VACANZE GIULIANE, PARTE PRIMA. IL COLLIO (Primosic, Fiegl, La Castellada, Radikon, Damijan Podversic)

Direzione Gorizia.

Partendo dal Lago di Garda, raggiungere Gorizia significa attraversare importanti città e quindi numerose attività storico culturali. Quante possibilità ho tra le province di Verona, Vicenza, Padova e infine Gorizia? Troppe, e quindi mi limito a una sola, comoda e imponente scelta: la Rotonda del Palladio. Viaggio di domenica e la condizione è delle migliori, nessun camion e poche altre macchine oltre alla mia. 

C’è piuttosto freddo e in macchina sull’autostrada me la sto godendo con riscaldamento acceso e Tutto il calcio minuto per minuto su Radio 1 (è domenica pomeriggio), però il clima soffuso e la giornata uggiosa mi mettono voglia di visitare altro. Meta quindi a Aquileia e, di rimbalzo, a Grado. La storia della prima è come se fosse convogliata nella potenza della basilica paleocristiana, imponente, austera, dai pilastri massicci e dal pavimento coperto interamente da mosaico; dalla cripta affrescata alle decorazioni rinascimentali. Accendo un cero, faccio riverenza e ritorno alla macchina. 

Ho voglia di un caffè ma voglio cambiare aria; mi rimetto alla guida e mi trovo in poco tempo d’innanzi alle mura di Palmanova, la citta fortezza. Ne bevo uno buono vicino alla piazza. Infine arrivo Gorizia e si è fatta sera, un giro in centro però è d’uopo, soprattutto se si è sotto clima natalizio. Fatta notte viene tardi, e gli impegni del giorno dopo mi richiamano all’ordine. 

 

Primosic.

Un giorno di pioggia si è trasformato non so come, in una sola notte, nella giornata più bella e limpida che più bel regalo non si poteva farmi. Il cielo è azzurro vivo; solo una leggera foschia percettibile a fondo valle sale piano piano dai colli. Ne approfitto per visitare il luogo, di prima mattina si ha la luce migliore per osservare.

Oslavia per me è zona completamente nuova, e come sempre mi emoziono di fronte a terre nuove e vigneti mai visti. Decido per approfondire di salire a San Floriano, il paese più alto del Collio, là sopra sta una piazzetta con tanto di monumento e chiesetta parrocchiale. E da questo magico punto si ha una veduta praticamente a 360 gradi sul territorio: a nord mi saluta  innevato l’arco alpino, magnifico, bellissimo e brillantissimo (giornata limpida, le Alpi Giulie sembrano a pochi chilometri) e poco sotto si intravede Udine, di là poi la Slovenia,  quindi Nova Gorica. E tutt’attorno a me vigneti dalla pendenza notevole alternati a boschi incolti, tantissimo bosco quasi a cadenza regolare che, essendo dicembre, si traduce in un ammasso disarticolato di tronchi spogli.

Devo separarmi da questo spettacolo perché ho il primo appuntamento della giornata. Arrivo da Primosic (nomen omen) giusto in tempo; sono accolto con un  buongiorno da Chiara, una signorina gentilissima e molto cordiale, con un sorriso vivace stampato in faccia (sarà perché sono le nove e venti del mattino?); un’accoglienza non calda ma comunque confortevole. Mi racconta dapprima la storia della cantina a grandi linee, qualche nozione base, non senza informazioni generiche sulla viticoltura locale.

Il Collio – una mezzaluna collinare di poco a nord di Gorizia, posta tra i Colli orientali del Friuli e il Carso, e che confina, accarezzandola, la Slovenia – conta circa 1500 ettari vitati. Un territorio martoriato in passato dalla Prima Guerra Mondiale, ma che, come già ha scritto Mario Soldati, “chi non sappia, crederà  di trovarsi nel più idillico, nel più soave, nel più pacifico angolo d’Europa…” Le parole di Soldati sono di circa cinquant’anni fa, ma valgono ancora.

Oslavia, comune piccolissimo di 650 abitanti approssimati per eccesso, che coincide in pratica con la via che da Lucinico porta a san Floriano, rappresenta il cuore del Collio. In questo paese, che di eccezionale ha poco o nulla se non il vino e i vigneti, ci sono ben sette produttori (più uno), di differente ma eguale qualità, caparbietà e, nonostante i piccoli numeri, forza.

I Davide che tengono alto il nome rispetto ai Golia (penso senza andare troppo lontano ai Livio Felluga, ai Schioppetto, ai Venica&Venica) corrispondono al nome di: La Castellada, Fiegl, Gravner, Primosic, Prinčič, Radikon e Il Carpino (che però sulla carta è sotto San Floriano). Questi (ai quali se ne aggiungerà un altro) negl’ultimi anni sono impegnati, insieme, in campagna volta a valorizzare e promuovere la Ribolla Gialla del territorio e i suoi metodi di vinificazione (ben lontani, a esempio, dalla ribolla gialla spumantizzata in Veneto, sulla quale differenza seppur ovvia, non è scontata). L’idea è quella di una nuova apposita DOCG, che identifichi la sottozona; ma questa è materia per burocrati.

Primosic, con i suoi 30 ettari di terreno vitato (tra proprietà e affitto), appezzamenti suddivisi a macchia di leopardo, è tra le più grandi aziende del Collio. I fratelli Marko e Boris Primosic fondano l’azienda attorno al 1956, ma solo nel 1964 escono le prime ufficiali bottiglie (alcune è possibile osservarle ancora integre in azienda).

È mattina presto ma non mi spavento più di tanto, anche Soldati cominciava a bere di prima mattina nei suoi viaggi. Così Chiara mi presenta una lunga successione di etichette: sono quindici, divisi in due linee, tra classici e macerati, e di cui solamente tre rossi (un merlot, un refosco e un assemblaggio dei due). La giornata è lunga e non posso bere tutto. Faccio un selezione cercando vini che coniughino curiosità e piacere. Attacco con la Ribolla gialla ‘base’: un giusto inizio, perché leggermente acidula, leggerina, gradevole. Chiara mi parla della Ribolla come un vitigno a due facce, un vino dei contadini da un lato fatto per essere bevuto a quantità sostanziose (e mi sembra questo il caso), e dall’altro un frutto dal grande potenziale, considerando l’acidità e, essendo varietà coriacea, lo spessore della buccia (è il caso dei macerati). “Oggi macerano di tutto e di più”, mi dice, “ma non tutte le varietà si prestano a macerazione”. Sacrosanto: dato che ho bevuto vini macerati dei più disparati e molte volte con esito sgradevole non posso che concordare.

Poi sale di grado e mi versa uno Chardonnay riserva, con alle spalle due anni in barrique, un 2017 appena uscito in commercio e quindi freschissimo. Un vino grasso e burroso, “in stile borgogna”, in cui avverto molta frutta secca come di arachidi. Mi pare ottimo per colazione, figuriamoci a pranzo; anche se con un periodo più o meno lungo in bottiglia me lo aspetto ancora meglio.

Prima di arrivare ai macerati bevo un bianco ‘selezione’ che è una vibrante e alternata armonia di tre timbri e sonorità diverse: sauvignon, friulano e chardonnay. Questo vino, che si chiama Klin dal nome del vigneto, è il risultato di un sapiente uvaggio (e non assemblaggio: la differenza è notevole, e Chiara me lo ribadisce): le uve delle tre varietà provengono da vigne piantate nello stesso appezzamento a forma di cuneo (di qui il nome di ‘klin’, dallo sloveno) che si inserisce con la punta al confine con la Slovenia; queste maturano insieme e insieme vengono vendemmiate e fatte fermentare, e successivamente fatte affinare in caratelli di legno. È un’orchestra (talvolta disordinata) di profumi e sapori che ho nel bicchiere, talvolta più erbacei oppure più fruttati, note che si scambiano e si incrociano continuamente. Purtroppo il tempo è poco e non ho la possibilità di verificarne l’evoluzione nel bicchiere in un tempo abbastanza prolungato. Vino di notevole complessità. E eleganza.

Se si bevono i vini del Collio non ci si deve stupire se i prezzi sono più alti della media: il lavoro in vigna, per via delle pendenze e della distanza tra i filari, è tutto a mano. Si aggiunga poi i lunghi affinamenti, solitamente in caratelli o botti o tini che questi vini fanno prima di essere messi in commercio. Ma questo chi beve bene lo sa; e il mio lettore beve bene, e comunque mi propongo di scrivere per un bevitore di senso oltre che godereccio. Non c’è bisogno che mi dilunghi oltre.

Finalmente Chiara mi versa i macerati. Tutti eccezionali per la struttura e al contempo la bevibilità, non mi risultano pesanti o graffianti, anzi la loro eleganza e piacevolezza unita alla succosità e acidità richiamano un bicchiere dietro l’altro.  Il friulano ‘Skin’ fa una macerazione di due settimane, un anno di botte e due in bottiglia; le note della sospensione sulle bucce si avvertono fievolmente, unite a note floreali e frutta secca. Nella Ribolla gialla invece sono quattro le settimane di macerazione, due anni in caratelli di legno da 17 ettolitri più anno in bottiglia. Il risultato è insieme esplosivo e suadente, all’albicocca disidrata si uniscono note più tostate e marcate. Il contatto con le bucce nel Pinot grigio è molto minore, una settimana, la tannicità è meno marcata, ma – in virtù certo della varietà – il vino che ho nel calice ospita innumerevoli note e svariate tra loro: dalla frutta matura al balsamico delle erbe officinali. Un vino a due facce, materico e lunghissimo.

La curiosità mi spinge a assaggiare anche il Refosco (li assaggerei tutti, ma come ho detto la giornata è ancora lunga), che al contrario di come pensavo lo trovo molto beverino, leggermente tannico, molto fresco (l’acidità è spiccata, non dirò aspro però). Il refosco, mi spiega Chiara, è un vino di difficile produzione per via dell’alta acidità e del tannino presenti, i quali senza giusta accortezza potrebbero fare diventare il vino eccessivamente duro. Questo di Primosic mi sembra però un Refosco equilibrato, seppur cupo e abbastanza selvatico, con note predominanti (ma chiuse) di mora matura.

È una bellissima giornata, fuori tira una leggera brezza ma il sole è avvolgente, e quindi Chiara si offre di accompagnarmi a visitare qualche vigneto nei paraggi. Ci incamminiamo in un sentiero che porta verso est, scendendo a fondovalle, ossia verso la Slovenia – che è lì vicinissima, proprio di fronte. Mi porta a visitare l’appezzamento che poco fa mi ha spiegato, il Klin. Resto stupito da tale pendenza. E dalla stravagante linea di confine, spezzettata e discontinua. Chiara è un’ottima interlocutrice e il discorso passa allora alla storia del confine, storia di guerra e di sofferenze. Una linea netta sul Monte Sabotino, il monte di confine, si distingue per la sua eccessiva regolarità: è la Strada di Osimo, mi spiega Chiara, una via di comunicazione costruita a seguito dei trattati del 1975, necessaria per collegare i due stati, e per rendere più agevole il percorso di chi doveva andare da una parte all’altra del confine.

 

Fiegl.

Le nostre strade si separano rientrando; a metà della stradina infatti un bivio ci impone un saluto. Ringrazio la solare Chiara, che con un sorriso mi indica di proseguire sulla destra per la mia meta successiva. Fiegl è poco lontana da Primosic, solo che la raggiungo dal retro e non dalla strada principale. Meglio così perché passo per delle botti e non per il cancello; senza accorgermene faccio un po’come se fossi nel giardino di casa mia, poi mi avvicino alla porta e vedendola socchiusa entro. In cantina un ragazzo mi saluta con un cenno secco di contrariata sorpresa, accompagnato da uno sguardo interrogativo; è Jacopo Fiegl che sta imballando cartoni di vino pronti per esser spediti. Mi presento e mi scuso per l’irruzione, e dopo una risata e una breve visita in cantina mi accompagna nella saletta degustazione, ben riscaldata, con albero di Natale appositamente decorato, e quindi più ospitale. Una vecchia credenza che conserva una batteria di bicchieri atti alla degustazioni è pretesto – come in tante cantine di produttori che ho visitato – per adagiare bottiglie di vino di altre aziende (bevute, ovvio) di eccezionale qualità.

Jacopo è giovane se non giovanissimo ma pare conosca molto del mondo dell’enologia, ma soprattutto del suo vino e della sua terra. I Fiegl, mi dice, sono una famiglia (di origine austriaca, come il guru della zona, Josko Gravner – che qua scopro pronunciarsi anche ‘Grauner’, secondo pronuncia slovena), di viticoltori da otto generazioni, seppur i primi imbottigliamenti avvengo attorno al 1992. Con 35 ettari sono di poco più grandi di Primosic; tra i più grandi del Collio e sicuramente di Oslavia. Vigneti sparsi, non solo nel Collio ma anche nella piana isontina (Doc Friuli Isonzo). Molte etichette anche qua e quindi decisione forzata. Tra le due linee più importanti, la ‘Fiegl’ per i vini classici, o ‘base’ che dir si voglia, e la ‘Leopold’ per i vini di più lungo affinamento, più importanti.

Decido naturalmente di cominciare con una Ribolla gialla di annata, molto varietale ancora, dal profilo leggero; poi un Friulano, molto beverino ma con una accentuata sapidità, caldo (non per la temperatura di servizio che è perfetta, bensì per quel tono avvolgente, effetto tattile dato dai polialcoli), e poco più articolato del primo. Bevo poi una piacevolissima Malvasia istriana, appartenente alla famiglie delle malvasia, ma molto meno stucchevole, meno aromatica, se vogliamo più secca, e sicuramente molto, molto minerale. Per effetto dell’aria che arriva dall’Adriatico e del particolare suolo, questa Malvasia, seppure presenta caratteristiche più morbide e meno spigolose rispetto agli altri bianchi risulta, non dico salina, ma sapida e molto lunga.

Jacopo ha una bella chiacchiera, e nel suo disquisire è pure coinvolgente; quindi lo ascolto volentieri mentre mi parla del Collio e delle aspirazioni future per la Ribolla gialla locale, e soprattutto della sua azienda e dei suoi vini. “Non vogliamo fare vini stucchevoli”, mi spiega confermandomi ciò che ho intuito dagli assaggi, “non vogliamo che i nostri vini stufino; l’acidità, la freschezza, la verticalità sono un marchio di fabbrica; vini troppo pieni, materici sono un difetto”. E leggiadro e snello trovo pure il Sauvignon: un vino che è per me la sorpresa della cantina. Non trovo in questo vini l’agrumato solito; sì, forse leggermente. Non percepisco note erbacee, scorbutiche e neppure l’opulenta e saziante nota di albicocca matura. Questo Sauvignon emana un finissimo e rinfrescante sentore balsamico, che va dalla mentuccia alla melissa, al dragoncello. “Questione di vinificazione”, mi dice, e poi si spinge nel dettaglio con paroloni chimici (dalle metossipirazine ai vari tipi di lieviti) che mi suonano come formule alchemiche, e che cerco di rimuovere il prima possibile.

Passa in rassegna poi la linea ‘Leopold’, il cui nome vuole essere un omaggio a Leopold Fiegl, omonimo politico austriaco che nel Dopoguerra ha contribuito alla costruzione dell’Austria, o almeno cos’ dice lui.  Il primo vino è un assemblaggio di Ribolla gialla, Friulano e Malvasia dal nome molto semplice, ‘Cuvée Blanc’, dove prevale il frutto giallo; un vino molto intenso, e degno di interesse.

Mantiene la filosofia dell’azienda il loro macerato (per ora l’unico in commercio). Questa Ribolla Gialla di Oslavia (questo il nome) infatti, con venti giorni di macerazione, è molto delicata, ‘pettinata’; è “un orange wine d’entrata”, mi avverte Jacopo, “insolito rispetto a quelli che fanno qui intorno; è un avvicinamento al mondo dei macerati”. L’estrazione c’è e si sente, o meglio, si avverte in modo delicato. Molta frutta, soprattutto albicocca disidratata e fievole sentore come di amaretto.

Già che siamo in tema (la discussione – ma farei meglio a dire il soliloquio di Jacopo – nel frattempo si è animata), e di macerazioni si parla, mi tira fuori da non so dove una chicca, ancora senza etichetta e senza nome: un vino con più lunga macerazione, più lungo affinamento, e lunga maturazione del frutto in pianta prima di esser vendemmiata. Un vino intensissimo, strutturato e carnale, meno ‘pettinato’ del precedente e più ruspante. Un cru, mi dice, a tiratura limitata, “dalla curva evolutiva ampia, perché si porta dentro tutti i componenti; tutto quello che l’uva di buono può dare è stato preso”. Un vino con un potenziale strepitoso, con l’unico difetto di essere stato ancora poco in bottiglia.

Chiudo la degustazione (o bevuta) da Fiegl con il loro vino di punta, il Merlot. Vino elegantissimo dalla lunga maturazione e evoluzione in legno (sei anni); succoso dai toni tostati quanto bastano. Un gran bel vino.

 

La Castellada.

Se ho parlato di soliloquio per Jacopo Fiegl, per Nicolò Bensa, fondatore dell’azienda La Castellada insieme al fratello Giorgio, utilizzo il termine vero e proprio di oratio, nella mera accezione antica. Per giungere a questa destinazione anche il navigatore è stato vano. Non un’insegna, non una indicazione minima; fortuna che a Oslavia le cantine sono tutte a fianco della strada e sul ciglio del colle (per usare un’espressione di Soldati). Dopo vari avanti e indietro con l’auto trovo una persona di passaggio (cosa rara) che mi indica la retta via. L’azienda è molto esigua, direi umile, assolutamente non vistosa, per nulla eclatante, spartana e direi nascosta. La struttura mi ha ricordato quella di Walter Massa a Monleale: casa contadina standard, dove al piano nobile abita la famiglia dei vignaioli, e sotto al piano terreno, o seminterrato c’è la cantina con tanto di vasche, botti, e macchine.

Mentre dal cortiletto sono perso alla vista dei continui sali e scendi collinari, una signora intenta a stendere, della cui presenza non mi ero accorto,  mi chiede bonariamente se sto aspettando qualcuno. Replico affermativamente, ho appuntamento con Nicolò Bensa, il fondatore dell’azienda e tra i primi ‘visionari’ che hanno reso il Collio quello che è oggi.

Questi esce con pacatezza dalla cantina (è evidente che è sceso da casa passando per qualche scala interna), e dal passo intuisco subito che è lui, seppur non lo abbia mai visto prima. Si avvicina calmo e allo stesso tempo fiero, con una felicità interiore di chi dalla vita è stato ricambiato come voleva, un uomo abbastanza anziano, soddisfatto del suo lavoro; questo mi pare ovvio. Mi saluta e si presenta, i modi sono affabilissimi, educati e solenni; il che fa un certo contrasto con la divisa che penso si immutata da anni, scarponcini, camicia a quadri, cappellino pesante. Rubizzo, stampo da agricoltore e energia da vendere. Le linee del volto, seppure quelle marcate delle vecchiaia, sono tutt’altro che dure e irrigidite; gli occhi azzurri e vispi emanano un moto vivo e sono sinonimo di lucidità, oltreché rivelare una grande passione radicata da chissà quanto tempo.

Un preambolo che suppongo necessario. Perché a seguito del breve saluto il signor Bensa si apre in una parabola senza ritorno in cui la storia dell’azienda si mescola a quella del Collio, alla viticoltura italiana, alla viticoltura biologica, all’economia, alla chimica… Un’orazione vera e propria che io, seppur stretto coi tempi, ascolto quasi magnetizzato. Nicolò è un vero retore, e mentre parla quasi mi compare sul suo viso l’ombra di Renato Barilli, che ci assomiglia per loquacità, per fisionomia e per modi di gesticolare; uguale il modo di parlare (linguaggio fluido e sciolto), e simile l’arte della divagazione (il professor Barilli lo chiamano il ‘Dottor Divago’ per la dote assai rara di passare con competenza di palo in frasca durante lezioni e conferenze).

Sulla semplicissima e malposta domanda: “i vigneti qua sotto sono vostri?” i temi toccati sono stati, non in ordine e in un arco di tempi indefinito: cenere come protezione della uva in pianta; viticoltura della Mancia e vini spagnoli di un suo conoscente; le famiglie di origine austriaca di Oslavia; la rapa acida; consiglio di ristoranti e piatti tipici; conservazione del grasso del maiale; wasabi; ossidazione buona e ossidazione cattiva nei vini; Walter Massa; il Giappone il gusto dei giapponesi; evoluzione in barriques dei vini. E poi qualche passaggio credo di essermelo perso sicuramente, e tutto non sono riuscito a annotare.

Tornando alla Castellada, gestita ora dai due nipoti di Nicolò, e figli di Giorgio, conta poco meno di dieci ettari, con una produzione di circa 20.000 bottiglie l’anno. Il nome della azienda è un toponimo e non c’entra nulla con ‘castello’: si tratta di una collina lì vicino dove tengono il maggior numero di vigneti. Ciò che mi risulta lampante è l’amore per la terra e per la natura di Nicolò. Ricordandomi un po’ Barbara Avellino di Rovescala, mi dice tonante (il “tonante” perché si stava parlando di produzione vinicola massificata): “non hai 10.000 piante per ettaro, ma hai 10.000 individui diversi tra loro… Il segreto per un buon vino è conoscere ogni singolo individuo”. Una filosofia da Buon-Pastore, applicata alla viticoltura.

I vini de La Castellada affinano tutti in legno, piccole o medie botti. Il perché me lo spiega (divagando, naturalmente). In poche parole, il legno “può preservare una flora batterica, cioè dei residui di materia viva, che interferiranno positivamente negli anni seguenti”.

Avrei voluto assaggiare un vino significativo tra le etichette offertemi. Poi però, trasportato dalle sue parole, li assaggio tutti. “Prediligiamo la consistenza”, mi confessa Nicolò Bensa, “la sapidità, la corposità, anche a discapito di fattori come acidità”. Vini profondi, meditativi, che hanno da dire addirittura più di chi li fa… e spero di aver reso almeno un po’ l’idea.

 

Radikon.

Uno strano ‘tepore’ comincia a pervadermi, ma considerato che è dicembre forse tepore non è. Comunque scalpito perché il prossimo appuntamento è in Località Tre Buchi, numero 4, e l’azienda è quella di Radikon. Radikon! Pazzesco. Da anni è per me un mitologico vino che ho bevuto in modo del tutto fortuito in occasioni ancora più disparate, in annate diverse, contesti diversi, predisposizione più o meno adatta. Mai una volta che uno di quei vini mi abbia evocato anche solo lontanamente il precedente medesimo, eppure, ogni volta, a ogni bevuta o meglio assaggio, la sensazione è stata quella di bere qualcosa di mistico, contemplativo.

Il parcheggio è ampio e anche questa azienda dà sulla strada da una parte, e sui vigneti declinanti (esposti a sud) dall’altra. Al mio arrivo il sole già accenna a tramontare, e la visione che mi si presenta d’innanzi è un affresco tardo-mediovale, in una rivisitazione che si addice pienamente ai nostri giorni. L’affresco a cui penso è il mese di settembre del celebre ciclo dei mesi della Torre dell’Aquila, castello del Buonconsiglio, Trento. Discendendo dal parcheggio arrivo in un cortiletto ben tenuto, dove ho una deliziosa visione. Due ragazze, forse due cariti  in forma agricola – o forse amazzoni in tempo di pace –, lavorano attorno a un tino pieno d’uva; una terza, idem come sopra, sta manovrando un trattore. È quest’ultima che si fa incontro, con lei ho appuntamento.

È Ivana Radikon, sorella di Saša e figlia di Stanko, il visionario produttore di vini a lunga macerazione (così il Gambero Rosso: “produttore controverso, estremo e geniale, tra i papà degli orange wines del Collio friulano insieme a Josko Gravner”) mancato nel 2016.

Dopo una breve saluto e un’ancor più breve presentazione mi invita a fare un giro tra le vigne. Realizzato che quella che ho di fronte non è Demetra, né sono in un harem felliniano versione vitivinicola, la seguo e comincio a ascoltare. È giovane, ma nonostante l’approccio recente al mondo del vino è molto preparata. Mi illustra le vigne, che hanno una pendenza sorprendente; mi fa notare il particolare sistema di coltivazione ‘a candelabro’; mi spiega il metodo di potatura che è quella della scuola di Marco Simonit e Pierpaolo Sirch (“Metodo Simonit&Sirch”, appunto), una particolare potature che allunga il ciclo vitale della vite rendendone più sana la pianta. Ivana è molto pratica, asciutta ma esaustiva; direi molto laconica, e dunque chiara. Mi parla con riguardo come nessuno prima del particolare suolo che in quelle zone si può riscontrare, ossia la Ponca, un terreno in cui si alternano marna e arenaria, e a cui il Collio deve la propria identità.

Le varietà coltivate nei 23 ettari complessivi, e talvolta nello stesso appezzamento, sono quelle già viste sul Collio: ribolla gialla, friulano (anzi, tocai: orgogliosamente qua la varietà tiene il nome originario, prima che l’imposizione normativa impedisse all’Italia tale nome per la somiglianza con Tokaj, in Ungheria, e il famoso vino dolce che qui si produce), chardonnay, pinot grigio, sauvignon, merlot e una sorpresa, il pignolo, una varietà rossa locale che dà vini molto concentrati e tannici.

Dopo aver visto anche la cantina con i tini in rovere di Slavonia dove i prodigiosi vini prendono piano piano vita, sono condotto in una sala degustazione dotata di una vista estatica sul territorio: filari che scendono e salgono, scaldati da una luce calda di un sole che ormai è stanco, e scende. Cominciamo a officiare (anche questo termine lo rubo a Soldati, ma mai è stato usato meglio, credo) e, nemmeno a dirlo, i vini offerti me li bevo tutti con calcolata avidità. Tre le linee di produzione in base ai tempi di macerazione: la Linea S con una macerazione più esigua, circa dieci giorni, la Linea Blu, che arriva anche a quattro mesi e le selezioni.

Le selezioni, ossia il Merlot e il Pignolo (chiamato “Pignoli”, con “i” finale per futili questioni burocratiche) sono vini dionisiaci. Ma è con i macerati bianchi che lo spirito è appagato e una nuova forma di serenità mi si forma tutta dentro. La Ribolla prima, poi Oslavje (ossia Oslavia, in ricordo dell’origine slovena della famiglia) e infine Jakot, dal nome provocatorio (semplicemente “Tokaj” letto al contrario). Vini inebrianti, dai milleeuno profumi e milleeuno sapori. Mi riappare Demetra, iniziano le visioni. Prima che scappi un ditirambo rivolgo i miei ossequi, e, facendo attenzione a non svegliare Sileno, torno all’auto.

Damijan Podversic.

Un’ultima, importante destinazione m’impone solerzia. Devo raggiungere la nuova cantina di Damijan Podversic che dista una ventina di minuti da dove sono, per stradine di campagna. È un’altra collina rispetto a Oslavia quella che devo raggiungere; quindi torno a Lucinico e mi inoltro, salendo, o meglio arrampicando, sul Monte Calvario. Nome prolettico, esemplificativo: una serpentina strada di curve, di buche, di terra che forse una volta era asfalto conduce in un lugubre bosco, ascendendo verso una fine che non si sa dov’è. Una strada iniziatica, che solo il puro discente del vino deve percorrere – faticando  –  se vuole abbeverarsi alla fonte: questo il messaggio, penso mentre mi avvicino. A un certo punto il bosco si infittisce, si fa buio, la strada si raddrizza facendosi pianeggiante. Un istante dopo ecco la meraviglia. Sul crinale di una collina perfettamente lavorata, in cui da una parte e dall’altra filari di vite disegnano regolari prospettive verso fondo valle, una struttura sinuosa e in conciliazione con l’ambiente circostante mi dice che sono giunto da Podversic.

Anche qui una ragazza (oggi sono fortunato) mi viene incontro con un passo placido e dei modi così distesi che appacificherebbero anche la persona più irrequita. È Tamara, figlia di Damijan, unica dei tre figli come mi dice che lavora in azienda. Capelli chiari e occhi chiarissimi, dalla parlata fluida e soave, mi accompagna nella parte alta dell’edificio, l’unica parte completamente fuori dal terreno. Qui mi spiega non senza pathos la storia travagliata di Damijan e sua moglie, delle fatiche patite nei primi anni quando la vinificazione avveniva in edifici scomodi e lontani dai vigneti; fino ai primi risultati, al riconoscimento internazionale dei vini e alla nascita, recente, della nuova cantina.

Questa è un piccolo capolavoro di architettura: l’autore è Ignazio Vok, come lo definisce lo stesso Damjan, un visionario, “architetto di professione e passione sempre alla ricerca del bello, anche nei minimi dettagli”. Si tratta di una struttura essenziale e minimalista a ellisse, che a sua volta all’interno è suddivisa in tre ellissi più piccole. E questa soluzione, oltre che a una funzione estetica, è proficua anche per questioni pratiche, come mi riferisce la mia ospite.

Tamara mentre passeggiamo e guardiamo giù verso i vigneti, attraversati da un leggero riflesso arrossato, donato da un sole ormai arreso che si divide all’orizzonte, torna a parlarmi del terreno, della Ponka, che è come un “cracker friabile” mi dice. Fattosi completamente notte mi conduce in cantina, dove una serie di tini dai 20 ai 48 ettolitri perimetrano l’area.

Tamara entra nel vivo cominciando a parlare dei vini prodotti a partire dai quasi 12 ettari di vigneto di proprietà, molti dei quali appena osservati lì attorno. La sua voce si fa ancora più suadente e lenta, dal timbro sempre più basso e monocorde; il tutto acuito dall’eco della sala. L’atmosfera soffusa poi rende il colloquio ancora più cerimonioso. E allora ascolto questa Vestale di Bacco in religioso silenzio, perché le cose che dice sono puntigliose.

I vini che assaggio sono prelevati tutti direttamente dalle botti; li assaggio cioè in versione più o meno fresca, senza affinamento. Inutile dire che già si riconosce il potenziale, e altrettanto sterile sarei se dicessi che tutti i vini che ho assaggiato hanno una qualità notevole. Bevo, in ordine: Kaplja (ossia ‘goccia’ in sloveno, omaggiando l’origine slovena della famiglia), un assemblaggio di chardonnay, friulano e malvasia, un vino che fermenta in presenza delle bucce dai sessanta fino ai novanta giorni. Evolve in botti da venti o trenta ettolitri per tre anni e affina almeno un anno in bottiglia. Grande raffinatezza, grande sostanza, grande eleganza. Lunghi affinamenti anche per il Nekaj (friulano) e per la Ribolla Gialla. Eguale il risultato.

Soggiogato dalle ultime parole di saluto di Tamara, pasciuto dalla giornata sul Collio, riprendo la via del ritorno: più leggero; e forse sì, anche leggermente alterato.

[continua]

Damiano Perini

 

 

*tutte le foto sono scattate dall’autore