COLAZIONE LUCULLIANA ALL’HOTEL LUISE DI RIVA DEL GARDA

Di Lucullo Plutarco parla lungamente, e lungamente ne parla riferendosi ai sontuosi banchetti che organizzava, spesso in compagnia ma anche solo (“Lucullo cena da Lucullo”, si dice che intimò allo schiavo che, sapendolo solo, non preparò il solito banchetto); scorrono numerose, negli scritti antichi, le pietanze ricercate che faceva preparare, sia di acqua (frutti di mare, pasticci d’ostrica, storioni…) che di terra (uccellini “di nido” (!), anatre, lepri, pavoni, pernici,…). Lucullo era brillante, la sua figura è mito, e il suo nome ha dato origine a un aggettivo.

Goloso e arguto e dotato di sottile intelligenza era pure Venanzio Fortunato. La tavola del poeta tardo antico, religioso (e oggi santo) era spesso grandemente allestita anche se, al contrario di Lucullo (sontuoso, esorbitante), “dimostra spesso di avere gusti semplici” (G.D. Mazzocato, Il vino e il miele. A tavola con Venanzio Fortunato, 2011). Sicuramente il miglior discepolo di Apicio, il cattolico edonista mangia bene (e beve pure bene: fu il primo a parlare dei vini della Mosella (!), nel VI secolo (!!); carm. X, 9), e mangiando scrive poetando squisitamente dei piatti che gli passano in rassegna: “un vassoio di marmo presenta ciò che nasce negli orti: da lì giunge alla mia bocca una fragranza di miele. Il vitreo alveo di una scodella è ricolmo di carne di pollo… Moltissimi frutti si protendono da cestelli variopinti,…” (carm. 11, 10).

Io non sono né aristocratico né poeta né tanto meno santo epperò ci provo tutte le volte che posso a non essere da meno dei miei maestri, e allora in una mattina qualunque, spinto dal consiglio di conoscenze sicure, prenoto una colazione all’Hotel Luise di Riva del Garda.

L’entrata è di per sé una sfida, un passaggio sensoriale che non ti aspetti dalla confusionaria e trafficata e rumorosa strada di Viale Rovereto (dove si trova l’edificio) che tramite una scala conduce in un giardinetto verde e fresco, in cui regna la quiete e il vocio leggero dei vacanzieri. Qui, sotto una veranda grande e floreggiante ho allestito, ossia riempito con una sorta di horror vacui la mia tavola con quello che lo spazio (e il tempo) mi permetteva.

La scelta di prodotti e piatti è tantissima, la qualità nel complesso è alta. Lo intuivo perché me l’hanno consigliato; me lo aspettavo perché ho letto che è la “migliore colazione d’Italia”(“Best Breakfast Award” nell’ambito degli Hospitality Days che precedono la Fiera di Rimini; lo immaginavo perché il sito internet dell’hotel non spreca paroloni, ma illustra con foto nitide e chiare come una sorta di iconostasi gastronomica. Ma il dubbio restava e in generale resta sempre perché i veri giudici sono il mio palato e la mia pancia.

Il buffet è un ampio mosaico policromo i cui tasselli sono coloratissime cibarie di ogni genere. Dal dolce al salato, dai prodotti sfornati a quelli cotti in padella a quelli freschi. Dal pane, fresco di pasta madre in (quasi) tutte le sue forme, bianco, integrale, con farina di mais, ai semi di zucca, di patate, con le olive, le noci; ma anche pizza e focaccia: e solo questa merita la colazione all’Hotel Luise, sicuramente tra i migliori impasti mangiati in zona. Io ne ho mangiate di diversi tipi, in cui si combinava la stracciata alla prugna, la stracciata al pistacchio: libidine pura.

E ancora, formaggi (ricotta, caprino alle erbe, pecorino,…), affettati, e tantissima frutta di ogni tipo (pure una lussureggiante maracuja al cucchiaio con punta di lampone); e naturalmente pasticceria di tutti i tipi (mangio croissant, krapfen e donuts; vedo crostate, cheesecake, strudel, torta alla carota, sbrisolona, biscotti). E poi uova: strapazzate, sode, all’occhio di bue, in camicia, à la coque, omelette.

Il servizio è fatto da tantissime ragazze giovani, anzi giovanissime, che però talvolta risulta affrettato e nervoso e cozza con l’insieme (non faccio in tempo a girarmi che mi sparisce il cucchiaio). E purtroppo, nota per me dolente, non sono vestite come mi aspettavo, ovvero con una divisa aggraziata e meglio adatta (come bene e largamente ho elogiato in Andreoletti a Brescia e Marchesi a Milano), ma con un stile casual semi-sportivo-troppo-formale e presumo abbastanza libero, il cui unico segno di riconoscimento è una tshirt scura e anonima. E poi il caffè: ma l’ho bevuto veramente lì quel caffè? così acre, scorbutico, dal retrogusto di gomma bruciata?

Convintomi che quel caffè non l’ho mai bevuto, soddisfatto del mio pranzo (eh sì, perché “il dîner/dinner/pranzo” – come mi insegna un altro grande maestro – è “il pasto principale della giornata” (A. Barbero, A che ora si mangia?, 2017); e oggi questo è sicuramente è il mio pasto principale), esco, pasciuto e pervaso dal torpore, da quell’oasi di pace riadattandomi piano piano alla realtà.

DP

ELOGIO AL CASU MARTZU, BALUARDO DI RESISTENZA AL CONFORMISMO CULINARIO (E NON SOLO)

Mangiare il Casu Martzu è un’esperienza purtroppo che pochi hanno l’opportunità di provare, e che dovrebbe diventare consuetudine, una “merenda” (come mi fanno sognare), se non fosse per la sua persecuzione ingiusta e ingiustificata.

Prodotto desueto e rarissimo, difficilissimo da reperire ma non impossibile, il Casu Martzu (ossia “formaggio marcio” in sardo)  è forse tra gli ultimi baluardi di resistenza al conformismo culinario (e non solo) che sta uniformando e appiattendo il gusto delle nuove generazioni.

Non è cosa per chi è avvezzo a verdurine e hamburger di soia; ma non si addice nemmeno a chi mangia pollo e cotolette inscatolate del supermercato. È un cibo estremo e per i pochi che ancora apprezzano la gastronomia vera e diversificata delle varie regioni, soprattutto italiane, dotata di così tante sfumature che nemmeno si può averne una idea.

Il profumo è acre, pungente e dilagante e potrebbe allontanare una buona parte di persone; se tra queste poi qualcuno resistesse, si lascerebbe impressionare facilmente da tutte quelle mosche e larve incastonate come pois sulla superficie della forma.

Questo straordinario formaggio, infatti, normalmente pecorino, è il risultato dell’azione della cosiddetta piophila casei, ossia la mosca casearia: questa nel periodo favorevole della primavera e dell’estate depone le uova all’interno della forma; le larve che da esse fuoriescono trasformano, tramite enzimi particolari, la pasta casearia in morbidissima crema.

Il cibo a me non schifa mai, soprattutto se è così raro, soprattutto se rappresenta la secolare storia di un popolo (quello dei sardi) e di un Paese (il mio, l’Italia). Qui si incrociano la cultura all’aspetto sociale, l’antropologia alla gastronomia, la Bibbia (si legga il secondo libro di Samuele 17,29) al costume. Solo lo stolto può storcere il naso (e chiudere la bocca).

Mangio il Casu Martzu in modo a me non consueto, ovvero con parsimonia perché voglio godermi al palato ognuna delle mille sensazioni che mi esplodono in bocca a ogni imboccata. È una strana estasi quella che provo; poi subentra l’orgoglio patriottico, e poi la sazietà (è cibo piuttosto pesante).

Infine sono appagato: ho mangiato la storia e, insieme, la resistenza in forma culinaria all’uniformazione massificata del gusto.

DP

AL FRANET DI NEVESE A TREMOSINE SUL GARDA, L’ACROPOLI DEL FORMAGGIO CAPRINO

La località chiamata Nevese, a Tremosine sul Garda, è un monte di altitudine circa 750 m s.l.m., sinuoso e garbato, levigato e piacevole. È un posto a coronamento dell’intero comune; da qualunque paesino sottostante  lo si guardi o anche solo lo si intraveda – sia Villa (a nord), Arias (a est) o Cadignano (a sud) – esso appare subito amichevole e  confortante, invitando a una inevitabile visita. Qui, nell’acmé tra il verde dei pascoli e degli alberi, spunta come un’acropoli l’azienda agricola Al Frànet di Ines Grezzini.

Per arrivare passo per una strada stretta costeggiata da boschi e enormi prati. A un certo punto una santella benefica e molto semplice, dedicata alla “Madonna dell’amore”, mi indica che sono quasi arrivato; infatti dopo aver preso un sentiero cementato, forse di origine tratturale, mi trovo di lì a poco davanti alla stalla. Mi accoglie Ines puntuale alle 9.00, insieme a un panorama sensazionale: da quel punto quasi magico scorgo il Lago di Garda e il Monte Cas di Tignale – luogo di pace e beatitudo su cui è eretto l’eremo di Montecastello.

Sono ospite per una visita guidata, il formaggio di capra mi piace e ne mangio parecchio; è buono, anzi buonissimo e per chi ha problemi di colesterolo come il sottoscritto (da C.T. di 320 con impegno sono sceso ora a  247) fa anche meglio (o comunque meno peggio) di quello vaccino. E se il formaggio caprino normalmente è buono, quello dell’Azienda Agricola Al Frànet è ancora meglio, e duqnue voglio capire il perché.

La visita comincia dalla stalla. Sono investito da un gradevole odore di fieno e da un belare confuso ma nell’insieme simpatico. Quaranta capre e tredici capretti (il becco e altre due sono all’esterno) mi danno il benvenuto nella loro dimora. Sono di razza Saanen, e infatti nomen omen:  bianchissime e dall’aria ancor più sana ‘giocano’ tra di loro incornandosi e poi leccandosi, mangiano e girano nei loro box con una libertà di movimento invidiabile. “Devono avere i loro spazi nei box”, mi dice Ines, “anche questo contribuisce alla qualità del latte, e quindi del formaggio.

Questi animali mangiano bene, solo fieno di Tremosine ossia locale, e un mangime altamente selezionato. Vengono munte due volte al giorno, la prima la mattina alle 6.00 e alle 16.00 la seconda. È un lavoro duro quello di Ines (e degli agricoltori in genere); il riposo da seguire è quello della natura, e cioè mai. Anche se il lavoro è gratificante le vacanze non esistono. “Sto ancora aspettando la luna di miele, per esempio”, dice ridendo. Viso stanco ma felice, soddisfatto. Poi aggiunge, “il lavoro non sarebbe possibile senza l’aiuto dei miei figli”, due gemelli di poco più di dieci anni e le figlie Cristina e Michela.

Mi guardo intono e alle pareti della stalla scorgo, oltre a una falce antica, una pannocchia secca e un mazzetto di lavanda, il calendario di Frate Indovino, simbolo di una certa tradizione cattolica e contadina tipica del territorio.

La produzione del formaggio avviene nella saletta attigua, rigorosamente pulita e in ordine. Qui avvengono con un procedimento progressivo e standard le varie fasi di produzione: coagulazione, rottura della cagliata, cottura (in un gigantesco ramino), estrazione della cagliata, messa in forma e salagione (ovvero il primo sale) e, infine, maturazione e stagionatura.

La saletta di stagionatura dell’Azienda Agricola Al Franèt è un incantevole luogo scavato nella roccia, con umidità e temperature controllate (circa 11-12 °C), e qui riposano anche fino a un anno le forme di caprino. È un tripudio di profumi, la vista di tutti quei prodotti è concupiscenza pura, e io sono un gaudente e mi basta poco per cedere. Ines mi fa assaggiare il formaggio più stagionato della batteria, stagionatissimo: libidine proverbiale.

Felice prendo la medesima strada per il ritorno. Scorgendo prima l’eremo di Montecastello, e poi la madonnina della santella, ringrazio.

DP

ABETE E LIMONE: LE DUE “QUINTESSENZE” DI MIELI THUN CHE FORMANO UNA DICOTOMIA PERFETTAMENTE ARMONIOSA

Mieli Thun è l’azienda che conoscevo sin da piccolo perché era quella che faceva i mieli “strani” in vasetti ben caratterizzati e accattivanti. Un packaging essenziale e assoluto, accompagnato da un prodotto straordinario, spesso ricercato, buonissimo, che mangeresti come uno yogurt, altro che “accompagnato a”. Poi ho cominciato a leggerne sulle riviste o scritti gastronomici. In particolare ricordo un capitolo dedicato sul libro “edonistico” di Camillo Langone, Bengodi. I piaceri dell’autarchia, un libro strutturato in brevissimi ma intensi capitoli (nemmeno due facciate per argomento) in cui in ognuno di essi l’autore, intellettuale e firma de Il Foglio, approfondisce minuscoli interessi (“piaceri” appunto), alcuni veramente desueti, legati alla cucina, al costume o comunque a delizie di una certa nicchia. Un capitolo di questi è dedicato proprio a Andrea Paternoster (“cognome protettivo”), al contempo mente e titolare dell’azienda nonesa, ,  il quale mostra un’arnia a Langone atta al miele di melo.

Langone torna a parlarne poco tempo fa, in una sua estrema (per sintesi, raffinatezza e esaustività) Preghiera (https://www.ilfoglio.it/preghiera/2021/03/13/news/la-quintessenza-del-miele-di-limone-che-nemmeno-goethe-pote-conoscere-2021247/): ne elogia grandemente la Quintessenza di limone, un miele “che nemmeno Goethe, pur viaggiatore nella terra dei limoni, conobbe”, e sinonimo “dell’omerica parola ‘ambrosia’.” Io non ci sto e voglio assaggiarla subito, questa ambrosia. Così la ordino sul sito (https://www.mielithun.it/), ma faccio di più: la ordine insieme alla Quintessenza di abete.

Li assaporo insieme e insieme, come mi aspettavo, raggiungono una dicotomia perfettamente armoniosa. Complementari, l’una chiara densa e cremosa, e l’altra cupissima, fluida scorrevole; l’una ti accarezza il palato mentre l’altra te lo picchietta con piccoli baci. La quintessenza di limone è prodotta a partire dalla fioritura dei limoni di Rocca Imperiale, in provincia di Cosenza, Calabria: esprime l’entusiasmo e l’epicureismo sibarita. Avvolgente e un poco acido ha toni più vanigliati che limonosi.  Il miele d’abete, invece, vezzo settentrionale è meno solare ma più profondo, penetrante, persistente; una caramella d’orzo o al caramello che pare infinita.

La Quintessenza non è miele, e più del miele, è meglio del miele. “Quintessenza è una sorta di cru al quadrato le cui funzioni sono tempo e luogo. In questa magica alchimia uomo, ape e fiore vivono l’armonia della natura” sta scritto sul sito dell’azienda.  Per produrla “serve arrivare nel momento giusto, l’istante fugace in cui il fiore dà il meglio di se stesso. Quintessenza è il racconto dell’acme di fioritura, dove il miele raggiunge il massimo dell’integrità possibile. C’è un momento magico in cui il fiore è più generoso di nettare, più intenso in profumo e gusto”. Pura sostanza libidinosa, estatica, assuefacente.

DP

FREDDO, NEBBIA E COTECHINO

Se c’è una cosa che veramente non riesco a capire, nonostante i ripetuti e incessanti sforzi, sono i motivi che spingono le persone a odiare i rigidi climi invernali settentrionali, specialmente padani e prealpini. “Rigidi” poi, coi tempi che corrono, è addirittura parola esagerata; se qualche volta si va sotto 0° C è caso eccezionale. Con la nebbia forse si respira peggio, l’umidità causa qualche dolorino in più. Ma la nebbia è anche avvolgente, intima, quasi una carezza; crea intorno a sé paesaggi suggestivi, altera la percezione ottica della cose, che al tempo stesso si vedono e non si vedono, diventando enigmatiche e intriganti, misteriose. Il freddo poi invoglia l’intimità, il calore del focolaio, della compagna e, naturalmente, della tavola: bisogna essere sinceri, col freddo si mangia molto di più e molto più grasso, molto più calorico, proteico e sostanzioso. Non che disdegni il caldo, il mare e il sole (non sono mica matto, se posso ci vado eccome) o la leggera cucina estiva (idem), ma i ricchi piatti invernali sono molto più attraenti. Tra questi, quello che preferisco – non per sapori ma per il contenuto di colesterolo – è il cotechino.

Interno del cotechino: il grasso è ben amalgamato

Si tratta di un insieme di carni magre e grasse di maiale, derivate dai tagli meno pregiati (non però di scarto, anzi!, il grasso soprattutto deve essere selezionato) macinate grossolanamente, e di cotenna tritata in modo molto attento. Il tutto è drogato (vulgo: speziato) secondo ricetta del norcino, poi insaccato in un budello sempre di maiale, e cotto per qualche ora prima di essere servito. Si può accostare a polenta o lenticchie, ma per quanto mi riguarda l’abbinamento migliore è con l’empeveràa, ossia una salsa (se così mi è concesso chiamarla) fatta di pane raffermo grattugiato, formaggio stagionato, brodo di carne e pepe, tantissimo pepe.
Il cotechino dopo la giusta cottura, solitamente di due ore, è di una morbidezza sublime; il grasso accarezza la lingua e inebria il palato, i tagli del maiale meno nobili, amalgamati alla cotenna, è come se acquisissero una qualità altra esplodendo in bocca con tutti i suoi sapori.
Oggi, che è domenica e quindi la santifico, me lo mangio, il mio cotechino. Cotechino nostrano (chiaro), azienda agricola e norcino del posto, e io partecipe attivo di questo smantellare (taglio) e creare di nuovo (insaccato), che è poi l’arte della norcineria.

Nemmeno a dirlo: ingollato con quantitativi enormi di vino frizzante rosso, un lambrusco grandemente corposo mantovano (ancellotta, salamino, viadanese), selvaggio e brioso e profondo e… che mangiata!

DP

LIBIDINOSO NETTARE EDERICO

È un mosaico policromo meraviglioso, un caleidoscopio di colori, una sequenza incantevole di vasetti cubici smussati, il negozio di Mieli Thun. L’azienda agricola trentina, esattamente in Val di Non, è forse la più nota in Italia, sia per la straordinaria varietà di alimenti prodotti dalle api, sia per l’alta qualità e l’estrema ricercatezza di questi. Quintessenze, mieli, pollini, e addirittura aceti, da fiori di piante come cardo, coriandolo, lavanda, limone, marruca, melo, solo per citarne alcuni brevemente.

Fiori di edera – Unaapi.it

Tra i tanti – nati dal genio di Andrea Paternoster, evidentemente più di un semplice apicoltore – quello che preferisco e più mi attrae è il miele di edera, buono quanto raro. La pianta di edera cresce in zone ombrose, arrampicandosi su muri o piante; solo pochi rami sono esposti alla luce diventando fertili e dunque producendo fiori. Di qui la difficoltà e la scomodità di realizzare un miele così. Tutto questo avviene in settembre-ottobre: molto bene, perché mi permette di godere al meglio i pranzi e cenoni natalizi (sfido a trovare mieli di edera decenti nei restanti mesi dell’anno).

Quello dell’azienda nonesa è un nettare di una cremosità sensuale, avvolgente, libidinosa (si sprecano studiosi di tutto il mondo, e fiumi di inchiostro scorrono nel tentativo di rendere chiaro il concetto di libido freudiana, quando basterebbe consigliare un miele Thun). Il profumo è intenso, delicatamente erbaceo eppure rudemente balsamico; sentori che ricordano liquirizia e muffe nobili come botrite (non vorrei esser fissato, bevo spätlese e auslese renani). Il sito ufficiale consiglia il consumo “a fine cottura su una minestra di verdure” oppure in abbinamento a formaggi erborinati. Io no. Consiglio – dopo averne esalato l’essenza, chiaro – di ingollarlo col cucchiaino. Sarà dolcissimo, quasi stucchevole direi, essendo il miele più ricco di glucosio; ma l’esperienza indimenticabile e assuefacente. Smentitemi.

Lucien Chardon