VACANZE GIULIANE, PARTE SECONDA: IL CARSO. Zidarich, Lupinc, Kante, Skerk

Carso: una parola già di per sé pietrosa, composta di cinque pesanti, granitiche lettere: C-a-r-s-o. Quindi non avrei dovuto stupirmi appena varcata la soglia di quel sontuoso, selvaggio, animalesco e inquietante altopiano, che si innalza  veementemente a capofitto o in modo ossimorico da Trieste, e compresso alla parte opposta dal confine sloveno.

La mia meta è Prepotto, piccola località sorprendente (da non confondere con Prepotto in provincia di Udine). Restando nel confine italiano si può arrivare da nord, passando per Aurisina, quindi Sales e Sgonico; oppure da ovest, passando per Prosecco, e quindi Gabrovizza; o, infine, da sud, procedendo per Opicina, e quindi Rupinpiccolo. Ma in tutti i casi il paesaggio che si affronta è il medesimo: pietre, pietre, pietre. Muretti a secco ovunque, costeggiano strade o tratturi o sentieri abbandonati o prati incolti; muretti a secco integri o in sfacelo ovunque.

Io passo da Sales, dubbioso (in che misterico posto sono? Devo aspettarmi Sileno?)ma assetato (i vini del Carso sono straordinariamente buoni), e dunque procedo sino a arrivare in un rettilineo lunghissimo; a un certo punto mi si para davanti un’indicazione molto algida: “Prepotto”. Resto sbigottito, non è da lì che mi aspettavo provenissero i fragorosi Terrano e Vitovska. Poi mi accorgo di una stradina a lato, molto stretta e in mezzo al bosco; decido di percorrerla. E infine il tripudio.

Prepotto è un paesino leggermente rialzato dall’altopiano carsico e posto quasi sul cucuzzolo, così che di colpo ci si trova d’innanzi il maestoso golfo di Trieste, blu e scintillante. La strada per arrivarci percorre l’interno del Carso, e Prepotto ne è ‘separato’ da un fitto bosco. Per questo non potevo immaginarmi uno spettacolo simile! Il paesaggio, nel giro di poco è cambiato completamente, adesso è una collina regolare che degrada dolcemente a valle, è un susseguirsi di campagna coltivata a vigna.

Se il paesaggio è collinare, l’aria è quella marina: un dolce sentore salino, come di salsedine, pervade tutto l’ambiente. Ecco da dove deriva – o così mi dicono – quella straordinaria beva e sapidità della Vitovska, vitigno locale e vino che si trova solo in questa zona.

Scrive Mario Soldati, nel suo viaggio del 1970, dopo essere passati – come il sottoscritto – da Trieste: “ci fermiamo in alto, in Carso, tra le vigne riquadrate dai bianchi muriccioli di pietra del Carso, in vista del mare specchiante un gran sole, in vista del golfo dove la pianura padana sembra giungere estenuata e chiudere in quell’aspra dolcezza la sua ampia, lunga, sinuosa forma femminile”. E tutto è ancora immutato, garantisco.

Il paesaggio collinare, quindi, e l’aria ventilata e marina. Il terzo, pazzesco, straordinario (qui tutto è straordinario) fattore che aiuta alla formazione naturale di vini eccezionali è il seguente: il suolo. Un suolo che non si può crederci se non lo si viene a tastare con mano, un suolo che è solo roccia, e veramente solo roccia, che vuole dire mineralità, mineralità e mineralità. Lo provo, lo verifico visitando le cantine della zona, Zidarich, Lupinc, Kant, e soprattutto Skerk, le quali sono scavate all’interno della roccia, in profondità. Sono vere e proprie grotte, caverne mozzafiato. Visitarle provoca un senso di vertigine raramente riscontrabile nelle altre cantine italiane.

Il primo appuntamento è da Zidarich. La cantina è inserita al principio della discesa che corre verso Aurisina, e guarda al mare. Nasce dalla determinazione di Beniamino Zidarich attorno al 1988; cresce negli anni ’90 arrivando a essere l’azienda leader del Carso, o comunque la più conosciuta e prestigiosa. A oggi conta circa 8 ettari di proprietà più 2 in affitto, arrivando a produrre anche 30.000 bottiglia annue. Mi parlano molto del territorio, in quanto “aiuta alla formazioni di vini naturali”. Il lavoro in vigna è tutto manuale, la roccia del terreno è in grado di dare molta mineralità, la brezza che giunge dall’Adriatico mantiene le piante asciutte. “Lavoriamo in collaborazione con la natura”, mi sento dire con entusiasmo. Tutti i vini prodotti (molte le etichette) passano un periodo più o meno lungo di affinamento. Mi ha stupito della cantina il fatto di lavorare con dei tini in marmo (!), un blocco unico di pietra di Aurisina, usati sia per la macerazione che per l’affinamento. “Il vino lavora più lentamente, e quindi in modo migliore, perché la pietra rimane fredda”, mi spiega la mia guida.

Mi colpiscono in particolare i seguenti vini. Vitovska 2017, un bianco pieno, minerale, sostanzioso; ma insieme caldo e avvolgente, sapido e lungo. L’influsso del mare, che mi guarda nella sala degustazione, è evidente. Al palato è un’esplosione di salinità. La Malvasia 2018, affina in botti medie, e è molto più morbido della Vitovska. Appartiene alla famiglia delle malvasie, ma non è così aromatica, anzi! È molto secca (non così secca come quelle di Oslavia), e questo ne provoca un’armonia, un’eleganza e una piacevolezza disarmanti.

L’orizzonte è ampio dalla sala degustazione di Zidarich, che è una terrazza vista mare. Prendo un bel respiro e mi preparo a bere uno dei miei vini preferiti: il Terrano. Un rosso carnoso, polposo anche se è impossibile a dirsi essendo dotato di una acidità e una mineralità esaltanti. Il terrano altri non è che un biotipo di refosco, il cosiddetto refosco dal peduncolo verde. Ma la differenza sta nel suolo in cui alligna, la terra rossa del Carso, e questo dettaglio fondamentale permette al vino di chiamarsi in tal modo. E di essere così buono. Il Terrano 2019 che bevo da Zidarich è molto giovane, è quello appena uscito, ma dimostra già un gran potenziale.

Ringrazio, e proseguo per la mia strada. Lì vicino sta Lupinc, piccolo produttore, la cui cantina è un meraviglioso pendant con l’agriturismo di fronte; l’entrata è unica, il giardinetto è in comune, e tutto è rimodernato. Il padre del proprietario attuale è stato un pioniere della Vitovska insieme a Edi Kante, e quindi, nonostante non abbiamo prenotato provo a intrufolarmi. Il proprietario, gentilissimo, mi ospita accompagnandomi subito a guarda il panorama: anche dalla sua azienda si può osservare uno strabiliante panorama, dal mare a Duino alla Pianura Padana. Si sofferma su Duino, il cui castello appartenente alla famiglia Thurn und Taxis, è noto per aver ospitato Rilke.

Il padre dunque comincia questa avventura vitivinicola nel Carso già nel lontano 1969; il figlio la prosegue con passione con un totale di 7 ettari e 20.000 bottiglie di produzione annue. Poche le etichette, ma tutte di eguale gradevole beva. Spicca, per mio personale gusto, naturalmente, il Terrano, che bevo nella vendemmia del 2019 e successivi due anni in botti di legno per l’affinamento.

Lupinic sta in centro al piccolo paese; ora devo andare da Kante che è di poco spostato verso l’interno, ossia al limite del bosco. Anzi, nel bosco, selvaggio c’è proprio immerso.  Il luogo mi pare arcaico, non ci sono indicazioni. Fortuna scorgo due enormi botti e allora capisco che sono arrivato a destinazione. Ci credo non vedevo la cantina – un cilindro nella roccia di tre piani – è tutta interrata! E scende, scende nelle viscere cazzo! Solo la saletta degustazione e gli uffici a vetrate sono visibili.

Mi viene incontro un signore cordialissimo, che facendomi fare un giro della zona mi racconta la storia dell’azienda, illustrandomi di volta in volta gli appezzamenti. A oggi è la cantina che produce più vino di tutto il Carso, grazie ai suoi 20 ettari (divisi a macchia di Leopardo) e le conseguenti 60-70.000 bottiglie. La mia distinta guida si sofferma poi su una cosa che ormai mi è impressa nella mente: le caratteristiche favorevolissime del territorio che aiutano in modo eccellente la produzione del loro vino di qualità, ossia lo iodio, proveniente dal mare, e la Bora, il vento fortissimo che permette un numero molto ridotto di trattamenti.

Degustando i vari vini della batteria noto che questa volta il Terrano è quello che apprezzo meno. È un vino che non fanno ogni anno, ogni vendemmia viene scelto se produrlo o meno in base a come è andata la maturazione. Il Terrano, mi spiega il mio ospite, è un vino complesso da produrre, sia per la buccia delicata sia per le evoluzione non spesso controllabili. La Vitovska è molto grassa nonostante non faccia macerazione, e è molto persistente al palato. Ciò che mi stupisce più tutti in casa Kante è lo Chardonnay, sia nella versione ‘base’, molto elegante, sia nella versione selezione, chiamata appunto Bora. Questa che bevo è una selezione 2012, e fa un lungo affinamento, prima in botti di legno, in acciaio e infine in bottiglia. Uno chardonnay estremamente raffinato e equilibrato, e soprattutto che ha un suo carattere distinguibile dagli chardonnay di altre zone note.

Skerk, l’ultima cantina della giornata, è la cantina più bassa di Prepotto, e anche questa, come Zidarich, è rivolta verso il mare. Azienda relativamente recente, lavora bene, vende molto e investe altrettanto. Il vino è riconosciuto, la qualità dei prodotti non è all’oscuro. Arrivo nel momento giusto perché la cantina è appena stata ristrutturata, praticamente rifatta. La sala degustazione è all’interno di una più grande sala scavata nella roccia e divisa da lastrone enormi, monumentali, mostruose di marmo locale Aurisina. La costruzione mette soggezione; e non ho visto tutto. Il mio accompagnatore con un sorriso mi invita a osserva poco più in là dalle botti, e ecco che le vertigini mi salgono fino a ledermi la testa: in basso dopo una ringhiera di sicurezza si apre una voragine spaventosa, in cui sul fondo soffusamente illuminato stanno delle botti di grandi dimensioni. Di qui partono grotte carniche naturali, e sono l’esemplificazione massima del suolo del Carso.

Sandi Skerk, ingegnere di formazione (e qua mi spiego la struttura e la sua maestosità) comincia a produrre vino dal 2000 circa. A oggi conta 8 ettari e una produzione di circa 20-25.000. Tutti i suoi vini sostano sulle bucce per almeno 2 settimane in tini da 18 ettolitri. Al momento le etichette prodotte sono 5. Assaggio una Vitovska 2019 dai sentori evoluti, un po’ spigolosa ma molto minerale; un bel fruttato contribuisce alla gradevolezza. La Malvasia è più rotonda, morbida, calda.

L’Ograde, a mio avviso il pezzo forte della batteria, è un assemblaggio sapiente di vitovska, malvasia, sauvignon e pinot grigio. Il termine “ograde” indica un appezzamento circondato da muretti a secco, e vuole racchiudere anche il concetto di cru. È un vino macerato, uno di quelli che definiscono “orange wine”, ma al contrario di questi è straordinariamente delicato, la struttura è imponente ma allo stesso tempo limpida, cristallina. Deliziose note di pesca matura, poi, mi fanno sognare.

Assaggio per ultimo, estasiato dall’ultimo vino bevuto, il Terrano in due versioni, quella ‘base’ e la Riserva, prodotta solo nelle annate migliori. Il primo mostra un’acidità elevata, è fresco forse troppo (però penso a quanto starebbe bene con cotechino o altre carni grassissime); il frutto rosso che avverto è molto aspro. Il Terrano Riserva 2018 è un’altra cosa. “L’uva era perfetta” ammette soddisfatto il mio anfitrione. Il vino è polposo, succoso, carnale e, addirittura, ematico.

Il cielo al di fuori, immobile, è soleggiato e terso, ma non così basso pur essendo dicembre; le ombre sono lunghe, la luce pulviscolare. L’atmosfera è stringente e abbastanza conturbante. Tutto intorno è calma piatta, una calma esaltata dal sordo mormorio che proviene dal mare. Pare che tutto si sia fermato, se non fosse per il cinguettio di qualche uccellino. E per il rumore delle ruspe: Prepotto, in virtù delle sue aziende è una località in fermento; ci sono lavori in corso praticamente in ogni azienda. Ben venga per loro che fanno vino, e meglio ancora per noi che lo beviamo.

Intorpidito da così tanta roccia e ammaliato da così tanto vino, opto per fare una tappa al Santuario di Monrupino, posto in altissimo a dominare il Carso e, così mi pare, il golfo di Trieste. Così da quelle alture contemplo ancora un poco il paesaggio, prima di riprendere la strada del ritorno. A contatto diretto con quel suolo e respirando quell’aria tipicamente carsica, credo abbia ancora ragione Mario Soldati quando consiglia nel suo viaggio di non bere questi vini dal “sapore di Carso senza l’aria del Carso”.

DP