Si può dire che Franco Chiarani è il massimo artista trentino vivente?, chiedo io in un misto di domanda e affermazione. Sono a casa del maestro, a Arco di Trento, nel paese dove è nato, dove abita e lavora. La conversazione, come tutte le migliori e più fertili conversazioni, prende avvio attorno al tavolo, una bottiglia di vino rosso aperta (di qualità, ovvio), e calici pieni appoggiati su un elegante sottobicchiere. La casa è calda, anche troppo, e tutto intorno alle parteti ci sono sue opere. Non manca nulla.
Chiarani, preso in contropiede, scansa la domanda tra l’imbarazzato e lo scocciato; è persona di poche ma calibrate parole, e soprattutto modestissima. Me ne avevano parlato come di persona schiva, ma a me sembra solo riservata, pronta a aprirsi a chi dimostra di avere un minimo di occhio e di sensibilità artistica; è trentino, anzi trentinissimo, e come tale si scorge la cadenza della pronuncia, le saltuarie affermazioni enfatiche in dialetto, e la felpa tecnica di buona marca da montagna. Indossa un copricapo che arriva appena sopra le orecchie, un paio di occhialini sollevati sopra di esso, e i capelli lunghi e bianchi escono da dietro, in una maniera che mi ricorda molto Mauro Corona.
La moglie è lì accanto, assisa ieraticamente in poltrona come una matrona bizantina, annuisce qualche volta col capo al racconto del marito, e parla pochissimo; è lei, come capisco via via, la grande archivista dell’artista, colei che cataloga, documenta e conserva meticolosamente tutte le opere.
Dopo uno scambio di battute per conoscerci e entrare in confidenza, Chiarani inizia a raccontare le origini della sua carriera artistica. Lo dico subito: seppur le sue opere dimostrino un’alta qualità, Chiarani non viene da nessuna scuola, se non quella personalissima del guardare-imparare-provare-sbagliare. “Ho imparato a forza di sbagliare”, mi dice. È un autodidatta, che ha saputo concretizzare e ottimizzare al meglio la sua vocazione artistica e il suo lavoro, facendoli confluire.
Franco Chiarani infatti comincia a lavorare giovanissimo, a 16 anni, in cartiera. Non però, almeno inizialmente, nei reparti in cui si tasta con mano la materia-carta, bensì nelle sale attigue dedicate ai colori. Qui un giorno viene sorpreso dal direttore mentre faceva quello che soleva fare, e lo faceva spesso perché lo sentiva come una forza congenita interiore: disegnare. E questa improvvisa visita del superiore è stata fondamentale per la sua carriera.
“Il direttore mi dette un’occhiataccia, guardò a lungo i miei disegni, ma non disse niente e andò via abbastanza serio”, ricorda con una certa ilarità Chiarani, “poi scoprii che era un grande appassionato di pittura, e anche un grande collezionista di arte veneziana”. Il direttore, dopo aver confessato a Franco Chiarani l’apprezzamento verso quelle sue prime opere, si dimostrò apprensivo, e anzi incoraggiò l’artista a continuare. Fu il primo, insomma, a intuirne le potenzialità.
Dopo una rapido racconto della sua carriera, fatta di moltissime esposizioni, soddisfazioni e premi vinti, ci spostiamo nel suo studio. Una cantinetta piccola eppure comoda e funzionale; quadri ordinatamente riposti, pareti inondate di schizzi di colore (nubi corpuscolari quasi). Tra pennelli e terre e leganti scorgo anche utensili molto più rozzi, che servono, come mi spiega, per le cornici; cornici che crea ad hoc lui per ogni singola opera. Infine, una lavatrice su cui ci saranno appoggiati una ventina tra detersivi e ammorbidenti, mi fa capire quanto in quella casa la vita sia intrecciata all’arte.
Nello studio noto però una cosa eclatante: quasi tutte le opere sono su carta, e guardandole da vicino si nota pure una varietà impressionante di tipi di carta. Lo potevo immaginare: dopo tantissimi anni in cartiera non poteva che essere naturale. Ma non è l’unico motivo, perché “su carta mi sento più libero, e la tela mi condiziona”, mi dice da dietro, come se avesse intuito il mio pensiero. La parte mentale quindi si unisce perfettamente a quella tecnica. Franco Chiarani è un alchimista della carta, un grandissimo conoscitore di questa materia come supporto. Con la carta ha un rapporto tale che gli permette un’abile e consapevole lavorazione. Una di queste, a esempio, consiste nell’immergere un determinato tipo di carta nella vasca da bagno, facendola bagnare completamente; poi bisogna aspettare che diventi “cellulosa, materia, pasta”, mi spiega con soddisfazione.
A quel punto si può iniziare a animarla, ossia a cospargerla di terre. Queste penetrano nella carta e diventano corpo unico. Il colore diviene materia e non si stacca più. Lavora soprattutto con ossidi e terre e bianco di zinco, Franco Chiarani; e questa peculiarità riesce a donare alle sue opere un effetto quasi di monocromia. Le opere sono pervase da un alone seppiato, con toni che vanno dall’ocra, al marrone, al grigio: ma inconfondibili, e difficilmente descrivibili, perché questi sono asciutti, opachi e smorzati, in un effetto crepuscolare tra il ricordo e il sogno.
Chiarani come noto, e come tiene a dire, è un pittore di figura. Innamorato della pittura nordica da sempre perché attirato dai vari Dürer, o Cranach, i quali a lungo hanno ricercato attorno ai sentimenti della figura umana. Non mancano poi i punti di riferimento più contemporanei, come Kokoschka, Munch, Klimt. E soprattutto guarda al bolognese Bertacchini (che ha conosciuto direttamente) e Saetti, allievi di Giorgio Morandi. “Ma i riferimenti sono tanti, l’importante è farli propri, saper assimilare il fare degli altri e riproporlo con una interpretazione rielaborata e personale”, e certamente integrata. Integrata grazie “al dialogo e al confronto con altri artisti, maestri più bravi di me”, da cui c’è sempre da imparare.
I suoi dipinti sono apparentemente confusi, ma basta sostare un attimo di fronte a loro per capire quanta vita sia infissa in essi. Come nasce un’opera di Chiarani? Innanzitutto dalla “macchia”, fondamentale per l’artista arcense. “A volte è più importante stare tutta la giornata a guardare le macchie che dipingere. Perché dalle macchie – se si è in grado, chiaramente – si legge un mondo, nascono cose bellissime. Ma bisogna essere in grado di leggerle”, confessa.
Dalla macchia Chiarani intuisce l’embrione, e gli dà vita. Con una tecnica dalla sprezzatura disarmante, che mi ricorda il Tiepolo descritto da Roberto Calasso e allo stesso tempo il Costantin Guys elogiato da Baudelaire, fatta di pochi, nervosi e tesi, rapidissimi e sottilissimi tratti, Franco Chiarani restituisce figure che dal nulla si animano. Quello che compie l’artista è del tutto simile a un miracolo. Chiarani è tutt’altro che un artista impetuoso, virulento, anzi è molto riflessivo; materico e gestuale, sì, ma in modo equilibrato. Figure che nascono dalla sua memoria con una tecnica mnemonica del tutto simile, ancora una volta, a Guys.
C’è aria di libertà in questi quadri. Figure spesso in primissimo piano, indefinite eppure significativamente caratterizzate. Spesso scorgo una coppia, una di fronte all’altra o addirittura di spalle, in cui l’una è piena (di colore, materia), mentre la seconda è fievolmente delineata, trasparente, quasi fosse una comparsa, o meglio un’apparizione. “Sono figure a modo mio; ossia, deve essere una figura e allo stesso tempo non lo deve essere”, dichiara solenne.
Abbozza da qualche parte prima di riportare sul quadro definitivo?, chiedo superficialmente tra il serio e il faceto. Non abbozza, ovvio, il gesto deve essere spontaneo, “sennò si spegne”. La macchia e l’idea, poi la memoria e il tratto rapidissimo che delinea, e crea. Questo è l’iter, dalla disarmante semplicità spiazzante, quanto dalla profondità immane. E quando può dirsi “finita” l’opera? Domando, andandoci pesante.
Osservo che in tutti quadri che passo in rassegna, sempre la superficie nuda e cruda della carta è parte integrata al disegno, alle terre, a tutto il resto insomma. “Nella mia pittura è più importante il non-finito del lavorato”, dice Chiarani. “Io so quando il mio quadro è finito”, ossia quando è completo. I quadri di Chiarani non sono frutto di impulsività, non sono fatti in serie e buttati sul mercato immediatamente (per questo l’artista ha sempre glissato le gallerie, per evitare le scadenze e lo stress che ne consegue). “È il tempo che ti dice se e come andare avanti, oppure fermarsi. Il non-finito ha importanza pari alla pittura finita”. Certo, bisogna saperlo leggere.
Damiano Perini
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