AMBROISE VOLLARD E I RETROSCENA D’ARTISTA. Appunti sopra le “Memorie di un mercante di quadri”

Le opere d’arte ci restituiscono spesso l’anima di un artista; e un bravo critico può aiutarci alla comprensione di queste, o addirittura – grazie a una buona interpretazione – suggerirci una visione ulteriore. Tutte cose bellissime, certo; ma a volte anche pesanti, e mica sempre si ha voglia di sorbirsi saggi noiosi, letture profonde, ragionamenti incrociati, discorsi ermetici, quando non speculazioni eccessive.

Può capitare, e a me capita spesso, di aver voglia di letture più leggere e slanciate, di argomenti meno astratti e speculativi, senza però rinunciare al piacere della cultura e dell’arte. Senza rinunciare cioè a imparare nuove nozioni che non sono certo meno interessanti (non è mica detto che saggi difficilissimi e verbosi con bibliografie chilometriche racchiudano più sapere di libricini schietti e semplici). Questo per il bisogno di appagare quel delizioso capriccio, che nutro da sempre, di conoscere la normalissime facezie, le desuete curiosità, insomma le irrilevanti consuetudini di figure incisive e parti integranti della nostra storia.

Davanti a un quadro si chiederanno tutti il significato del tema, l’iconologia, la composizione dell’opera? Nessuno si chiede cosa mangiava l’autore di quel quadro nel momento della realizzazione? Sono piccolezze, ma piccolezze più che significative. Pontormo, nel suo diario che è un capolavoro di minimalismo ante litteram, ci dice ogni sua singola e futile attività quotidiana. Ma quale bellezza sapere che il grande pittore manierista imbottigliava “barili 6 di vino da Radda”, da Radda! oggi la culla del Chianti; quale delizia sapere che beveva vini anche non toscani, come “quel trebiano ch’è di Vinegia”. È un libro che ha avuto successo, e non è meno interessante di alcune biografie sul pittore, fatte di dati raffazzonati.

Memorie di un mercante di quadri di Ambroise Vollard (Johan & Levi, 2012) è un libro che colma i tanti vuoti che lasciano i manuali scolastici, così ricolmi di dottrina tanto quanto sono vuoti di informazioni che tracciano l’umanità (seppur parziale) di un artista – per questo i manuali sono così algidi e poco piacevoli. Dire che Vollard è stato un mercante d’arte è riduttivo; perché alla base c’era un grande senso del commercio, oltre a un visione trascendente e profetica dell’arte più di tanti critici contemporanei; è stato poi anche editore e autore (celebre la sua biografia su Cézanne).

Ambroise Vollard (1866-1939) viene da famiglia agiata, e senza particolare calore studia legge. Comincia lavorando in uno studio di avvocato, fino a che non si convince a mollare la vita d’ufficio per la sua passione, ossia la pittura. Così, verso la fine dell’Ottocento si lega alle dipendenze di un antiquario, per così dire, poco dotato; stufo si mette in proprio, aprendo il primo negozio a Montmartre, “la Montmartre del primo Moulin Rouge”, per poi trasferirsi in rue Laffitte.

Pierre Bonanrd, Montmartre, 1887

Persona di grande tenacia, a Vollard non mancavano nemmeno la sicurezza di chi sa e la caparbietà di prendersi ciò che si vuole. L’esempio è la ricerca sfrenata di Cézanne. “I viaggi a vuoto che non feci!”, confessa l’autore, che visto per caso un quadro del maestro di Aix decide di dedicargli una mostra (e in quegli anni!, in cui i giudizi su Cézanne erano del tipo “che vergogna, deformare così la natura!”). Nel paese di provincia dove lo cerca nessuno conosce Cézanne; per caso scopre del trasferimento del pittore a Parigi, ma una volta in città Vollard si scorda il numero civico: “deciso a suonare a ogni porta, cominciai dal numero 2, e fu con grande sorpresa che mi sentii rispondere dalla portinaia: ‘il signor Cézanne? Sì, abita qui’”.

Vollard ha conosciuto veramente molte persone, e tremendamente straordinarie. Memorie di un mercante di quadri è un libro di tantissimi piccoli aneddoti, di pettegolezzi, di sapide notizie che mai nessuno storico dell’arte si proporrebbe di riportare in una biografia d’artista. È un libro scritto con alla base un umore pulito e veloce che ricorda Woody Allen. “Era già scritto, insomma, che le mie collezioni mi sarebbero state sottratte”, scherza il mercante. Oppure: “data l’abitudine dei medici di redigere e firmare le ricette in modo illeggibile, iniziai subito a esercitarmi nella grafia a zamba di gallina”, confessa dopo una prima idea (abbandonata subito) di studiare medicina. O ancora: “ho sempre apprezzato i vantaggi dell’essere sposato. Quando ti propongono di fare una cosa seccante, puoi sempre dire: ‘mia moglie non vuole…’”.

Cézanne, Ritratto di Vollard, 1899

È un libro questo scritto bene (la traduzione in italiano è di Ximena Rodriguez Bradford). Vollard ha il dono della sintesi, la sua prosa è affilata, i periodi corti, ritmati, semplici, la sintassi limpida, il linguaggio chiaro; gli aggettivi e gli avverbi sono dosati, nessun vezzo decorativo, quello che vuole dire lo dice con una semplicità disarmante. I dialoghi si susseguono uno dietro all’altro, concisi. Basta davvero poco a Vollard per ricostruire quell’atmosfera che sta dietro alle opere e alle personalità di chi le ha realizzate. Moltissimi e lucidi sono i ricordi del mercante, talvolta flash fulminanti. Non solo artisti, ma anche familiari, clienti, concorrenti.

Ma è un libro, dicevo, di aneddoti. Qui si scoprono sapidissimi retroscena, insignificanti vezzi, piacevoli curiosità che riguardano il meglio degli artisti della seconda metà dell’Ottocento. Si possono spiluccare qua e là notizie come a un buffet, la cornice è unica, ma il menu molto vario. Si viene a tu per tu con opere, oggi capolavori, ma all’epoca poco considerati, o meglio “ammirati ma non acquistati”, con pittori che erano sì conosciuti, ma ancora piuttosto poveri.

Renoir, Ritratto di Vollard, 1908

Il primo pittore che conosce all’inizio della sua lunga carriera è Félicien Rops; il suo incontro sarà indimenticabile: accolse Vollard “completamente nudo”.

A pagina 53 racconta minuziosamente un litigio tra Renoir e Degas, il modo in cui il loro rapporto finì per incrinarsi. I due però si stimavano e “erano sulla stessa barca. E la barca non prescriveva che questo: lavoro, lavoro e ancora lavoro”. Ci sono rimasto però male quando ho letto che Degas “detestava il profumo dei fiori”; certo, “ma con che occhio riusciva a vederli!”. Degas era un fissato, ma un fissato di quelli forti. Vuoi invitarlo a cena, bene, allora: niente gatti (“il suo gatto [Vollard] verrà rinchiuso”), niente cani, niente profumi (“se ci sono delle signorine, le preghi di non profumarsi. I profumi: che cosa inutile, quando si ha già il buon odore del pane abbrustolito!”).

E ovviamente puntualità: “andremo a tavola alle sette e mezza in punto”, senza repliche. E i fiori, ancora. Vollard racconta di quella volta in cui il pittore se ne andò indispettito dalla sala da pranzo; “lui acconsentì a tornare solo dopo essersi fatto giurare che non ci sarebbero mai più stati fiori in tavola”. In compenso con i quadri era più che delicato: “Degas accarezzava la tela in silenzio: era uno dei suoi modi di ammirare un quadro”.

Parzialmente fissato lo era pure Cézanne. Per soddisfare le esigenze del pittore, durante l’elaborazione di un ritratto, “erano necessarie molte condizioni: che il cielo fosse grigio chiaro, che nessuna notizia arrivasse a turbare il suo umore, che non ci fossero cani che abbaiavano nelle vicinanze, e che nessuno facesse andare l’ascensore del palazzo”. Anche della modestia e umiltà di Cézanne sapevo poco, quasi nulla. È di lui che Ambroise Vollard traccia la miglior biografia aneddotica. “Cézanne era convinto che un pittore avesse tutto da guadagnare guardando i quadri degli altri pittori. Ma ‘gli altri pittori’ per lui, erano i vecchi maestri, e la sua rue Laffitte era il Louvre”.

Ammette il pittore di Aix al mercante, “io sono un debole, preferisco la chiesa” alla politica. Cézanne era un solitario, “non usciva quasi mai”. Era sostanzialmente un bonaccione dotato di grande cultura. Amava la pittura antica, e nella sua casa si potevano trovare le stampe di Luca Signorelli, El Greco, Tiziano, Tintoretto. Capitava poco che si arrabbiasse, e a quelle rare improvvise uscite iraconde seguiva un certo pentimento; dice Vollard che “quando la collera sembrava aver raggiunto il culmine, la sensibilità, l’ingenuità quasi infantile” prendevano il sopravvento.

Picasso, Ritratto di Vollard, 1910

Monet era una persona dotata di un’umanità non comune, distinto da “un’aria inconfondibile da gentiluomo di campagna”. La cosa che più colpisce Vollard del grande impressionista è “la sua estrema semplicità, oltre alla fervida ammirazione per Cézanne, e per tutti gli altri pittori contemporanei: “la [sua] casa era grande, ma le pareti erano letteralmente sommerse dalle opere dei suoi colleghi”. Risponde in proposito Monet al mercante in visita: “la maggior parte di questi lavori se ne stavano a marcire nelle vetrine dei mercanti. In un certo senso, li ho acquistati per protestare contro l’indifferenza del pubblico”.

Il primo incontro con il Puntinismo non fu felice, “una ‘pittura a piccoli punti’ mi ero messo in testa che si trattasse di un lavoro da signorine, e quando passavo davanti ai Seurat e ai Signac, evitavo di fermarmi”. Non tardò il cambio di giudizio, naturalmente. Di Gauguin mi ha colpito scoprire i dettagli della sua bellissima amante, una “piccola meticcia giavanese agghindata di orpelli luccicanti che lo seguiva come un’ombra”, facendo risaltare il pittore simbolista come un “principe orientale”. Il povero Van Gogh “non suscitava che scherni, se non vere reazioni di collera”, eppure Vollard gli dedicò la prima vera grande esposizione delle sue opere.

La notissima e influente Gertrude Stein era a suo giudizio una personalità “molto complessa”, che dai suoi modi la si “sarebbe detta una brava massaia dall’orizzonte limitato ai rapporti con il fruttivendolo, il lattaio e il droghiere”. Ma “la vivacità dei suoi occhi rivelava il tratto inconfondibile dell’osservatore acuto a cui non sfugge mai nulla”.

Eppoi ancora tanti altri celebri artisti. Redon era una persona onesta che non si permise di alzare i prezzi dei suoi dipinti ai collezionisti di fiducia nemmeno dopo il successo. E che sorpresa scoprire che i Nabis restarono inizialmente freddi davanti al Talismano di Serusier, oggi considerato il capolavoro del movimento. Invece la prima volta che Henri Rousseau il Doganiere entrò nella bottega di Vollard, il mercante lo scambiò per un facchino; ma dopo averlo “conosciuto, era impossibile non amare quell’uomo: era la gentilezza in persona”.

Pierre Bonnard, Ritratto di Vollard, 1905

Il tempo in questa sorta di autobiografia non esiste, corre rapido e a tratti si ferma; le vicende scorrono velocissime, ma talvolta si soffermano su dettagli minuti. Come a quella cena nella sua “cantina”, in cui un ospite maldestro ruppe davanti al padrone di casa un quadro enorme: “la cena continuò senza che io dessi il minimo segno di disappunto […]. ‘Un aplomb ammirevole, Vollard. Come ha fatto a non esplodere?’. ‘È stato facilissimo: quel quadro non è mio’”.

Pierre Bonnard, Cena alla cantina di Vollard, 1907

La “cantina” non era altro che il seminterrato della bottega in rue Laffitte; il menu consisteva in un solo piatto essenziale, il cari di pollo, ma si chiacchierava tanto, il livello era alto. Di qui sono passati tutti i più grandi artisti dell’epoca; che invidia per molti! In una critica ostile seguita alla pubblicazione delle Memorie, un recensore incattivito accusa Vollard di scarsa serietà: “scrive esattamente come parla” – sostiene il giornalista anonimo – il grosso del libro, prosegue, “riguarda i pittori. Bene: in tutte quelle pagine, nemmeno un briciolo di critica d’arte…”. Verissimo. E è proprio questo a renderlo un libro così interessante, degno di essere letto.

Damiano Perini

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