Se c’è una cosa che veramente non riesco a capire, nonostante i ripetuti e incessanti sforzi, sono i motivi che spingono le persone a odiare i rigidi climi invernali settentrionali, specialmente padani e prealpini. “Rigidi” poi, coi tempi che corrono, è addirittura parola esagerata; se qualche volta si va sotto 0° C è caso eccezionale. Con la nebbia forse si respira peggio, l’umidità causa qualche dolorino in più. Ma la nebbia è anche avvolgente, intima, quasi una carezza; crea intorno a sé paesaggi suggestivi, altera la percezione ottica della cose, che al tempo stesso si vedono e non si vedono, diventando enigmatiche e intriganti, misteriose. Il freddo poi invoglia l’intimità, il calore del focolaio, della compagna e, naturalmente, della tavola: bisogna essere sinceri, col freddo si mangia molto di più e molto più grasso, molto più calorico, proteico e sostanzioso. Non che disdegni il caldo, il mare e il sole (non sono mica matto, se posso ci vado eccome) o la leggera cucina estiva (idem), ma i ricchi piatti invernali sono molto più attraenti. Tra questi, quello che preferisco – non per sapori ma per il contenuto di colesterolo – è il cotechino.

Si tratta di un insieme di carni magre e grasse di maiale, derivate dai tagli meno pregiati (non però di scarto, anzi!, il grasso soprattutto deve essere selezionato) macinate grossolanamente, e di cotenna tritata in modo molto attento. Il tutto è drogato (vulgo: speziato) secondo ricetta del norcino, poi insaccato in un budello sempre di maiale, e cotto per qualche ora prima di essere servito. Si può accostare a polenta o lenticchie, ma per quanto mi riguarda l’abbinamento migliore è con l’empeveràa, ossia una salsa (se così mi è concesso chiamarla) fatta di pane raffermo grattugiato, formaggio stagionato, brodo di carne e pepe, tantissimo pepe.
Il cotechino dopo la giusta cottura, solitamente di due ore, è di una morbidezza sublime; il grasso accarezza la lingua e inebria il palato, i tagli del maiale meno nobili, amalgamati alla cotenna, è come se acquisissero una qualità altra esplodendo in bocca con tutti i suoi sapori.
Oggi, che è domenica e quindi la santifico, me lo mangio, il mio cotechino. Cotechino nostrano (chiaro), azienda agricola e norcino del posto, e io partecipe attivo di questo smantellare (taglio) e creare di nuovo (insaccato), che è poi l’arte della norcineria.
Nemmeno a dirlo: ingollato con quantitativi enormi di vino frizzante rosso, un lambrusco grandemente corposo mantovano (ancellotta, salamino, viadanese), selvaggio e brioso e profondo e… che mangiata!
DP