TEODORO LO STUDITA HA DIFESO (TRIONFANDO) L’IMMAGINE SACRA. Vittorio Sgarbi oggi, con la stessa forza, sta combattendo per non rendere vana la sua impresa

Può essere considerato Vittorio Sgarbi il nuovo Teodoro Studita? Appena letto il primo incipit di Contro gli avversari delle icone (Jaca Book, 2022) sono trasalito: quale potenza!, ma sto leggendo un santo, mi sono chiesto, oppure un imperituro e impetuoso e infaticabile politico che è anche storico d’arte e legato (perché lì è la sua origine) alla cultura cristiana?

In effetti, Teodoro lo Studita è stata una delle menti più sofisticate di quei territori bizantinissimi attorno a Costantinopoli tra l’VIII e il IX  secolo. Nasce nel 759, da famiglia nobile e di un certo rilievo culturale, il cui padre occupava il ruolo di amministratore del fisco imperiale. Un po’ come Aby Warburg rifiuta la carriera del padre, elargendo la propria vita a ciò che più sentiva: l’immagine, e a soli 22 anni, per vocazione, sceglie la via monastica: Teodoro è  accolto così nel monastero di Saccudion in Bitinia. Fu vittima tuttavia, per tutto l’arco della sua vita di diverse disavventure, o meglio, persecuzioni; ma Teodoro non perse mai la forza. Non appena Leone V Armeno ricomincia la disputa (accanita) sull’iconoclastia, Teodoro Studita assume il comando della resistenza iconofila. Seguono però repressioni su chi sosteneva quest’ultima; al Santo Teodoro, inoltre, prigionia e esilio. Viene riconvocato a Costantinopoli nel 820 alla morte di Leone V, ma pochi anni più tardi si ritira nell’arcipelago dei Principi, a Prinkipo, dove muore nel 826. Gli scritti di Teodoro variano dalle polemiche (accesissime), alle opere ascetiche, alle epistole, e addirittura alle composizioni poetiche.

Le argomentazioni di Contro gli avversari delle icone (a cura di Antonio Calisi, a cui dobbiamo anche la prima traduzione italiana) sono una pugnalata eruditissima che affonda completamente l’eresia iconoclastica. È grazie soprattutto a Teodoro lo Studita, venerato non a caso come santo nella Chiesa cristiana, la legittimazione delle immagini sacre in oriente; dopo più di un secolo di battaglie dialettiche, scomuniche, persecuzioni, incomprensioni (ufficialmente a seguito del Concilio di Nicea II, nel 787, grazie alle tesi di Giovanni Damasceno).

Teodoro non ha paura di mostrare le sue opinioni; anzi, le grida con tutta l’energia che possiede, in modo puntuale, preciso, documentato, erudito. E convincendo; o meglio, trionfando. “Tempo è di parlare e non di tacere, per chi può farlo in qualsiasi modo, poiché sorge un’eresia che abbaia contro la verità e pone turbamento nelle anime deboli con un vano vociare”, esordisce il santo tuonando, citando l’Ecclesiaste (3,7); è tempo che chi sa e chi ha gli strumenti per comunicare lo faccia, lo faccia in fretta e con veemenza: sta richiamando a sé le forza, chiaro.

Da qui seguono tre confutazioni, le prime due sotto forma di dialogo con (contro) un eretico iconoclasta, mentre l’ultima in forma di sillogismi. Nelle prima confutazione preme segnalare e spiegare la differenza tra icone e idoli. “E (cosa hanno in comune) le sacre immagini e gli idoli dei demoni?” chiede l’Ortodosso all’Eretico; e via di spiegazioni: lineari, scandite e dirompenti. E Teodoro non è certo avido di bonarietà (buonismo, diremmo oggi); quando può lo punzecchia (l’eretico infatti “vaneggia in eccesso”, ci riferisce), e temporeggia prima di affondarlo completamente: “Sembra che non riusciate ad evitare di ripetervi come un uomo cieco che va in cerchio, mentre continuate malignamente a spostarvi da un discorso ad un altro”.

A tratti è un testo ricolmo di bizantinismi, libidine pura per gli Azzeccagarbugli. E pare proprio che a Teodoro piaccia in maniera appassionata confutare l’avversario, da tanto ardore che ci mette. E cita spesso pure i Padri della Chiesa, come Atanasio, Cirillo, ma soprattutto Basilio: “l’onore tributato all’immagine passa al prototipo”. La tesi della seconda confutazione infatti è atta a legittimare la venerazione della copia (raffigurazione) dell’immagine (raffigurato). Chiede l’Eretico: “dov’è scritto nel Nuovo o Vecchio Testamento che dobbiamo venerare l’immagine?”, al che l’Ortodosso risponde: “Dovunque sia scritto che dobbiamo venerare il prototipo dell’immagine”. L’immagine di Cristo, in altre parole, è l’essenza di Cristo stesso; e in quanto tale passibile di adorazione.

Teodoro accompagna, per così dire, tramite questo botta-risposta, l’Eretico portandolo piano piano e con astuzia al torto. E noi assistiamo a questa disfatta, ci convinciamo di una verità unica, e godiamo pure. È una mazzata dietro l’altra per l’Eretico: “se tu avessi dato retta a questi padri [Basilio, etc.]”, assurge l’Ortodosso, “avresti potuto capire che quando Cristo è adorato, è pure venerata la Sua immagine, perché essa è in Cristo”. Ossia, gli sta dicendo che è pure ignorante; una capra, direbbe qualcuno.

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L’iconoclastia, sia storica che religiosa, ai giorni nostri si chiama cancel culture. E che, come ben spiega Marcello Veneziani nel suo illuminante libro (La Cappa, Marsilio, 2022), non è da intendersi come “cultura della cancellazione” come da traduzione, bensì proprio come “cancellazione della cultura”. Ma di questo ne parla già lui e meglio di tutti (in particolare rinvio alle pp. 67-82) nel suo saggio. (E non menziono le tristi cronache di Giulio Meotti sul Foglio).

Tra i pochissimi che hanno il coraggio di parlare, anzi gridare, come intendeva Teodoro sia perché hanno la conoscenza che gli strumenti per farlo, c’è Vittorio Sgarbi. Di iconoclastie contemporanea e antireligiose in particolare ne ha scritto lungamente in un suo recente libro, scritto con Giulio Giorello (Il bene e il male. Dio, Arte, Scienza, La nave di Teseo, 2020). Sgarbi è dichiaratamente ateo, ma allo stesso tempo ammette di essere culturalmente cristiano, perché questa è la nostra storia. Da duemila anni. Pretende, a esempio, il crocifisso nei luoghi pubblici, simbolo di pace (Gesù infatti ha voluto la pace: chi non vuole il crocifisso vuole la guerra, favoreggia per l’odio). Nel capitolo iniziale, il cui titolo è già esplicito (“L’arte è la prova dell’esistenza di Dio”), scrive:

“Cristo è stato un uomo, un grande uomo. Io non toglierei mai da qualunque luogo il ritratto di Giambattista Vico, di Galileo; e considero Gesù Cristo grande come il più grande filosofo. Quindi sta lì, in croce. Un posto un po’ scomodo. Perché mai dovrei toglierlo? In nome di che cosa? Di quale tolleranza, se un’altra religione che non crede in lui come Dio ritiene di non poter credere in lui nemmeno come uomo?”

E ancora:

“La chiesa non la vedo, ma vedo le chiese, i monumenti, e ringrazio il Dio cristiano per aver espresso tanta bellezza, bellezza del pensiero. Quale altra religione ha fatto tanto? Dov’è il Bach dell’islam? Dov’è il Giotto dell’islam? Io sono felice di essere cristiano.”

Sgarbi scrive talvolta tuonante, a volte edulcorato, a volte tecnico, a volte poetico; ma sempre bene, chiaro, capibile. Per la sua conoscenza storico-artistica (e critica) ha scritto per FMR, ha curato migliaia e migliaia di cataloghi, centinaia di artisti, conosce bene il massimo artista trentino Franco Chiarani, ha scritto saggi più accademici e altri più divulgativi; ha scritto del Romanino di Pisogne e di Beniamino Simoni, in particolare sulle Capèle di Cerveno (bellissimo libro: L’Italia delle meraviglie, Bompiani, p. 31). Sgarbi è stato l’unico che mi abbia fatto capire Carpaccio (la prosa di Longhi è meravigliosa, ma proprio per questo dopo tre parole finisco con l’adagiarmi sulla superficie melodica, lasciandomi cullare dalla prosa, dal suono di nomi e aggettivi intarsiati con leziosità e maestria – e inevitabilmente finisco per non capirci un cazzo).

E in quanto a veemenza non è da meno di Teodoro. Ha sbiadito molti avversari in conferenze, come Bonami o Abo; e ha scritto incipit come questi: “Se voleste cercare una Venezia salva dai turisti, impervia al loro provocare danni non tanto fisici quanto psicologici, etc.” (Piene di grazie, Bombiani, p. 27). E potrei continuare a lungo.

Scrive Teodoro: “Il Signore darà la parola agli evangelizzatori con grande forza”. Speriamo (preghiamo) si facciano avanti numerosi; e sia grande la resistenza iconofila, come lo è stata dodici secoli fa.

Luciano Cardo

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