazione, poi, il critico supera sé stesso. Con un linguaggio chiarissimo, limpido, scorrevole, piacevolissimo da leggere e, soprattutto, coinvolgente, Perini ci racconta delle opere e della vita artistica dell’artista mischiando in modo magistrale la metrica artistica a quella narrativa. Il gergo diventa accessibile a tutti, operatori del settore o semplici appassionati. Una scrittura appassionata e passionale che descrive raccontando le opere e l’artista; non senza tralasciare sapide considerazioni sulla storia dell’arte e aneddotica varia.

Ci si fidi del sottoscritto: Il catalogo dedicato a Anastasia Rainelli è un delizioso e interessantissimo testo da leggere e rileggere, con piacere: piacere per l’arte, per la cultura, per la Bellezza. Ci si fidi, insomma, del sottoscritto: si legga la nuova monografia di Damiano Perini, sicuramente tra i migliori prosatori d’arte degli ultimi anni.

Ruggero Scudieri

TRA PSICHEDELIA E SPIRITUALITÀ . L’installazione di Dan Flavin presso Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, Abbiategrasso

Luogo strano, Abbiategrasso. Non so perché, ma l’immagine che ho di questo comune della periferia a sud di Milano, è di un paese grigio, plumbeo, smorto, triste (e questo a prescindere dalla stagione e dal meteo). Non me ne vogliano gli abitanti, ma Abbiategrasso è l’esempio di periferia da riqualificare, da far rivivere; è tutt’altro, per capirci, dai loci amoeni che sprizzano verde e sorgenti d’acqua pura.

La riqualifica però qua è partita da tempo, e proprio a partire dai colori. Nel 1996, grazie alla Fondazione Prada, viene installata nella basilica di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, a Abbiategrasso, un’opera (postuma) di Dan Flavin, il celebre artista di New York (tra i big del Minimalismo e dell’Espressione Astratto americano, morto proprio in quell’anno).

 

L’opera (permanente) site-specific prevede l’illuminazione dell’interno della chiesa con la luce fluorescente dei neon, elementi che caratterizzano l’arte e la poetica di Dan Flavin. I colori sono quelli primari. Esattamente: la navata è illuminata con il blu, il transetto con il rosso, e l’abside – culmine sacro –  con il giallo.

I colori primari tendono all’armonia, o vogliono comunque tendere a un’armonia alta e assoluta. Questo lo hanno detto i teorici dei colori e dell’arte (si veda Goethe su tutti), lo hanno cercato di rappresentare i più grandi pittori e coloristi della storia (si veda Mondrian su tutti).

E così sono pervaso di questa luce all’interno dell’edificio sacro a Abbiategrasso. E la domanda che sorge spontanea in questa immersione mistica e spaesante, comunque sicuramente toccante, è questa: è psichedelia o spiritualità?

La luce fluo non respinge ma accoglie, anche se certo è stravagante. La luce del neon, per sua stessa natura, è soffusa, leggera, non è diretta come quella delle lampade; quindi si ha come la sensazione di essere avvolti da questa luminosità granulosa, equamente distribuita. Nel basso e nelle pareti i riflessi si mischiano in un effetto di temporanea sospensione. Si avverte a un tempo il peso e la leggerezza di questa luce lisergica.

Epperò non è trash, non è pacchiano, un certo alone di spiritualità lo si avverte nell’ambiente. È l’abate Sugerio, il teorico della luce delle cattedrali gotiche, che ritorna; è Plotino, e la sua luce spirituale che ci riveste in altro modo.

Oppure mi sono fatto lasciare prendere troppo, e la trascendenza si è fatto vaneggio.

Luciano Cardo

SGUARDI MAGNETICI DALLE PROFONDITÀ MARINE. LA MOSTRA PERSONALE DI MARTA SESANA ALLA GALLERIA MILANESE DIMORA ARTICA

Passeggio tranquillamente per le vie di un quartiere appena fuori dal centro di Milano, e d’improvviso mi ritrovo assalito da un ammasso di sguardi, pare allucinati, folli; e comunque intensi, penetranti, taglienti. Stavo cercando Dimora Artica, piccola galleria che quel giorno inaugurava la mostra personale di Marta Sesana, Bassa marea, curata dalla galleria stessa e Deborah Maggiolo (dal 25 ottobre e visitabile fino al 21 novembre 2021), e senza accorgermene ne sono inghiottito.

Quegli sguardi magnetici e difformi che mi hanno richiamato all’interno della piccola stanza (tant’è la galleria) non sono quelli delle numerose persone arrivate anch’esse per l’inaugurazione, ma provengono dalle opere di Sesana, dai suoi soggetti incastonati l’uno nell’altro che affollano le tele, dall’atmosfera claustrofobica, in una sorta di horror vacui oceanico, abissale. Del resto, il mondo marino è solo un «pretesto», come fa notare la curatrice Maggiolo.

Quelli di Sesana sono luoghi immaginifici, mondi, anzi universi oscuri in cui all’interno si muovono strani esseri antropomorfi, dalle sembianze marine ma dalle espressioni anche sin troppo umane; da queste si scorgono tristezza, rabbia, inquietudine, solitudine, vaghezza, sorpresa, spavento, sgomento. Tutto raccolto in un clima sospeso e atemporale, di una immobilità metafisica.

Sono visioni chiare, limpide; rappresentate con grande lucidità mediante un linguaggio pittorico sapiente e personale, immediatamente riconoscibile. Una pittura caratterizzata dalla plasticità delle forme, chiaroscuri netti e luce vibrante.

Ero a conoscenza del talento di Marta Sesana, brianzola e classe 1981. Sapevo della sua arte, già definita da Camillo Langone «liquida» (Eccellenti  Pittori, Marsilio, 2013), del «dono della profondità di campo», della caparbietà nell’utilizzo di olio e tempera; tutte cose che le permettono di guadagnarsi la definizione di «Maga della Tridimensione» dallo stesso Langone.

Ma ancora di più trovandosele di fronte, queste tele di Sesana appaiono di una profondità disarmante, tangibile mi spingo a dire. Figure che sembrano di pongo (le stesse dei suoi modellini in das da cui parte) si staccano con forza dalla superficie e a loro modo comunicano. La terza dimensione – ottenuta non direi per prospettiva albertiana ma grazie alla luce alla maniera fiamminga – è un’illusione che si ripete di opera in opera.

Sono tele dai colori accesi, la cui tavolozza, osa Langone, «non ha nulla da invidiare a quella del Tintoretto»; anche se, per la levigatezza e la nitidezza di certe figura rispetto allo sfondo, mi viene da associarla più a Lorenzo Lotto.

La mostra è una visione frammentaria, spezzettata, di uno stesso luogo: è come essere immersi metaforicamente negli abissi di qualche oceano immaginario e fantastico e i quadri rappresentano gli oblò da cui si scorge questa gamma di terrificanti e al contempo buffi esseri; e, allo stesso modo del professor Aronnax a bordo del Nautilus, restarne estasiati.

E forse non sarei stato in grado di allestirla meglio, l’esposizione. Semplice e immediata: quadri appesi su superfici bianchissime, senza cartellini, spiegazioni o altre inutili ninnoli deconcentranti. La luce poi, fredda tendente al blu – artica, appunto –, che normalmente mi infastidisce, in questo contesto valorizza esaltandone il contenuto; e, per questa volta, mi è pure piaciuta.

Damiano Perini

AMINA PEDRINOLLA ARTISTA-FANCIULLA. STRATI DI CARTA E DI MEMORIA PER UN RITORNO ALL’IO BAMBINO

Conosco Amina Pedrinolla in modo del tutto fortuito, grazie alla mostra collettiva Origini, segni, percorsi curata da Roberta Bonazza e svoltasi al Forte superiore di Nago (TN) dall’ 11 settembre al 3 ottobre. Una mostra molto essenziale, concentrata e nel complesso semplice ma, ammetto, dotata di una grande forza espressiva, in grado di attrarre persino una persona pigra e distratta come me.

Uno dei motivi che mi portano a visitare questa mostra è il Forte di Nago, un edificio austero, rigoroso e massiccio; ma al contempo uno dei luoghi più strategici e suggestivi dell’Alto Garda perché costruito su uno sperone di roccia a un altitudine di circa 200 metri, che permette una vista sbalorditiva sul lago.  

L’altro è la scelta eclettica delle opere esposte dei quattro artisti (di origine locale) che mi permette di guardare in una volta sola e tutte assieme forme espressive diverse, in sale gravi, severe (dal tono militare, appunto) ma che ben si addicono a un’esposizione artistica; anzi, è come se fossero capaci  di intensificare le facoltà contemplative.

La mia attenzione cade subito sull’allestimento, squisitamente chiaro, pulito, incoraggiante. Le prime opere che incontro sono gli oggetti di Maria Grazia Staffieri,  posti di fronte come in una sorta di dialettica a quelli di Nicola Manfrini. Le forme sinuose e ireniche della prima combattono scherzosamente con quelle più nervose e aguzze del secondo, inquietanti aculei e minacciosi spuntoni.

Sono rapito poi dalla sala più estrema per via delle sculture lignee di Maurizio Lutterotti, pure illusioni pareidolitiche per le quali, in luogo di informi pezzi di ulivo vedo San Giuseppe, Cristi crocifissi e, soprattutto, una incredibile Maria Maddalena straziata dal dolore, che mi riporta a Bologna, davanti al Compianto di Nicolò dell’Arca.

Tra tutte queste opere, in uno spazio poco più ampio, respirano e si mostrano in pacata libertà i quadri di Amina Pedrinolla. Appoggiati a terra piuttosto che stesi su tavolini o appesi al muro, queste opere esprimono due stati d’animo opposti allo stesso tempo. Da una parte mi rasserenano e in un certo modo rassicurano, vedo gioia e armonia; dall’altra mi inquietano. Perché?

Mentre guardo più da vicino uno di quei quadretti mi si avvicina una signora che piano piano, quasi timidamente, prima si presenta e poi, incalzando, con una voce così soave e un linguaggio così fluido che non smetteresti di ascoltarla, si racconta. Lei è l’artista in questione, è lei Amina che leggo sul cartellino.

Mi parla dei suoi studi di architettura, del suo passato lavorativo nei circuiti museali, tutte cose ritrovo nei lavori che ho di fronte, e della recente professione di artista a tempo pieno. Col tempo, in particolare negli ultimi due anni, è riuscita a convalidare una particolare tecnica espressiva che unisce il collage al pennello, il ritaglio all’illustrazione, il disegno con squadra e riga alle sfumature indefinite del colore; il figurativo al materico.

Il progetto di Amina Pedrinolla per la libreria Piccoloblu di Rovereto (fonte: @libreria.piccoloblu)

Mi parla di “strati della memoria”, alludendo a quelle forme bidimensionali create grazie alla sovrapposizione di diversi ritagli di carta, ognuna delle quali possiede un ricordo, ossia rappresentano memorie di persone, date, luoghi, affetti. In altri termini sono pezzetti di vita passata fissati insieme per vivere continuamente nel presente.

È una ricerca continua a ritroso verso la fanciullezza, verso un Io-Bambino con il tempo dimenticato ma non demolito; verso colori e immagini di tanti anni fa, offuscati e ingrigiti, ma non dimenticati né perduti completamente.

Due sono i temi che l’artista propone in mostra. L’uno ha a che fare con l’intimità della casa, intesa come luogo abitativo (guardo i quadri di Pedrinolla e mi sembra di leggere Emanuele Coccia: “Una casa è un’intensità che cambia il nostro modo d’essere e quello di tutto ciò che fa parte del suo cerchio magico”, Filosofia della Casa, Einaudi, 2021), sia come pretesto, simbolo di convenzioni recepite solo dall’uomo adulto (la progettazione, lo schema, il blocco, il limite), concepite con la rigidità della riga perfetta; da far esplodere in colori e sfumature, creatività e immaginazione, illimitate per definizione.

Scatto dall’esposizione di Nago (fonte: @amina.memoriamateria)

L’altro soggetto, trattato con maggior attenzione e serietà, pur conservando una straordinaria tecnica artistica ludica e creativa, gioiosa e armonica (qui il contrasto, lo stesso effetto di spaesamento che provoca il David Lynch più inquietante, e penso a Rabbits, e a quell’atmosfera opprimente accompagnata da risate forzate da talk televisivi) è quella della donna indifesa, “violata” come mi dice l’artista stessa. Infatti i soggetti rappresentati sono ragazze (o bambine, o donne, non saprei, ma non credo cambi, quella rappresentata è la natura femminile) disegnate con tratto nervoso; e che non sono le modelle di Balthus né le ballerine di Degas, piuttosto la Marcella di Kirchner o che so, i ritratti di Tracey Emin o, in altra ottica, di Vanessa Beecroft.

Fotogramma da Rabbits di David Lynch

Ma questi corpi non hanno volto, sono rappresentati di schiena, oppure, se anche ci guardano, sono coperti da una maschera. Una maschera che l’artista mi dice di lupo, la cui ispirazione è dovuta a una vera e propria maschera simile a lei appartenuta; ma che mi ricordano con molto più disagio quelle dei personaggi di Lynch.

È solo un attimo, un piccolo istante di spaesamento; un gioco sottile che è tipico dell’arte, di tutte le arti, che solo l’artista compiuto riesce a evocare. Vedo poi una bella serie di puttini dipinti con tratto veloce e dalla sprezzatura notevole, e che mi riportano in un mondo più semplice, festoso, gaudioso.

DP

CHE FINE HA FATTO VILLANESE, IL MORDACE ARTISTA CHE EBBE IL CORAGGIO DI OMAGGIARE DUCHAMP ALLA PIEVE DI TREMOSINE?

Che fine ha fatto Damiano Villanese,  l’artista mordace che ebbe il coraggio di omaggiare Duchamp e il Dadaismo in un piccolo paesino dell’Alto Garda Bresciano? Ricordo ancora con un sorriso quell’esposizione sfrontata di questo pressoché ignoto artista, che curiosamente porta il nome del sottoscritto, in quel vetusto borgo di Pieve di Tremosine sul Garda, in provincia di Brescia, in occasione della “Notte Romantica” organizzata da I borghi più belli d’Italia nel 2016.

In mezzo a pittori di quadretti di genere, che un critico cattivo avrebbe definito  i più “della domenica”, questo Villanese non si fece scrupoli a esporre opere assolutamente provocatorie, in pieno stile dada, non preoccupandosi di non venire capito o essere deriso. Nessuno in mezzo a quel pubblico conosceva Duchamp o il movimento a cui appartenne; immaginarsi se qualcuno sapesse che in quel 2016 correva il centenario dalla nascita del movimento!

Le opere di Villanese, disposte lungo i bellissimi vicoli di Pieve, non erano presiedute da nessuno; se non talvolta da un ometto simpatico e amichevole, che i paesani con confidenza chiamavano “Gianèto”. Nessuna traccia dell’artista in quel giorno, e nemmeno sono riuscito a dargli una età: poteva averne venti di anni come sessanta: un artista è sempre vivace di mente, e la fanciullezza in lui non muore mai.

Una scintilla, “Un lampo, poi la notte! – Bellezza fuggitiva/ dallo sguardo che m’ha fatto subito rinascere,/ti rivedrò solo nell’eternità?”, scriverebbe Baudelaire.  Di lui non si sa nulla, se non il nome scritto su un cartiglio, esposto come glossa, a mo’ di introduzione,  di fianco all’opera nel mezzo, in cui si leggevano le seguenti parole:

1916 – 2016

OMAGGIO AI CENTO ANNI DEL DADAISMO

E DI RIVOLUZIONE ARTISTICA “DUCHAMPIANA”

 

Con questa esposizione Damiano Villanese propone un omaggio alla più grande rivoluzione artistica degli ultimi secoli, particolar modo a colui che fu definito “l’uomo più intelligente del XX secolo”, Marcel Duchamp.

Più tardi, mentre ero al bar con amici, ho ricevuto per email, da indirizzo ormai non più valido, la seguente nota, scritta in terza persona da un autore anonimo. In allegato, il misterioso mittente inserì con scrupolosa cura le riproduzioni in formato fotografico di ogni singola opera. Questo che segue è quanto è rimasto di quella lettera.

DAMIANO VILLANESE: ESPOSIZIONE PER LA NOTTE ROMANTICA DEI BORGHI 2016

OMAGGIO AI CENTO ANNI DEL DADAISMO E DI RIVOLUZIONE ARTISTICA DUCHAMPIANA

 

È significativa, e particolarmente rilevante, la presenza dell’artista Damiano Villanese all’esposizione collettiva per la “Notte Romantica dei Borghi più Belli D’Italia” tenutasi alla Pieve di Tremosine sul Garda il 25 giugno.

La sua presenza assume una distinta importanza, non tanto per la personalità artistica, ma piuttosto per l’originale e coraggiosa scelta del tema offerto; importanza ancor maggiore se si pensa alla sterile e quasi anestetizzata cultura artistica di Tremosine, e alla medio-bassa capacità di ricezione del pubblico passante, per lo più ancora legato alla percezione artistica-estetica ottocentesca del quadretto di genere.

Il Villanese per l’appunto presenta con tutto orgoglio un personale omaggio ai cento anni del Dadaismo, in particolar modo ai cento anni dalla rivoluzione culturale, artistica ed estetica duchampiana (seppur il primo “ready-made” di Duchamp risalga al 1913, con la “Ruota di Bicicletta”, la piena consapevolezza  della nuova concezione matura attorno al 1916, in parallelo alla corrente dadaista).

Ma cosa s’intende con Dadaismo? Il Dadaismo è una corrente artistico-culturale nata a Zurigo nel 1916 e sviluppatasi tra Europa e Stati Uniti nel secondo decennio del XX secolo.  La base concettuale del movimento artistico la si deve a Marcel Duchamp, definito “l’uomo più intelligente del XX secolo” da Breton, ideatore inconsapevole di un nuovo modo di fare (o non-fare) arte grazie al  “Ready-made”, ovvero un oggetto già fatto preso da un contesto ordinario, modificato nel suo stato di oggetto comune con minimi interventi, attribuendogli dichiaratamente un significato artistico-estetico, spogliandolo  quindi di ogni attributo utilitaristico. Duchamp non utilizza strumenti o pratiche artistiche ma approfitta di ogni tipo di elementi preesistenti, favorendo nuove possibilità per l’oggetto, in cui avviene una “distorsione non formale ma semantica”.      

Si proponeva a questa guisa la  “riduzione dell’occhio retinico a favore di un “occhio” mentale”;  l’opera non si ferma alla proiezione superficiale visibile anche distrattamente, ma va “oltre” richiedendo più alla mente che non alla vista, che diviene un veicolo e non più destinazione. Non è un rifiuto dell’arte ma una “diversa considerazione delle sue possibilità”: l’idea di arte si dissocia dall’idea di bellezza. Gli oggetti, a detto proprio di Duchamp, sono selezionati “con indifferenza visiva e assenza totale di gusto”.

Va inoltre aggiunto che con Duchamp, ma con il Dadaismo in genere, assume particolare importanza la terminologia e la nominazione:  la parola diviene fattore estetico dell’opera d’arte, sua parte integrante e imprescindibile. Il testo non circoscrive o limita, ma anzi estende il significato.  Si sfruttano le possibilità dell’omofonia con la possibilità di oltrepassare i limiti del linguaggio giocando sui significati (o scambio di significati) dei termini.

Le opere esposte.

Per tutte queste ragioni negl’intimi e pittoreschi vicoli della Pieve nell’allestimento dedicato a Villanese troviamo un’ enorme porta logorata dal tempo e appoggiata al muro con il titolo “ImPortante, ma non per te”, e poco di fronte uno scheletro di letto di quasi cento anni, impolverato e appena uscito dalla cantina, montato in modo superficiale senza troppo zelo con la scritta “L’hai Letto ma non l’hai capito”.  Il titolo è quindi partecipe dell’opera e non è solamente un gioco di parole, ma assurge anche a provocazione nei confronti dell’osservatore con quel “non l’hai capito”. Sulla stessa riga intimidatoria e demoralizzante, per cui si lascia cadere ogni speranza di comprensione allo spettatore, è “telaio senza tela, ovvero l’inutilità del fare per l’incapacità di capire”, in cui un telaio che normalmente serve da supporto alla tela è esposto nella sua natura nuda e intoccata, come se fosse un opera fatta e finita; il principio s’identifica con la conclusione.  Altri interventi che richiamano il non-fare e giocano intorno al finito/non-finito sono i due pannelli, inizialmente cominciati a dipingere con della pittura a olio, ma poi sospesi e lasciati incompiuti (“definitivamente incompiuto: disarmonia in rosso” e “definitivamente incompiuto: arancione nel nero”) fino ad arrivare al più estremo “completamente non cominciato”, ovvero un quadro, con tela completamente lasciata bianca, incorniciato con una cornice: ancora una volta il non-iniziato coincide col finito. La chiave di lettura è sempre incuneata attorno all’ironia e alla provocazione, un sottile umorismo, da non dimenticare mai nell’osservazione  di queste opere.  Quasi un gioco enigmistico sono i due disegni su foglio pentagrammato, che uniscono musica e scacchi (sia il disegno su pentagramma che gli scacchi sono chiari riferimenti a Duchamp): “Scacco al re diesis abbastanza veloce” e “scacco al re un po’ lento”, in cui l’aggiunta al titolo in tono del tutto scherzoso di “abbastanza veloce” e “un po’ lento” che nulla hanno a che fare con gli scacchi, deriva naturalmente dalla natura del “re” di essere rispettivamente di 1/8 (nota croma) il primo e di 4/4 (nota semibreve) la seconda. Sempre un gioco di parole tra provocazione e ironia, questa volta sarcastica e ridicolizzante, coinvolge i due “Only look at Me”, due tavole ottometriche professionali in cui risultano evidenziate in rosso le lettere M e E, e quindi risulta che letteralmente l’osservatore deve guardare “ME”, cioè lui stesso, dato che  queste tavole servono proprio all’esercizio del vedere, o meglio al controllo di tale funzione. È un attacco sprezzante al narcisista assuefatto. Altra sferzata diretta al pubblico è l’opera forse più dadaista dell’intera esposizione, dal titolo “si acChiodomi pure, signore!”, che consiste in una vecchia sedia da cantina in legno il cui sedile è stato sostituito con un piano chiodato bianco e pervaso di vernice rosso sangue.

Con Damiano Villanese il dadaismo penetra nei vicoli e nei borghi dell’antica Tremosine. Un giorno alla Pieve ci si ricorderà di lui come quello che ha esposto come opera d’arte una vecchia e consunta porta inutilizzabile.  

Giugno 2016

Non so che fine abbia fatto il Villanese. Innegabile però quel soffio di ilarità e di cultura artistica che grazie a lui si godette in quei due giorni – e che tutt’oggi ci rifresca l’animo, anche solo a ricordarlo.

Damiano Perini, marzo 2021