MAKEDON, BONARDA AGGUERRITA DI MATTEO MAGGI

«Anche riguardo al vino», scrive Plutarco nelle sue Vite parallele a proposito di Alessandro Magno, «in realtà era piuttosto misurato: sembrava che ne bevesse molto perché a tavola passava parecchio tempo, tenendo il calice davanti, ma si tratteneva a lungo non tanto per bere quanto per chiacchierare…». Non credo si riferisse proprio a questa parole Matteo Maggi, proprietario e produttore “indipendente” di Colle del Bricco, quando decide di dedicare la sua Bonarda al grande conquistatore macedone; e però così me lo immagino io, che questo vino lo bevo ora in tranquillità, ma che ho conosciuto in conviviale assemblea, proprio lì a Torre Sacchetti, frazione di Stradella (e di questa poco più in alto), sulle colline dell’Oltrepò Pavese.

Makedon infatti è il nome del vino, un rosso frizzante degno del nome del guerriero che fu Alessandro: immediato – possente sin dall’inizio – grazie a una carbonica viva e avvolgente, come un velo di spilli che si adagia alla lingua, ma non infastidisce, anzi ne vorresti ancora e ancora. Da subito è esuberante, brioso, agguerrito; il primo sorso è selvatico ma poi vira su toni di mora da rovo, frutta rossa in confettura. Il tannino è presente ma nobile, sostenuto dalle infinite bollicine.

“Bricco” nella parlata oltrepadana significa “terreno scosceso”, e infatti i vigneti coltivati dal giovane Matteo Maggi, nemmeno trentenne e a capo dell’azienda dal 2013, in totale 5 ettari, hanno una notevole pendenza. Li ho notati in loco, in sala degustazione (che è un appartamento confortevole e ammobiliato) mentre bevevo questo (o questa) Bonarda con piacevole sorpresa, 100% da uve croatina, un vitigno tardivo che amo particolarmente, e che qui nell’Oltrepò trova la sua migliore e naturale espressione. Pura polpa che si distribuisce, scorre, ma direi meglio fluisce, cola dal palato alla gola. Leggo che ha un titolo alcolometrico di 14% in volume, dapprincipio non ci faccio caso, ora però lo comincio a sentire. Devo decidere se continuare a bere o a scrivere.

Troppo tardi, ma in fondo ho già detto molto.

DP

TRA BRONI, STRADELLA E CANNETO PAVESE. UNA GIORNATA NELL’OLTREPÒ CON ANDREA PICCHIONI E LINO MAGA

Mentre torno a casa dalla Torino-Piacenza direzione Brescia, immerso nel traffico tipico di fine giornata, felicemente spossato dai copiosi assaggi, e col sapore amarognolo-dolciastro di croatina persistente in bocca, oltre a una sensazione vaga di piccole bolle vivaci attorno alla lingua, ripenso alla giornata appena passata sui colli pedemontani dell’Oltrepò pavese, tra Broni, Stradella e Canneto. Una giornata per metà non organizzata, fortunatamente, ma frutto di uno sviluppo casuale di eventi, che più o meno può esser riassunta così.

Parte prima: Andrea Picchioni

Venendo da nord, ossia dalla Pianura Padana, si sale dolcemente imboccando prima Viale Libertà e poi Viale Resistenza, che introducono alla cantina di Andrea Picchioni e mi sanno di buon auspicio: libertà dai disciplinari, più attaccati alle carte che alla vigna; resistenza a etichette e convenzioni del mercato vinicolo. Comunque sono in largo anticipo, e per non fare la figura dell’impaziente ne approfitto per farmi un giro nei paraggi. Prendo una strada a caso, scegliendo quella che più sale verso monte. Mi inoltro così in stradine di campagna, strette e arzigogolate; ma sono abituato, dunque giro a mio agio, gustando il paesaggio dall’alto delle dorsali collinari che spesso coincidono con la strada. Arrivo poco dopo a Canneto Pavese (230 metri di dislivello, circa 1350 abitanti) e proseguo verso Colombarone e Monteveneroso, poi risalgo verso Montescano, e chissà quali altre frazioncine; piccoli paesini la cui parola “agreste” è quella che meglio può rendere l’idea. Incontro trattori e Fiat Panda, il traffico, se così si può chiamare, è per lo più di contadini. Mentre guido mi guardo distrattamente, molto distrattamente in giro, a destra e a sinistra, scorgendo quasi solamente filari. E qui capisco bene Camillo Langone, quando dice che in Oltrepò ogni singola vite è una “pennellata di un paesaggio capolavoro” (Dei miei  vini estremi, 2019). In un tratto molto panoramico si può vedere tutta la valle che sottostà a Cigognola (310 metri s.l.m.), paese ben riconoscibile per il castello e la sua torre.

Qualche minuto prima delle 10.00, orario dell’appuntamento, suono il campanello della cantina Picchioni. Mi viene incontro la mamma di Andrea, persona loquace e dai modi ospitali, con indosso un grembiule sopra una pesante felpa di pile. Mi parla in dialetto ma riesco comunque a capire bene. Parliamo del tempo, che per essere febbraio è una giornata molto calda; poi mi dice che il figlio sta arrivando. Infatti, arriva poco dopo. Andrea Picchioni è una persona dalla grande corporatura, lo si direbbe un contadino per iconografia. Di lui ha scritto di recente Massimo Zanichelli, in un articolo dedicato a una verticale “sinottica” di suoi vini (acquabuona.it), che è “loquace ed estroverso in privato o nelle occasioni conviviali”, diventando però “laconico, perfino timido, quando deve parlare di se stesso e dei suoi vini, o quando si trova in pubblico”. In effetti, pur non essendo assolutamente “social” (niente Instagram, Facebook, etc., solo Whatsapp e senza immagine profilo) , è viceversa sorprendentemente socievole. Ospitale in modo sincero e semplice, senza ampollosità o artificio. Pare da subito schietto e onesto, come i suoi vini.

Andrea Picchioni fonda l’azienda nel 1988, ventenne, dopo gli studi di agraria. Attualmente coltiva 10 ettari, soprattutto croatina, in Val Solinga, vicino alla cantina. Un territorio generalmente molto caldo (e oggi lo capisco bene) le cui pendenze sono molto ripide, e quindi di difficile coltivazione. La degustazione avviene in una sala attigua alla cantina, praticamente una cantina nella cantina, in cui sta un tavolo al centro con attorno alcuni mobili, tutti completamente coperti da numerosissime bottiglie (piene e vuote, di produzione propria e non), e dove l’unico orpello – se mi è concesso chiamarlo così – è un ritratto di piccole proporzioni del padre. Ammetto che sono lì per le sue versioni di croatina, dunque mi versa il Da cima a fondo, un vino dal nome bizzarro, e dall’etichetta ben disegnata (sono molto distinguibili le etichette dei vini di Picchioni), omaggio di una sua amica, anche lei produttrice.  Si tratta di un rifermentato in bottiglia, una tipologia il cui risultato può causare un “fondo” nella bottiglia; inoltre, non potendo ricevere eventuali aggiustamenti da passaggi enologici (“le uve una volta pigiate sono messe in bottiglia, e da lì in avanti non ci si può fare più nulla”, come mi spiega), l’uva utilizzata deve essere la migliore possibile, ossia quella prodotta da viti coltivate nella zona per clima più favorevole, appunto la “cima” della collina: ecco il nome. Al palato è un vino di grande vivacità, molto equilibrato, giustamente tannico e ancor meglio fresco; una bella polpa dalla beva comunque scorrevole.

La bevuta in allegra e conviviale compagnia, altrimenti e professionalmente chiamata degustazione, prosegue – per mia colpa – in modo disordinato. Vorrei assaggiare solo due vini, ma come sempre rimane solo un bel proposito da raccontare (come a dire: “io ci ho provato!”). Assaggio goccio per goccio, per godermelo sottilmente il Rosso d’Asia, un rosso potente ma molto pulito a base croatina e dedicato alla figlia Asia (nati lo stesso anno, nel 1995). Anche l’etichetta è da lei disegnata (un autoritratto?) e è un capolavoro di sintesi, nettezza, simbolismo grafici (ci vedo i pittori vascolari attici quanto Aubrey Beardsley): sarebbe immediatamente riconoscibile in mezzo a mille bottiglie.

Poi bevo il Buttafuoco Bricco Riva Bianca, il cui nome (Buttafuoco) deriverebbe dalla zona originaria di produzione, la frazione di Monte Bruciato: nomi che rinviano al calore dell’esposizione a sud, al suolo di sassi scottanti (o così me li figuro), e più in genere al caldo opprimente che in queste regioni, complice anche l’umidità, in estate deve essere davvero terrificante. Ma io essendo avvezzo più al clima mite del lago e alla frescura dei monti prealpini preferisco glissare su etimologie e toponimi, bevendone una buona dose. Andrea mi parla come di un vino identitario del territorio, della sua complessità e soprattutto potenziale longevità, cosa che non fatico a credere. Un rosso caldo ma molto lungo, di alta qualità.

Mentre i bicchieri continuano a riempirsi e svuotarsi – perpetuo alternato ritmo di felicità – la mamma di Andrea ci rifocilla con grissini, tagliere di formaggi, taglieri di coppa e pancetta della zona che, ammetto, sono davvero ottimi. Mi versa il suo pinot nero Arfena, e scorgo in lui un po’ di soddisfazione, anche se velata. Io sono poco predisposto ai pinot nero pavesi; sono più vicino a Egna e Mazzon che non a Canneto Pavese e Solinga, ma non vorrei pensasse sia uno snob, inoltre per fortuna sono curioso, quindi accetto volentieri. Infatti lo trovo molto gradevole, ben fatto, fresco, “succoso”, avvolgente. Fa un passaggio in legno ma questo è appena percettibile, un vino delicato, un pinot elegante; così, come ha da essere.

Andrea Picchioni si esprime poco elargendo i suoi prodotti; piuttosto chiuso ne parla giusto l’essenziale e soprattutto quando interpellato. Al contrario è molto generoso e non teme di esagerare spendendo tempo e parole parlando bene degli altri produttori locali, amici, conoscenti o solo rivali. Ma non solo me ne parla, addirittura mi fa una degustazione guidata di un vino di un’altra azienda. Cosa rara, a cui pochissime volte mi è capitato di assistere bighellonando qua e là per cantine. Ma ben venga: che l’immagine enologica dell’Oltrepò possa cambiare a partire da questi gesti!

Andrea mi ha confermato inoltre quello che già da tempo intuivo, la regola che non è l’eccezione (un vignaiolo insegna molto più di un politico), ossia: o si ama l’ambiente o si è ambientalisti. Il primo caso implica un’idea vera, da portare avanti senza vessilli spiegati, un’idea in cui si crede sul serio. Il secondo caso è mera ideologia per facinorosi, poche e confuse frasi fatte, etichette da ostentare, per esaltazione o per scelte di mercato. O si è ecosostenibili o si è fan di Greta Thunberg.

Ogni singolo metro quadrato coltivato dell’azienda Picchioni è certificato biologico, ma non vedo foglioline verdi sul retro etichetta. Non è tanto la certificazione in sé a essere messa in discussione, mi dice Andrea, ma i disciplinari e le burocrazie che ci ruotano attorno; quindi il rispetto dell’ambiente è effettivo e non a parole, penso. Anche se poi non ci faccio troppo caso, preferisco bere il vino che fissarmi su loghi e stemmini apposti su etichette; e siccome è particolarmente buono la mia mente torna presto ai profumi e ai sapori di quel vino. Ma pure al territorio attorno a noi, che pare proprio vocato.

Parte seconda: Lino Maga

O meglio, Maga Lino, così si fa chiamare, col cognome sempre prima del nome, come avevo appreso prima grazie alle numerose letture. Per prepararmi meglio all’incontro infatti – che aspettavo febbrilmente con una sensazione mista tra l’attesa di un esame universitario e di una prima confessione – ho letto e studiato i minuziosi resoconti di alcuni tra i miei maestri, dedicati al grande vignaiolo. Dai classici: Luigi Veronelli, Mario Soldati, che parla bene dell’Oltrepò (“I rossi, di regola, sono densi, spessi, spumosi, quasi dolci al primo assaggio, ma poi rivelatori di un fondo gradevolmente amarognolo che, sul posto, chiamano ‘ammandorlato’”),  o Gianni Brera, amico di Lino, che del vino scrive grandemente, come se fosse un fratello. O ancora i più recenti Massimo Zanichelli o Camillo Langone, entrambi amanti dei rossi oltrepadani. Apprendo molte cose riguardo alla figura di Maga e del suo Barbacarlo; ma quando arrivo a Broni (9500 anime circa), Via Giuseppe Mazzini, e vengo accolto al civico 50, resto comunque sorpreso, pensando che in certi casi leggere non serva a nulla.

È un normalissimo vicolo di un normalissimo piccolo centro abitato. Una lunga strada di case attaccate e nessuna che dà nell’occhio per qualcosa in particolare. Solo tre grandi vetrine possono incuriosire con una insegna pendente che mi segnalano che sono arrivato. Siccome le luci son spente entro dal retro, passando per il cortiletto della cantina storica. Lino Maga è nello studio, assiso su una poltrona presidenziale, telefono in una mano e sigaretta nell’altra (che fumasse una sigaretta dietro l’altra è la cosa che dicono tutti, quindi non mi stupisco). Dopo poche parole e un breve cenno molto misurato (che traduco in benvenuto), mi accompagna nel salone per la degustazione, in pratica una vecchia bottega pervasa dall’odore di fumo stantio, e cosparsa ovunque di bottiglie (un horror vacui di Barbacarlo di svariate annate), di libri, e di fogli di differenti dimensioni, su cui per ognuno sta scritto a mano da Maga stesso un apoftegma, un monito esortativo di tipo oracolare. Un attimo per fare mente locale: non sono a Delfi ma a Broni, non al tempio di Apollo ma a quello del Barbacarlo.

Sul tavolo ci sono molto bottiglie di vendemmie diverse, sia di Barbacarlo che Montebuono, i due cru e unici vini da loro prodotti (8 mila bottiglie annue per il primo e 5 mila per il secondo, nelle annate migliori). Con gesto pacato e quasi carico di beatitudine mi versa un buon bicchiere, l’annata è la più recente;  io allora annuso, assaggio, cerco in ogni modo di sembrare un professionista serio, poi però la mente cede al gusto, la ragione al piacere, e finisco per sorseggiare con ottimo umore quel vino felicemente atipico, e ascolto senza interrompere il vegliardo. È la sua ottantatreesima vendemmia mi dice (classe 1931), e anche se non può più per questioni fisiche andare sul campo (ai ripidissimi vigneti ci pensa il figlio Giuseppe: sue le redini dell’azienda), la sua vita rimane legata alla cantina. Parla lentamente, con voce fioca; le sue sono frasi concise sono seguite da lunghe pause e (almeno così mi pare) da un sorriso carico di rimandi, ricordi, emozioni, conoscenti perduti. Ogni tanto se ne esce con Veronelli, con cui era molto amico, e il suo sguardo si fa cupo e nostalgico, trasognato. Diventa un’altra persona, invece, se si parla di disciplinari: la fronte si irrigidisce e il tono si fa bellico. “Non si fa vino coi disciplinari”, mi ammonisce, come se di colpo mi fossi trasformato in un agente doganale o roba simile; “burocrazie, carte, fanno perdere tempo… e la natura va avanti!”

E i vini di Lino Maga sono veramente naturali, legati come pochi altri al susseguirsi (positivo o negativo) delle stagioni. Le uve utilizzate sono quelle più diffuse in Oltrepò, ovvero croatina, uva rara e ughetta (ossia vespolina). Ma ciò che distingue il prodotto è la scelta di non forzare i processi di maturazione dell’uva con sistemi troppo invasivi; i vini così avranno ogni anno caratteristiche peculiari, buone se l’annata è stata buona, buonine se l’annata è così così, ma comunque sempre diverse. In modo distratto mi versa un’annata molto più indietro, e procede nella sua arringa antiburocratica e pro lavoro manuale: io bevo: vino fermo, tannino duro, terziari più in evidenza… io ci provo con sicurezza, “beh, molto più complesso, c’è qualcosa che mi ricorda la liquirizia” dico; “ah non so”, mi sento rispondere senza dar peso alle parole e spiazzandomi con un colpo netto, “è aperta da giorni quella”.  Così che la mia momentanea baldanza svanisce presto, per fortuna non come l’interesse per tutte quelle bottiglie, che piano piano conosco un bicchiere dietro l’altro.

Il sole ormai basso basso mi fa capire che purtroppo è ora di accomiatarsi; Lino Maga, sigaretta accesa in mano, mi accompagna all’uscita. E su quella via anonima, andando incontro all’auto che mi porterà a casa, colmo corpore et anima (e bocca) di un gusto pieno e spumeggiante, mi rileggo le parole di Gianni Brera, nato in queste terre, le cui foto in bianco e nero riempiono qua e là il negozio di Lino: “Il barbacarlo […] basta mescerlo per vederlo montare in superbia: e quel mussare di spume fini e veloci sembra una risata cordiale; poi è buono, altro che storie!, e sarà l’infanzia, sarà la disposizione atavica, io di vini migliori ne ho pure bevuti e ne bevo, ma non ne trovo mai che mi piacciano sempre in egual misura, che siano altrettanto leali a qualsiasi livello.” O ancora, “Barbacarlo un po’ bullo di spume e mandorlato…”

DP

LA SORPRESA DEI COLLI PIACENTINI, LA SPLENDIDA TENUTA DI TORRE FORNELLO E L’ACCOGLIENZA DI ENRICO SGORBATI, PROPRIETARIO INSIEME CICERONE E LUCULLO

Mi perdonerà il lettore per il titolo troppo lungo, che pare essere più una sintetica premessa, un riassuntino di quanto scriverò; ma questa è proprio l’intenzione. Convogliare in poche parole l’esperienza di questa mattina vorrebbe dire esclusione, e in questo caso esclusione non starebbe per scelta, bensì riduzione. Ma andiamo con ordine.

Cosa può pensare una persona se mi riferisco ai Colli Piacentini, se come me prima di oggi non c’è mai stato o nemmeno passato? Qualcuno potrebbe pensare a Piacenza, chi ha un po’ di dimestichezza con l’arte immaginarsi il duomo, il romanico; in pochissimi addurrebbero al pittore Morazzone e alla cupola dipinta, ultimata da Guercino. Per lo più il termine “colli” evocherebbe un’immagine bucolica, più soave e agreste, “green”, dunque accattivante. Ma anche questi restano pressoché anonimi, associati da qualche bevitore di vecchio stampo a vini “spuma”, amabili, ruspanti, mossi o, se va un po’ meglio, vagamente frizzanti.

In più questa zona è praticamente sfigata – il termine è d’uopo –, non tanto per la geografia, ma per le sue implicazioni politico-comunicative. Posizionati all’estrema punta nord occidentale dell’Emilia Romagna, i Colli Piacentini e i vini da questa zona prodotti non possono essere affiancati a quelli delle colline emiliane più sud, né,  men che meno, con quelli romagnoli; non è Pianura Padana, né lambrusco, né pignoletto, né sangiovese. Tant’è vero che da qui in poco tempo si è a Milano o in Piemonte; molto più tempo servirebbe invece per raggiungere Bologna. I Colli Piacentini, inoltre, confinano con l’Oltrepò pavese, ma con questi non sono associati mai (penso alle fiere), seppur le colline sono le medesime (con le debite differenze, chiaro). Ma i confini sono definiti: comune diverso, provincia diversa, regione diversa fanno intendere alla persona comune vini completamente diversi e, automaticamente, in questo caso, meno degni di attenzione.

Fortuna che sono persona curiosa, il cui piacere è solo una conseguenza della conoscenza (e non una preferenza), quindi decido di andarci; scelgo l’azienda che già conosco per certi vini (pochissimi in realtà) e a catalogo di Proposta Vini (quindi ha buone referenze).  Voglio approfondire oltre ai prodotti soprattutto la zona. Come quasi sempre accade, se si parte con aspettative basse si rimane soddisfatti e compiaciuti. Così infatti è stato.

L’azienda agricola Torre Fornello si trova nel comune di Ziano Piacentino, nella frazione omonima di Fornello, nome derivato dalle fornaci in uso in tempi oramai remoti. È il comune che confina con l’affascinante e decadente Rovescala (Oltrepò pavese), la quale sta a pochissimi chilometri, praticamente la collina a fianco. Io arrivo da Brescia, e dall’uscita autostradale bisogna inoltrarsi in paesotti che assomigliano a trasandate periferie. E lo stesso paesaggio lugubre continua fino a qualche chilometri dalla meta, e perciò mi preoccupo. Ma, fortunatamente, d’improvviso lo scenario muta: finisce il cemento e si spalanca la campagna, si scorge all’orizzonte il verde dei colli che piano piano, un po’ qua e un po’ là comincia a salire, prendere forma, sino a ergersi, in lontananza, a catena montuosa. Sono gli Appennini, là proprio dove cominciano il loro cammino, a darmi il benvenuto a Fornello.

La sede dell’azienda è del tutto inaspettata: un complesso di edifici – una volta sede come detto di fornaci, poi ampliato da una famiglia nobile toscana nel Diciassettesimo secolo per la loro residenza – splendidamente ristrutturati (sassi e mattoni a vista normalmente mi nauseano, ma qui hanno la loro ragion d’essere); si tratta sostanzialmente di locali comunicanti dalle stanze ampie e ospitali, poco ma ben arredate. Questo luogo, infatti, come sospetto ma poi ne ricevo conferma, può essere anche affittato per matrimoni, ricevimenti o cerimonie in genere.

L’appuntamento è per le 9.00 e Enrico Sgorbati è appena fuori dalla porta, cancello aperto, pronto per a accogliermi. La cordialità fa parte di lui, questo è subito evidente dai modi. Mi fa notare, bonariamente, il “ritardo”, perché sono le 9.02; sbagliato, rispondo io, facendogli notare a mia volta l’arrivo alle 8.58 (sono tendenzialmente, ovvero patologicamente, puntuale), e il successivo tempo occupato a godere del panorama: un paesaggio ammagliante, fatto di colline e filari ovunque. Il  mio sguardo che scende e sale, dolcemente come i declivi, e incontra solo vigne.

E così Enrico, titolare dal 1998, comincia a raccontare la sua storia, la storia dell’azienda e dei suoi vini. Mi accompagna per tutta la proprietà, passando per il giardino, per la vecchia stalla, le vecchie scuderie, l’ex fienile e la vinsantaia; addirittura è presente una chiesa che è pure sede parrocchiale dal 1920 (“unico caso di chiesa privata, consacrata e parrocchia”, mi spiega). Mi è evidente da subito che Enrico è un caso particolare in cui il proprietario incontra Cicerone (per la narrazione persuasiva) e Lucullo (per l’ospitalità; si vedano Le Vite di Plutarco). È un fiume di parole, che passano dai ricordi al tecnicismo vitivinicolo, dalla nonna ai lieviti indigeni.

L’obiettivo di Torre Fornello, mi dice, è dare incisività al territorio lavorando con la qualità degli autoctoni, ma al contempo lavorare con vitigni internazionali per risaltare il territorio dentro ma pure fuori dall’Italia. “Alla fiere internazionali – confessa –  mi glissano perché leggono sul cartellino ‘Emilia Romagna’ e pensano di conseguenza al lambrusco; io vorrei distinguermi per quello che faccio nella mia zona, e la Doc non aiuta. Quindi cerco di fare il massimo, per me sì, ma anche per il territorio dove lavoro”.  Gli ettari vitati, per la maggior parte coltivati a biologico, sono 61, con una produzione di 350.000 bottiglie circa. Tante le etichette (27) e i vitigni coltivati (“sono anche uno sperimentatore, molti vini li tengo a casa, in una stanza piena: mi piace giocare e capire dove e come avventurarmi in una nuova sfida”).

Io ascolto e prendo appunti, sempre curioso e volenteroso; ma siamo in giardino mentre spiega, suona la campana delle 10, e la vista delle colline vitate mi eccita le papille gustative più del normale.  Quindi alludo alla cantina, e presto ci incamminiamo per visitarla. Molto suggestiva è la barricaia, ovvero il luogo dove il vino matura nelle botti, in questo caso proprio barrique da 225 litri in legno francese, a sua detta il migliore. Essa è la cantina originale dell’edificio, al di sotto della villa patronale, e data 1400-1600. È costruita interamente in mattoni di cotto, che formano un fascinosa volta a vele.

La variegata degustazione ha luogo in una stanza finemente apparecchiata, con tanto di camino acceso. Il solito loquace Enrico ci accompagna con tanto di presentazione del vino, aneddoti e descrizioni sensoriali, in modo da creare una sorta di dialogo-confronto col sottoscritto. Spiccano, a mio avviso, i seguenti vini.

Pratobianco. Si tratta di un vino che fa dialogare insieme il territorio con il mondo (40% malvasia di Candia aromatica, 40% sauvignon, 20% chardonnay), un bianco nel complesso ben equilibrato e pulito.

Donna Luigia. Un vino sul cui nome l’aneddotica si spreca (piacevole però sentirsi raccontare la storia) e è un bianco da uve di sola malvasia di candia aromatica, però in assemblaggio, perché lavorate in quattro modi differenti: 20% passa in legno, 20 % macerato a freddo, 50% vinificato in bianco e il restante 10% botritizzato. È un vino opulento, rotondo, avvolgente e profumatissimo.

Una. Forse il più complesso dell’azienda. Prodotto da sole uve di malvasia di Candia aromatica, e tutte attaccate da muffa nobile (botrite); lunga fermentazione e lunghissima evoluzione in legno, per un vino dotato di un ventaglio ricchissimo di profumi: dalla pesca sciroppata allo zafferano a note più balsamiche, con un finale lungo e salmastro.

Latitudo 45. Vino estremo, di un tipo ormai (purtroppo) raro da trovarsi in giro; e in effetti è un vino che l’azienda ha messo fuori produzione (poche bottiglie rimanenti in azienda, sono fortunato a averne due in cantina). Si tratta di un rosso ruspante, tosto, molto marcato, a base croatina (circa il 95%), con una piccola parte di syrah, che matura dai 12 ai 18 mesi in tonneau da 500 litri.. Un gran tannino (circa il doppio rispetto a quello di un Barolo) che si fa sentire, una trama polifenolica che non si dimentica.

DP

UNA CONVERSAZIONE TRA LE VIGNE CON BARBARA AVELLINO

Vivevo abbastanza felicemente, perché l’Oltrepò pavese lo conoscevo per essere avido lettore di Alberto Arbasino e per esser vorace bevitore di croatina; adesso invece sono felicissimo, perché l’Oltrepò l’ho anche percorso con l’auto per strade, vie e viuzze, e a piedi su e giù per le colline, dai declivi straordinariamente morbidi, gibbose e dalla sinuosità radente la perfezione. Chi non conosce questa zona si metta d’impegno e ci dia almeno un’occhiata (poche foto su Google possono dare una prima idea); chi invece peggio ancora la conosce, o pensa di conoscerla e la snobba si riguardi per la propria integrità morale. È abbastanza metterci piede per rendersi conto del contesto meraviglioso in cui ci si trova: il buon Dio alla Lombardia ha donato proprio tutto, Alpi e Prealpi, laghi e laghetti (a chi importa il mare se si ha il Lago di Garda?), pianura… e la punta degli Appennini, proprio lì, in provincia di Pavia. Alla faccia di chi identifica l’intera Lombardia con la periferia milanese!

La cantina di Barbara Avellino si trova a Rovescala, un comune di nemmeno mille anime e segnato da strade dissestate in modo estremo e dall’intonaco delle case che pare si sbricioli a guardarlo. Un’atmosfera oserei dire di affascinante decadenza, un’insolita coreografia per un paese lombardo, e sicuramente non tra i più miserabili. Il piccolo paese si trova in cima al colle (i toscanofili e i toscanocentrinci la troveranno interessante), i cui versanti avvallano meravigliosamente, come nei disegni dei bambini, verso est e verso ovest. È il comune, e quindi la collina che confina con i Colli Piacentini e l’Emilia. È una strana e curiosa isoglossa (ne so qualcosa venendo dall’Alto Garda), che si rispecchia nella figura di Barbara: livornese di origine, cresciuta a Milano (dove studia enologia) e trasferita infine nell’Oltrepò, consacrando la sua vita alla viticultura.

 Aspetto Barbara davanti alla sua cantina, la quale arriva trafelata e un po’ confusa (ero in anticipo rispetto al nostro appuntamento telefonico, forse per quello?). Dopo una breve presentazione mi invita a far visita alle vigne, e io ovviamente accetto volentieri; e non aspettavo altro: nelle colline si cammina comodamente e soprattutto voglio tastare con mano le viti di croatina. La proprietà Avellino conta circa 5 ettari, vitati a barbera, croatina, pinot nero, malvasia di candia aromatica e riesling. È una “micro-produzione” come lei stessa mi spiega, con l’obbiettivo di arrivare a circa 20.000 bottiglie: un’impresa, se si pensa che Barbara lavora con metodo naturale, e dunque capita le più le volte di non poter vendemmiare perché l’uva non è abbastanza soddisfacente (i prodotti sono pochi, ma tutti di qualità medio-alta, e più alta che media; ovvio che il lavoro di selezione in vigna è fondamentale).

Durante la visita tra le vigne teniamo una florida e intensa conversazione (ovvero: lei parla, io ascolto), e scopro un’altra persona. Più parla e più si anima, Barbara, anzi si trasfigura; a ogni pianta è come se ci si trovasse di fronte a un essere vivente in grado di intendere e di volere, quasi una persona, sicuramente amata e cullata come tale. Mi parla delle sue viti usando “lei” (“lei mi ha prodotto begli acini”, “lei l’abbiamo fatta lavorare troppo”), come fossero chessò, delle nipotine. Ma il suo amore per la natura e l’attenzione con cui si prende cura delle sue viti è evidente dal rigore della coltivazione e dalla qualità dei suoi prodotti. Dalla campagna di sua proprietà, rivolta a ovest (ma non è un problema nell’Oltrepò, l’esposizione solare è praticamente totale, grazie alla levigatezza dei primi Appennini), si scorge una vasta area che sale e scende, tutta coperta di filari: un capolavoro paesistico. Nel punto più a valle scorgo delle arnie (è anche apicoltrice) e un boschetto regolare; il sole è basso (siamo a febbraio) e velato da una foschia minacciosa tanto da sembrare malato – sembra quasi fatto apposta per dare quel tocco in più di decadenza al territorio.

Intanto cammino, seguendola, passando da vite a vite, da filare a filare e sporcandomi senza rendermene conto le scarpe ma non importa, tanto ero preso dalla chiacchierata. È imperterrita, continua a spiegare, credo più galvanizzata dalla passione che non dal sottoscritto, che comunque più ostinato di lei ascolta ingordamente (e dal palato, che comincia a reclamare la sua parte). Mi fa notare delle bislacche presenze sulla pianta: sono licheni mi spiega, e è molto felice di questa cosa perché è un indice di salubrità dell’ambiente. Poi passiamo davanti a una pianta il cui tronco a metà ha un taglio lunghissimo di senso longitudinale; mi spiega – qui ho ascoltato ma ho capito meno – che si tratta di un’operazione “chirurgica”, letteralmente, con tanto di bisturi per curare una malattia, il cosiddetto mal dell’esca.

Dobbiamo tornare in cantina perché ci stanno aspettando , quanto saremmo rimasti altrimenti? E comincia a raccontare i suoi prodotti. Allo stesso modo con cui mi parlava delle piante di vite si rivolge ai suoi vini: “lui è ancora troppo freddo”, mi dice intanto che stappa il Malvasia vinificato in rosso (macerato); oppure “lui è un assemblaggio di croatina e barbera”… La degustazione in ogni caso è stata sensazionale, nel vero senso della parola. Vini assolutamente non comuni, oserei dire volgarmente di nicchia, prodotti di qualità, che rispecchiano pienamente la personalità della produttrice, rappresentano il suo alter ego. Vini sinceri eppure ricercati, frutto di una grande cura e, assolutamente, di un grande amore.

DP