“SILENZIO” ALLA GALLERIA CRAFFONARA È UNA MOSTRA RUMOROSA. Commento alle opere di Pedrinolla e Cavallari per la collettiva curata da Alessandro Togni

Potrebbe essere un imperativo, oppure una semplice condizione ambientale; ma in questo caso non c’è dubbio, è un ossimoro più che riuscito. “Silenzio”, la mostra che ho visitato alla Galleria Civica Craffonara di Riva del Garda, è una mostra rumorosa. Si tratta di un’esposizione (dal 12 al 27 novembre)  basata sul contrappunto dialettico di due artiste, Amina Pedrinolla, trentina, e Roberta Cavallari, ferrarese, dove il tema principale dei dipinti presenti ruota attorno al significato metafisico (e fisico) di silenzio, appunto. Un silenzio che è assenza, è sospensione, ma anche vuoto, solitudine, dispersione; talvolta inquietudine, angoscia.

Se il ‘silenzio’, però, è il punto d’incontro, il raccordo, l’abbraccio tra le due artiste, la ricerca e la strada che loro imboccano per arrivarci è diametralmente opposta. Ne conseguono opere terse, perturbanti, in un continuo altalenarsi tra la gioia, lo stupore, la sorpresa e la nostalgia (e quindi il dolore) per quanto riguarda Pedrinolla; mentre per Cavallari opere immobili, ansiogene, che richiamano un tempo all’interno del dipinto che obbliga lo spettatore a sentirsi partecipe di quell’attesa.

La tecnica diversissima utilizzata, certo; ma anche molto altro, e più profondo.

Il nuovo respiro simbolista di Amina Pedrinolla.

Le opere di Pedrinolla sono pervase da un movimento frastornante. All’apparenza, il silenzio: vero, un silenzio troppo umano, perché quella natura fortissima e rigogliosa di rumore ne fa, e tanto. Sto parlando dei quadri più essenziali di Amina Pedrinolla, quelli in cui la tecnica della calcografia riesce a restituire con leggerezza, con un tocco fievolissimo di colore le forze impressionanti della mondo naturale, e direi più in grande – pars pro toto –  dell’universo. È, nello specifico, un bosco che pervade e simbolicamente sovrasta e devasta la stabilità e convinzione umana, resa mediante una casa stilizzata; meglio, un volume accennato, essenziale di casa. Un tema feticcio tanto caro all’artista di Ala (l’architettura è alla base della sua formazione), che si ripete di opera in opera – infinite variazioni dello stesso modulo.

Guardandole bene queste opere racchiudono un qualcosa, come una forza, vaga e impercettibile, di sacro timore, di numinoso, che scuote e tocca chiunque le osservi. E vale per i dipinti su carta appena descritti, sia per i quadri più giocosi e dotati di colori squillanti, che in questa mostra è possibile vedere affiancati. Solo in apparenza, questi, trasmettono gioia e vivacità.

In questa serie di dipinti si nota un’altra tecnica cara a Pedrinolla, ossia l’inserzione frammentaria di disegni che si rifanno all’arte infantile; i modelli sono quelli della figlia, ma la chiave di lettura è dell’adulta, dell’artista consapevole. Tradurre è tradire, o comunque è sempre reinterpretare. È qui la natura duplice di queste opere e in particolare di questi disegni, o parti di essi è inequivocabile: questi hanno perso l’anima, per così dire, innocente tipica della fanciullezza, immagazzinando in se stessi il vissuto dell’artista. Sono questi disegni carichi di molto altro, e molto più pesante di quanto un bambino potrebbe fare.

E anche se questi frammenti di richiamo all’infanzia sono inseriti in un contesto solare, armonioso e idilliaco – in cui spesso il mare si alterna all’hortus conclusus, il simbolico giardino ‘chiuso’ medievale – l’insieme è è caratterizzato da un profondo senso di irrequietudine; il tempo è sospeso, tutto è immobile, e questo silenzio urla.

Ma dicevo: i richiami, i simboli. In un articolo uscito il 15 marzo del 1891, Albert Aurier definisce una nuova pittura, pubblicando di fatto quello che sarà il manifesto della Simbolismo, riconoscendo in Paul Gauguin la massima espressione. In poche parole, per Aurier la nuova arte dovrà avere le seguenti caratteristiche, essere cioè: ideista (che non è idealista), simbolista, sintetica, soggettiva e decorativa.

Formalmente quella di Pedrinolla, in queste serie di opere, è una pittura sintetica, ossia dotata di campiture piene, gli sfumati sono assenti, le figure sono sagome accennate, i fondi compatti; i luoghi rappresentati, poco caratterizzati, ammesso abbiano un’origine – come dire? –  retinica, sono luoghi interiori. E come ho detto in ogni tela sono presenti parziali stratificazioni di ritagli di carta e frammenti vari; è come se le opere fossero rattoppate con strati di memoria, di ricordi: e questi sono dettagli che rimandano a mondi altri, certo, ma allo stesso tempo hanno una valenza fortemente decorativa. E ancora: la prospettiva è inesistente, il mondo è piatto, a due dimensioni (come fanno i bimbi, gli alberi sono uno sopra l’altro, a cascata), le scale sono accennate. Mondi colorati, eppure oscuri.

Si prenda su mio consiglio due esempi, Emile Bernard e Paul Serusier, due tra i più importanti esponenti della scuola di Pont-Aven, e si provi a confrontare le loro con quell esposte in mostra di Pedrinolla: un nuovo soffio simbolista è come se sia calato improvvisamente, dal nulla, su Riva del Garda.

Le attese di Roberta Cavallari

Se Pedrinolla, pur inconsapevolmente, prosegue e riabilita in una nuova chiave il Simbolismo, Roberta Cavallari si allaccia a temi e soluzioni cari a Hopper e Domenico Gnoli. In mostra alla Craffonara si può notare come l’attenzione dell’artista si focalizzi sugli oggetti domestici della vita quotidiana, scorci di stanze perfettamente in ordine, sedie come unico soggetto, tappeti, e finestre. Ci sono primi e primissimi piani, gli oggetti sono dilatati con una volontà non iper-realistica, bensì magica, aleatoria. Al contrario di Pedrinolla la pittura si fa precisa, limpida, puntuale; gli spazi sono dotati di grande luminosità, e gli oggetti rappresentati sono fortemente plastici.

In questa stanze rappresentate da Cavallari pare che il respiro si faccia affannoso, e gli oggetti all’interno così freddi, algidi, portano con sé il silenzio come un fardello; attendono un qualcosa, è come se chiedessero aiuto immersi nella più totale immobilità, è come se implorassero gridando. Tutto tace; ma tacendo, questi oggetti, che chiasso che fanno!

DP

AMINA PEDRINOLLA ARTISTA-FANCIULLA. STRATI DI CARTA E DI MEMORIA PER UN RITORNO ALL’IO BAMBINO

Conosco Amina Pedrinolla in modo del tutto fortuito, grazie alla mostra collettiva Origini, segni, percorsi curata da Roberta Bonazza e svoltasi al Forte superiore di Nago (TN) dall’ 11 settembre al 3 ottobre. Una mostra molto essenziale, concentrata e nel complesso semplice ma, ammetto, dotata di una grande forza espressiva, in grado di attrarre persino una persona pigra e distratta come me.

Uno dei motivi che mi portano a visitare questa mostra è il Forte di Nago, un edificio austero, rigoroso e massiccio; ma al contempo uno dei luoghi più strategici e suggestivi dell’Alto Garda perché costruito su uno sperone di roccia a un altitudine di circa 200 metri, che permette una vista sbalorditiva sul lago.  

L’altro è la scelta eclettica delle opere esposte dei quattro artisti (di origine locale) che mi permette di guardare in una volta sola e tutte assieme forme espressive diverse, in sale gravi, severe (dal tono militare, appunto) ma che ben si addicono a un’esposizione artistica; anzi, è come se fossero capaci  di intensificare le facoltà contemplative.

La mia attenzione cade subito sull’allestimento, squisitamente chiaro, pulito, incoraggiante. Le prime opere che incontro sono gli oggetti di Maria Grazia Staffieri,  posti di fronte come in una sorta di dialettica a quelli di Nicola Manfrini. Le forme sinuose e ireniche della prima combattono scherzosamente con quelle più nervose e aguzze del secondo, inquietanti aculei e minacciosi spuntoni.

Sono rapito poi dalla sala più estrema per via delle sculture lignee di Maurizio Lutterotti, pure illusioni pareidolitiche per le quali, in luogo di informi pezzi di ulivo vedo San Giuseppe, Cristi crocifissi e, soprattutto, una incredibile Maria Maddalena straziata dal dolore, che mi riporta a Bologna, davanti al Compianto di Nicolò dell’Arca.

Tra tutte queste opere, in uno spazio poco più ampio, respirano e si mostrano in pacata libertà i quadri di Amina Pedrinolla. Appoggiati a terra piuttosto che stesi su tavolini o appesi al muro, queste opere esprimono due stati d’animo opposti allo stesso tempo. Da una parte mi rasserenano e in un certo modo rassicurano, vedo gioia e armonia; dall’altra mi inquietano. Perché?

Mentre guardo più da vicino uno di quei quadretti mi si avvicina una signora che piano piano, quasi timidamente, prima si presenta e poi, incalzando, con una voce così soave e un linguaggio così fluido che non smetteresti di ascoltarla, si racconta. Lei è l’artista in questione, è lei Amina che leggo sul cartellino.

Mi parla dei suoi studi di architettura, del suo passato lavorativo nei circuiti museali, tutte cose ritrovo nei lavori che ho di fronte, e della recente professione di artista a tempo pieno. Col tempo, in particolare negli ultimi due anni, è riuscita a convalidare una particolare tecnica espressiva che unisce il collage al pennello, il ritaglio all’illustrazione, il disegno con squadra e riga alle sfumature indefinite del colore; il figurativo al materico.

Il progetto di Amina Pedrinolla per la libreria Piccoloblu di Rovereto (fonte: @libreria.piccoloblu)

Mi parla di “strati della memoria”, alludendo a quelle forme bidimensionali create grazie alla sovrapposizione di diversi ritagli di carta, ognuna delle quali possiede un ricordo, ossia rappresentano memorie di persone, date, luoghi, affetti. In altri termini sono pezzetti di vita passata fissati insieme per vivere continuamente nel presente.

È una ricerca continua a ritroso verso la fanciullezza, verso un Io-Bambino con il tempo dimenticato ma non demolito; verso colori e immagini di tanti anni fa, offuscati e ingrigiti, ma non dimenticati né perduti completamente.

Due sono i temi che l’artista propone in mostra. L’uno ha a che fare con l’intimità della casa, intesa come luogo abitativo (guardo i quadri di Pedrinolla e mi sembra di leggere Emanuele Coccia: “Una casa è un’intensità che cambia il nostro modo d’essere e quello di tutto ciò che fa parte del suo cerchio magico”, Filosofia della Casa, Einaudi, 2021), sia come pretesto, simbolo di convenzioni recepite solo dall’uomo adulto (la progettazione, lo schema, il blocco, il limite), concepite con la rigidità della riga perfetta; da far esplodere in colori e sfumature, creatività e immaginazione, illimitate per definizione.

Scatto dall’esposizione di Nago (fonte: @amina.memoriamateria)

L’altro soggetto, trattato con maggior attenzione e serietà, pur conservando una straordinaria tecnica artistica ludica e creativa, gioiosa e armonica (qui il contrasto, lo stesso effetto di spaesamento che provoca il David Lynch più inquietante, e penso a Rabbits, e a quell’atmosfera opprimente accompagnata da risate forzate da talk televisivi) è quella della donna indifesa, “violata” come mi dice l’artista stessa. Infatti i soggetti rappresentati sono ragazze (o bambine, o donne, non saprei, ma non credo cambi, quella rappresentata è la natura femminile) disegnate con tratto nervoso; e che non sono le modelle di Balthus né le ballerine di Degas, piuttosto la Marcella di Kirchner o che so, i ritratti di Tracey Emin o, in altra ottica, di Vanessa Beecroft.

Fotogramma da Rabbits di David Lynch

Ma questi corpi non hanno volto, sono rappresentati di schiena, oppure, se anche ci guardano, sono coperti da una maschera. Una maschera che l’artista mi dice di lupo, la cui ispirazione è dovuta a una vera e propria maschera simile a lei appartenuta; ma che mi ricordano con molto più disagio quelle dei personaggi di Lynch.

È solo un attimo, un piccolo istante di spaesamento; un gioco sottile che è tipico dell’arte, di tutte le arti, che solo l’artista compiuto riesce a evocare. Vedo poi una bella serie di puttini dipinti con tratto veloce e dalla sprezzatura notevole, e che mi riportano in un mondo più semplice, festoso, gaudioso.

DP