Mangiare il Casu Martzu è un’esperienza purtroppo che pochi hanno l’opportunità di provare, e che dovrebbe diventare consuetudine, una “merenda” (come mi fanno sognare), se non fosse per la sua persecuzione ingiusta e ingiustificata.
Prodotto desueto e rarissimo, difficilissimo da reperire ma non impossibile, il Casu Martzu (ossia “formaggio marcio” in sardo) è forse tra gli ultimi baluardi di resistenza al conformismo culinario (e non solo) che sta uniformando e appiattendo il gusto delle nuove generazioni.
Non è cosa per chi è avvezzo a verdurine e hamburger di soia; ma non si addice nemmeno a chi mangia pollo e cotolette inscatolate del supermercato. È un cibo estremo e per i pochi che ancora apprezzano la gastronomia vera e diversificata delle varie regioni, soprattutto italiane, dotata di così tante sfumature che nemmeno si può averne una idea.
Il profumo è acre, pungente e dilagante e potrebbe allontanare una buona parte di persone; se tra queste poi qualcuno resistesse, si lascerebbe impressionare facilmente da tutte quelle mosche e larve incastonate come pois sulla superficie della forma.
Questo straordinario formaggio, infatti, normalmente pecorino, è il risultato dell’azione della cosiddetta piophila casei, ossia la mosca casearia: questa nel periodo favorevole della primavera e dell’estate depone le uova all’interno della forma; le larve che da esse fuoriescono trasformano, tramite enzimi particolari, la pasta casearia in morbidissima crema.
Il cibo a me non schifa mai, soprattutto se è così raro, soprattutto se rappresenta la secolare storia di un popolo (quello dei sardi) e di un Paese (il mio, l’Italia). Qui si incrociano la cultura all’aspetto sociale, l’antropologia alla gastronomia, la Bibbia (si legga il secondo libro di Samuele 17,29) al costume. Solo lo stolto può storcere il naso (e chiudere la bocca).
Mangio il Casu Martzu in modo a me non consueto, ovvero con parsimonia perché voglio godermi al palato ognuna delle mille sensazioni che mi esplodono in bocca a ogni imboccata. È una strana estasi quella che provo; poi subentra l’orgoglio patriottico, e poi la sazietà (è cibo piuttosto pesante).
Infine sono appagato: ho mangiato la storia e, insieme, la resistenza in forma culinaria all’uniformazione massificata del gusto.
DP