KIM DUPOND HOLDT AL PHOTOFESTIVAL 2021: BENE IL FOTOGRAFO DANESE, DA RIVEDERE LA CURATELA DI ROBERTO MUTTI

Palazzo Castiglioni a Milano è l’edificio che, dopo aver attraversato per il lungo quel angosciante Corso Venezia, mi distende l’animo. Ci voleva una facciata più ridente, morbida e creativa dopo quella lunga serie di finestroni asettici e austeri, timpani, colonnine e altri ninnoli lugubri in stile neoclassico. Sarà per quel simpaticissimo basamento fatto di pietra grezza che imita quasi una falesia rocciosa, per quegli oblò che lì son stati concepiti, quelle grate in ferro battuto sinuose che paiono mosse dal vento. Palazzo Castiglioni è un eccellente esempio di architettura Liberty a Milano, addirittura il “manifesto” di questa (leggo su qualche sito), e ideato dall’architetto Giuseppe Sommaruga agli inizi del Novecento.

Raggiungo questo edificio per la mostra del fotografo Kim Dupond Holdt, curata dal noto critico Roberto Mutti in occasione della sedicesima edizioni di Photofestival. La prima impressione è inquietante: l’edificio è sede di Confcommercio, e quel clima kafkiano di burocrati mi opprime, quel grigiore di stanze e di luci smunte mi spegne l’amor di poiesi, i portinai incravattati salutandomi con un perentorio “cosa cerca?” mi scoraggiano. Però ho fatto tanta strada quindi devo farmi forza.

Palazzo Castiglioni ospita diverse mostre di altri notevoli artisti; tra questi mi ispira parecchio Gabriele Tano e la sua personale Street Work: scatti strappati a azioni umane, tutte svolte su strada. Successivo a questo artista ritrovo, con brutta e strozzata sorpresa, Kim Dupond Holdt.

Dico brutta e strozzata certo non per i suoi lavori. Il fotografo danese infatti presenta una serie di sette dittici, quattordici lavori in tutto, in cui offre al pubblico milanese una epitome mirabile della sua ampia, anche se recente, produzione. Una coppia è dedicata ai tessuti, un sensuale zoom tra le linee fluttuanti di un panno grigio, dove la luce interagisce e crea un effetto conturbante. Due coppie di lavori sono pura geometria, linee rette e spigolose prese direttamente dall’architettura. I restanti otto lavori sono dedicati alla luce e al cromatismo, spesso acceso e folgorante, contrasti plastici che acquietano per un momento il mio fastidio. Molto bene, in sintesi, Dupond Holdt.

Ma queste opere perdono tutta la loro bellezza, tutto il loro significato se il contesto non è adatto. E la mostra di KDH, intitolata La sorpresa della luce e curata da Roberto Mutti, è collocata in un luogo completamente fuorviante.

Le quattordici riproduzioni sono disposte lungo un piccolo corridoio che sta nel mezzo di due scaloni; questi conducono al piano sotterraneo dell’edifico, dove c’è il bar per i dipendenti. Spazio piccolo, aperto e basso, che sa molto di ospedale. Mentre cerco di entrare in simbiosi con le opere, ossia con l’artista, mi giunge in continuazione il vocio degli impiegati incravattati, un sottofondo sonoro irritante in cui ogni tanto traspaiono frasi come “condizione inflazionistica” e altre formule a me incomprensibili.

Condizioni auditive pessime, quindi; e non solo per questo fatico a concentrarmi. Anche le altre regole museografiche/museologiche vengono meno: la luce è collocata al centro della coppia di quadri, ovvero nel punto distaccato delle fotografie, con un effetto distorto su queste. I cartellini con le informazioni sono appese troppo in basso, devo piegarmi eccessivamente facendo di conseguenza molta fatica a leggerle. Volendo, anche i quadri sono posizionati troppo in basso, ma questo dipende dall’altezza limitata dei pannelli (ricoperti con una moquette rosso-sporco non totalmente azzeccata).

Una sedia e un tavolino in ferro battuto (e dal sapore squisitamente Liberty) collocati all’inizio del percorso espositivo, dopo tutto, mi confortano; lì seduto osservo la mostra con sguardo mite, e penso a dove andrò a fare aperitivo.

Luciano Cardo

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