IL MIO “MERCATO DEI VINI” FIVI 2021. Appunti di degustazione

Dal 27 al 29 novembre 2021 si è svolto il decimo Mercato dei Vignaioli Indipendenti (Fivi), presso l’Expo della città emiliana. È una fiera, questa, diversa dalle altre (come Vinitaly o Merano Winefestival). In primo luogo perché si può comodamente noleggiare un carrello e acquistare, dopo averlo assaggiato, il vino desiderato, direttamente dal produttore. Si parla con il vignaiolo (almeno, nella maggior parte dei casi: talvolta, con le aziende più grandi, si ha a che fare con i responsabili marketing, a esempio Gianfranco Fino); e i modi sono meno formali, “terra-terra”, per così dire.

Altra differenza sostanziale (non per noi  che beviamo, ma per loro che vendono) è quella di pagare lo spazio espositivo in relazione agli ettari vitati (cosa che come capisco piace molto a tutti). Questo spazio poi è uguale per ogni azienda: 1 vale 1, e quindi ogni produttore ha a disposizione uno spazio che equivale a quello di un tavolo (circa 170×50 cm), disposti consecutivamente su più file, in un unico, enorme padiglione – diversamente dal Vinitaly quindi, dove più paghi e più lo stand è grande.

È una fiera poco “didattica” in cui però ci si diverte; non ci sono regole di disposizione (come la classica divisione per regioni), dove si può trovare uno dietro l’altro: Sagrantino umbro, incrocio manzoni trentino e gaglioppo calabro. Un esercizio per le papille gustative, diciamo così.

È un mercato dedicato al pubblico privato, per persone non del settore (ristoratori, stampa, sommelier) e lo capisco dall’attenzione che questi vignaioli dedicano ai molti, famiglie comprese, con il carrello. È, soprattutto, un evento di vignaioli per vignaioli: c’è scambio, confronto tra loro, un modo di ritrovarsi e aggiornarsi sul’annata; un reciproco rapporto di fratellanza che si ripete e si rinnova.

Nel complesso ho degustato qualcosa, appreso novità e bevuto molto, e talvolta molto bene. Di seguito qualche appunto di degustazione dei migliori vini assaggiati e dei vignaioli conosciuti (non esaustiva, chiaro).

 

Piacenza. , 27-29 novembre 2021.

Voglio iniziare andando sul sicuro, e quindi bevo il Mat della Cantina Concarena, un riesling camuno di espressività notevole e carattere (è un riesling parzialmente botritizzato); vino di punta del giovane vignaiolo Enrico Angeli. Lì vicino c’è Paolo Pasini dell’azienda omonima, direttamente dal cuore della Valtenesi; i vini già li conosco quindi bevo il suo straordinario metodo classico rosè Ceppo 326, un dosaggio zero che mi stimola l’appetito (e la sete).

Klinger, trentino. Azienda abbastanza recente, nata solo dal 2018; Lorena Pilati (è un’azienda di famiglia, di cognome fanno tutti Pilati) mi fa assaggiare le 3 etichette al momento disponibili (uscirà un Trento Doc). Tra tutte annoto un gewürztraminer interessante, molto minerale e fresco.

A seguire, lì a fianco (!) vengo a tu per tu con l’azienda agricola Il Ghizzo (Piacenza, Val Nure) e in particolare coi sui 3 tipi gutturnio: vivace, e superiore, e riserva. Molto interessante la riserva, tosta ma comunque piena e fresca.

Thomas Niedermayr. Una simpatica realtà di San Michele Appiano (vicino a Bolzano), che produce quasi tutti vini da Piwi, ossia da varietà resistenti. Mi piace subito il sauvignern gries molto rotondo e profumato eppure delicato. Tutti i vini sono sui 13-14 gradi. Non mi dice niente il solaris, che fa parziale fermentazione sulle bucce. Nel complesso sono bei bianchi, molto intensi e caldi, molto alcolici e strutturati.  Il sonnrain, parente del gewürztraminer, è molto, troppo aromatico. Notevole, invece, il pinot bianco 2017 con alle spalle un prolungato affinamento (acciaio e bottiglia). Un commento meritano pure le etichette, una grafica molto raffinata e essenziale basata su texture decorative.

Incontro poi Vosca, un’azienda relativamente piccola, al confine con la Slovenia. Bevo una ribolla gialla molto leggerina, un friulano di carattere, una malvasia delicata e lunga, e per chiudere (in bellezza) un riesling rotondo, minerale (e fresco).

Se trovo bonarda frizzante mi fermo sempre, quindi mi trattengo dall’azienda Il Molino, produttori di Rovescala (Oltrepò) e bevo una Bonarda frizzante molto vivace e una bonarda ferma, nella loro linea classica. Poi della linea più alta, i cru, bevo Olive di Levante, rosso frizzante base croatina e 8 mesi di rifermentazione; un corpo pazzesco e una bolla piacevolissima. Altro grande vino dell’azienda, che è un altro cru è Povromme, ossia “povero uomo”, riferito al contadino che lavora quel campo (i vigneti nell’Oltrepò hanno una pendenza elevata): una croatina ferma intensa ma non scorbutica,  rotonda (il tannino è levigato, pare setoso). Annoto subito con un *.

Non ho un ordine logico, se non scorrere di tavolo in tavolo. Così ritrovo Rado Kocjančič  (San Dorligo della Valle, Trieste) e mi fermo. Vitovska fresca e mineralissima. Malvasia istriana 4 giorni di macerazione e 1 anno di legno  grande, delicatamente aromatica, è idem molto mineralite. Poi Brezanka, un blend di 15 varietà e 1 anno di botte, vigne storiche: un bianco intenso, rotondo e caldo, grasso e largo che sicuramente devo mangiarci qualcosa. Ma rimando, perché mi offre Pasik, che è un suo particolarissimo passito da moscato giallo.

Lupinc (Prepotto, Trieste). Qua bevo sicuramente uno dei due rossi che più mi hanno impressionato in questi giorni (l’altro è un cru di Maccario, un rossese di Dolceacqua). Si tratta di un terrano, 2018, leggero frutto appena accennato, profondo, lunghissimo, carsico (a pensarlo lo sento ancora in fondo alla gola). Lo bevo dopo una vitovska, 14 giorni di macerazione, epperò molto delicata e per niente invasiva.

Ritorno al Gutturnio, con Barattieri (Val di nure, Albarola, Piacenza), classico taglio 60% barbera e 40% croatina (bonarda, come la chiamano loro), gustoso con acidità elevata. Bevo poi un incantevole Vin Santo, appassito da malvasia aromatica di candia: un nettare succoso e profondo, dai profumi evocativi e esotici di datteri e frutta candita. Appassimento su dei graticci per 4 mesi circa, 8 anni in caratelli 2 in bottiglia. Eccezionale.

Ci passo davanti e non posso snobbarlo, Graziano Prà. A servire c’è il figlio; mi limito a bere il Soave d’annata e il Soave 2016, cru del Colle Sant’Antonio, il quale raccolto passa 2 anni in botte grande, più affinamento in bottiglia, prima di entrare in commercio.

Zohlhof, Valle Isarco (Chiusa), Alto Adige. Piccolissima realtà di circa 3 ettari o poco meno, 10.000 bottiglie di produzione,  praticaemnte quanto bastano per il Mercato Fivi penso. Bianchi della zona (come Sylvaner), molto minerali e freschi.

Faedo (Trentino) è un paese piccolissimo poco sopra San Michele all’Adige eppure sono presenti quasi 5 aziende atte alla produzione del vino. Pojer e Sandri è quella più rinomato; oggi però scopro Graziano Fontana, una azienda familiare da circa 20.000 bottiglie l’anno. Bevo vini d’annata e diffusi nella zona, muller thurgau, sauvignon, chardonnay, pinot nero e lagrein.

È grande gioia quando vedo aziende friulane (e goriziane), soprattutto se non le conosco. La bella sorpresa è Ferlat (Cormons, provincia di Gorizia). LA sorpresa della sopresa sono i suoi due pinot grigi macerati (che non sono ramati, ma proprio arrossati). Fruttatissimi di lampone, avvolgenti, vini eleganti oltre che divertenti. Il prima, la “base” fa solo 7 giorni di macerazione, il secondo è una riserva dedicata alla figlia, il nome è infatti Rosa Carlotta, caratterizzata da un’etichetta molto bella che colpisce l’occhio immediatamente. Della stessa azienda trovo notevole il verduzzo, in versione secca (comunemente è utilizzato per vini dolci),il quale fa 7 giorni di macerazione e 1 anno di botte: molto erbaceo e grattante, ma il cui abbinamento al cibo potrebbe essere molto curioso. Anche il moscato fa 7 giorni di macerazione e, inoltre, cosa ghiotta, passa un anno in botti scolme. Una bella chicca.

Di palo in frasca come mai; dopo il Collio passo al Cilento. Luigi Maffini, Giungano, Salerno; vicino a Paestum. E infatti i nomi si richiamano tutti alla tradizione dell’antica Grecia. Kratos è un fiano molto elegante; Pietraincatenata, è sempre fiano ma che passa in barriques, il nome deriva da una leggenda di un paese vicino, Trentinara, e è interessante quanto il vino stesso. Poi bevo l’aglianico nelle 3 versioni che producono3 etichette. Kleos la “base”, Cenito, dal nome della località, che matura 10 mesi in barriques di primo passaggio, il cui risultato è un tannino sì molto marcato ma anche smussato, con una confettura di frutta rossa notevole. Per ultimo il Siopé, ossia “silenzio”, e si riferisce al silenzio presente in vigna dove nasce questo cru, località Giuliano.

Vedo Marco Comai dell’azienda agricola Comai di Riva del Garda, conosco già i prodotti e provo a resistere e so che si va sul sicuro (per altro ho assaggiato di recente le nuove annate); tuttavia, come sempre succede sono debole e ci casco, e inoltre, come si dice, repetita juvant. Bevo il suo prodotto più recente, un rosso da taglio bordolese classico, che non credo sia nemmeno in commercio, sicuramente non ha ancora nome e nemmeno etichetta: solo l’essenza: grande carattere, un imponente contenuto, un grande potenziale; il resto è ausiliario.

La psicoanalisi mi sta sulle balle, Freud non lo sopporto, ma da Gianfranco Fino mi fermo a bere lo stesso. Assaggio il Se, primitivo vigna giovane, e già mi soddisfa; Es, primitivo per gaudenti è vino per gaudenti, mi rasserena. Io è un negroamaro dalla nota fortemente balsamica. Infine, assaggio il suo Primitivo dolce naturale, dolce e tannico allo stesso tempo; molto interessante e non credo ci sia questo bisogno di abbinarlo per forza a qualcosa.

Lì di fianco sta Gabriele Furletti della Cantina Furletti, Riva del Garda. Conosco e bevo già i suoi ma non ho assaggiato le nuove annate quindi ne approfitto. Beve due strepitosi bianchi, due riserve, pinot grigio e incrocio manzoni. Bevo infine il pinot nero e lo rivaluto, avendo il ricordo di pinot nero dell’anno prima più scorbutico.

Grosjean, Val d’Aosta. Notevoli rossi tipici della zona alpina. Ma sono incazzato perché non mi hanno fatto assaggiare il pinot nero (sostenendo di averlo finito).

I fabbri, zona del Chianti Classico. Li chiamano i “montanari” perché la zona di Lamole si trova a un’altitudine di 450-680 m slm, praticamente la zona più alta dedicata alla coltivazione del sangiovese. Qua assaggio Chianti gustosi e molto fini.

A un certo punto vedo due angeli che servono vino e affabilmente lo spiegano; pensavo di avere una visione invece scopro che sono le due ragazze della cantina Mustilli, le figlie dei proprietari, preparate quanto aggraziate (una delle due sembra uscita da un quadro di Raffaello). La cantina si trova in provincia di Benevento e produce dei strepitosi vini sanniti, dai propri 15 ettari. Bevo falanghina, versione bianco fermo e poi metodo ancestrale; un greco, molto tondo. Degno di nota è il piedirosso, sia nella versione classica che in quella riserva.

Messnerhof (Bolzano), che già conosco e so che è una cantina piccolissima (2,5 ettari). Poche bottiglie ma tutte di media qualità. Il sauvignon è fragrante e succoso.

Passeggiando scorgo Cristina Inganni e dunque non posso non fermarmi a salutarla, anche i vini di Cantrina li bevo spesso; con il fascino che la contraddistingue mi serve il rosso di struttura Nepomuceno, nell’annata appena uscita in commercio (2017), che mantiene la balsamicità che già conosco e il pinot nero, polposo e intenso, che ancora non sa se far uscire (nel frattempo mi tengo pronto).

Con Pojer e Sandri sarò veloce perché non c’è dire poi chissà che; già si sa. Bevo muller 2020, Faye bianco, Faye rosso, e Essenzia (che non ricordavo, e che quindi mi ha colpito in modo estremamente positivo come la prima volta che l’ho bevuto).

Castel Juval (Naturno Val Venosta, Alto Adige), idem come sopra. Riesling forse tra i più equilibrati in Italia.

Nello spazio che ospita la Cantina del Vesuvio una ragazza incantevole mi serve Lacryma Christi in versione bianco (100% caprettone) e rosso (100% piedirosso). Vini ottimi sia nella linea classica che in quella riserva (che matura in botti di legno).

Di sfuggita passo da Picchioni (Canneto Pavese, Oltrepò), perché tutti i suoi prodotti sono di notevole qualità e quindi non si può non approfittarne. Però sono bravo e (ri)assaggio la sua selezione di Buttafuoco, Bricco Riva Bianca.

A circa 100 m di distanza riconosco un sorriso singolare che ben conosco, stampato su una faccia che non si dimentica; è sicuramente Davide Lazzari della cantina omonima di Capriano del Colle (Brescia). Sono patriottico e allora con vado a salutarlo approfittandone per bere il suo Bastian Contrario (trebbiano botritizzato) a cui segue un Fausto vendemmia 2016.

Piero Pan è tappa obbligatoria, per la freschezza e la mineralità dei suoi vini. Soave classico 2020, 85 garganega e 15 trebbiano. Calvarino cru, 70 garganega 15 mesi in cemento. Piro Pan è un’azienda piuttosto grande, 70 ettari e 650.000 bottiglie prodotte l’anno. La signora Pan è molto affascinante, elegante e distinta. Assaggio anche Valpolicella e Amarone (della cosiddetta Valpolicella “allargata”) ma non mi entusiasmano.

Torno nel bresciano e assaggio i riesling dell’Agricola Valcamonica in una mini ma preziosa verticale 2018, 2017, 2015 e infine, a sorpresa, un 2013. Bevo inoltre della stessa azienda l’incrocio manzoni, il Piwi sauvigner gries, e un opulento marzemino, che però non mi emozionano come i riesling.

Torno nella Piacenza collinare, in Val Nure, perché scorco in tralice la celebre azienda La tosa. Lo stesso Stefano Pizzamiglio, proprietario tanto modesto dai modi semplici mi fa una rassegna dei suoi prodotti. Tutti dimostrano qualità notevole; segnalo per mio gusto personale il Gutturnio frizzante Terrafiaba.

La sardegna del vino è molto varia e tutta allo stesso modo meritevole di assaggio. A Nuoro c’è una bella concentrazione di vini eccelsi. Qui al mercato vedo Berritta Dorgali e quindi faccio tappa. Bevo il panzale, un bianco autoctono dalle notevoli potenzialità di invecchiamento; senza tralasciare le loro varie interpretazioni di cannonau.

Valla Viticoltori (Piacenza, Val tidone, confinante con l’Oltrepò). Bevo un ottimo Ortrugo (“Dieci Lune”) rifermentato in bottiglia, un giorno di macerazione, da cui ne deriva una bella matericità un carattere personalissimo.  Interessante anche il Gutturnio (“Come una volta”) rifermentato, 15 giorni macerazione.

Da Cesconi sorvolo, avendo in programma una visita direttamente in cantina; però non sono un allocco e mi permetto l’assaggio del loro vermuth Lynx. Un vino (il vermuth è vino, seppur aromatizzato) da uve lagrein ecaratterizzato da infuso di artemisia. Delicato e strutturato insieme; note officinali e invitanti. Perfetto credo per qualsiasi occasione e qualsiasi momento del giorno.

Ancarani. Qui scopro una bella azienda, sita tra Faenza e Forlì. Assaggio un trebbiano rifermentato Indigeno. Bel rifermentato, con sentori di lieviti e non riduzione (zolfo). Famoso Le signore,  aromatico, molto fruttato come di albicocca, (il vitigno famoso è della famiglia delle malvasia). Poi Albana Perlagioia molto più grasso e caldo. Santa Lusa, albana che cresce sulla sabbia, con un po’ di macerazione sulle bucce che conferisce una tannicità leggera. Andataeritorno macerato, stile ossidativo, albana e famoso con piccola percentuale di trebbiano. Infine il centesimino (stessa famiglia del cannonau e della grenache in genere), un rosso appena speziato, dal tannino morbido; caldo, floreale, dotato di un leggero accenno di frutta rossa.

Da Maccario Dringenberg (San Biagio della Cima, Imperia) bevo il rosso più sorprendete della giornata (non perché sia il più buono, ma perché le aspettative della zona e del vitigno erano bassissime). Una bella signora mi serve di seguito 6 vini da sei bottiglie diverse con etichette nobilitanti, facilmente riconoscibili. Sono tutti vini rossi da uva rossese, varietà a bacca rossa tipica della Liguria. La differenza sta nei terreni. Infatti le 5 etichette (la sesta è un assemblaggio) rappresentano 5 diversi cru (il rossese è marcatore di territorio, mi spiega la signora, come può essere il nebbiolo). Bevo allora Settecammini, Posaù, Namenlos da terreni calcarei; Luvaria da un terreno argilloso (e questo è il mio preferito) e Curli da zona più minerale e ferrosa.

Della cantina Mos (Valle di Cembra,Trentino), bevo un riesling e uno chardonnay; ma segnalo le importanti e ben fatte etichette in onore di Fortunato Depero.

D.P.

LA SORPRESA DEI COLLI PIACENTINI, LA SPLENDIDA TENUTA DI TORRE FORNELLO E L’ACCOGLIENZA DI ENRICO SGORBATI, PROPRIETARIO INSIEME CICERONE E LUCULLO

Mi perdonerà il lettore per il titolo troppo lungo, che pare essere più una sintetica premessa, un riassuntino di quanto scriverò; ma questa è proprio l’intenzione. Convogliare in poche parole l’esperienza di questa mattina vorrebbe dire esclusione, e in questo caso esclusione non starebbe per scelta, bensì riduzione. Ma andiamo con ordine.

Cosa può pensare una persona se mi riferisco ai Colli Piacentini, se come me prima di oggi non c’è mai stato o nemmeno passato? Qualcuno potrebbe pensare a Piacenza, chi ha un po’ di dimestichezza con l’arte immaginarsi il duomo, il romanico; in pochissimi addurrebbero al pittore Morazzone e alla cupola dipinta, ultimata da Guercino. Per lo più il termine “colli” evocherebbe un’immagine bucolica, più soave e agreste, “green”, dunque accattivante. Ma anche questi restano pressoché anonimi, associati da qualche bevitore di vecchio stampo a vini “spuma”, amabili, ruspanti, mossi o, se va un po’ meglio, vagamente frizzanti.

In più questa zona è praticamente sfigata – il termine è d’uopo –, non tanto per la geografia, ma per le sue implicazioni politico-comunicative. Posizionati all’estrema punta nord occidentale dell’Emilia Romagna, i Colli Piacentini e i vini da questa zona prodotti non possono essere affiancati a quelli delle colline emiliane più sud, né,  men che meno, con quelli romagnoli; non è Pianura Padana, né lambrusco, né pignoletto, né sangiovese. Tant’è vero che da qui in poco tempo si è a Milano o in Piemonte; molto più tempo servirebbe invece per raggiungere Bologna. I Colli Piacentini, inoltre, confinano con l’Oltrepò pavese, ma con questi non sono associati mai (penso alle fiere), seppur le colline sono le medesime (con le debite differenze, chiaro). Ma i confini sono definiti: comune diverso, provincia diversa, regione diversa fanno intendere alla persona comune vini completamente diversi e, automaticamente, in questo caso, meno degni di attenzione.

Fortuna che sono persona curiosa, il cui piacere è solo una conseguenza della conoscenza (e non una preferenza), quindi decido di andarci; scelgo l’azienda che già conosco per certi vini (pochissimi in realtà) e a catalogo di Proposta Vini (quindi ha buone referenze).  Voglio approfondire oltre ai prodotti soprattutto la zona. Come quasi sempre accade, se si parte con aspettative basse si rimane soddisfatti e compiaciuti. Così infatti è stato.

L’azienda agricola Torre Fornello si trova nel comune di Ziano Piacentino, nella frazione omonima di Fornello, nome derivato dalle fornaci in uso in tempi oramai remoti. È il comune che confina con l’affascinante e decadente Rovescala (Oltrepò pavese), la quale sta a pochissimi chilometri, praticamente la collina a fianco. Io arrivo da Brescia, e dall’uscita autostradale bisogna inoltrarsi in paesotti che assomigliano a trasandate periferie. E lo stesso paesaggio lugubre continua fino a qualche chilometri dalla meta, e perciò mi preoccupo. Ma, fortunatamente, d’improvviso lo scenario muta: finisce il cemento e si spalanca la campagna, si scorge all’orizzonte il verde dei colli che piano piano, un po’ qua e un po’ là comincia a salire, prendere forma, sino a ergersi, in lontananza, a catena montuosa. Sono gli Appennini, là proprio dove cominciano il loro cammino, a darmi il benvenuto a Fornello.

La sede dell’azienda è del tutto inaspettata: un complesso di edifici – una volta sede come detto di fornaci, poi ampliato da una famiglia nobile toscana nel Diciassettesimo secolo per la loro residenza – splendidamente ristrutturati (sassi e mattoni a vista normalmente mi nauseano, ma qui hanno la loro ragion d’essere); si tratta sostanzialmente di locali comunicanti dalle stanze ampie e ospitali, poco ma ben arredate. Questo luogo, infatti, come sospetto ma poi ne ricevo conferma, può essere anche affittato per matrimoni, ricevimenti o cerimonie in genere.

L’appuntamento è per le 9.00 e Enrico Sgorbati è appena fuori dalla porta, cancello aperto, pronto per a accogliermi. La cordialità fa parte di lui, questo è subito evidente dai modi. Mi fa notare, bonariamente, il “ritardo”, perché sono le 9.02; sbagliato, rispondo io, facendogli notare a mia volta l’arrivo alle 8.58 (sono tendenzialmente, ovvero patologicamente, puntuale), e il successivo tempo occupato a godere del panorama: un paesaggio ammagliante, fatto di colline e filari ovunque. Il  mio sguardo che scende e sale, dolcemente come i declivi, e incontra solo vigne.

E così Enrico, titolare dal 1998, comincia a raccontare la sua storia, la storia dell’azienda e dei suoi vini. Mi accompagna per tutta la proprietà, passando per il giardino, per la vecchia stalla, le vecchie scuderie, l’ex fienile e la vinsantaia; addirittura è presente una chiesa che è pure sede parrocchiale dal 1920 (“unico caso di chiesa privata, consacrata e parrocchia”, mi spiega). Mi è evidente da subito che Enrico è un caso particolare in cui il proprietario incontra Cicerone (per la narrazione persuasiva) e Lucullo (per l’ospitalità; si vedano Le Vite di Plutarco). È un fiume di parole, che passano dai ricordi al tecnicismo vitivinicolo, dalla nonna ai lieviti indigeni.

L’obiettivo di Torre Fornello, mi dice, è dare incisività al territorio lavorando con la qualità degli autoctoni, ma al contempo lavorare con vitigni internazionali per risaltare il territorio dentro ma pure fuori dall’Italia. “Alla fiere internazionali – confessa –  mi glissano perché leggono sul cartellino ‘Emilia Romagna’ e pensano di conseguenza al lambrusco; io vorrei distinguermi per quello che faccio nella mia zona, e la Doc non aiuta. Quindi cerco di fare il massimo, per me sì, ma anche per il territorio dove lavoro”.  Gli ettari vitati, per la maggior parte coltivati a biologico, sono 61, con una produzione di 350.000 bottiglie circa. Tante le etichette (27) e i vitigni coltivati (“sono anche uno sperimentatore, molti vini li tengo a casa, in una stanza piena: mi piace giocare e capire dove e come avventurarmi in una nuova sfida”).

Io ascolto e prendo appunti, sempre curioso e volenteroso; ma siamo in giardino mentre spiega, suona la campana delle 10, e la vista delle colline vitate mi eccita le papille gustative più del normale.  Quindi alludo alla cantina, e presto ci incamminiamo per visitarla. Molto suggestiva è la barricaia, ovvero il luogo dove il vino matura nelle botti, in questo caso proprio barrique da 225 litri in legno francese, a sua detta il migliore. Essa è la cantina originale dell’edificio, al di sotto della villa patronale, e data 1400-1600. È costruita interamente in mattoni di cotto, che formano un fascinosa volta a vele.

La variegata degustazione ha luogo in una stanza finemente apparecchiata, con tanto di camino acceso. Il solito loquace Enrico ci accompagna con tanto di presentazione del vino, aneddoti e descrizioni sensoriali, in modo da creare una sorta di dialogo-confronto col sottoscritto. Spiccano, a mio avviso, i seguenti vini.

Pratobianco. Si tratta di un vino che fa dialogare insieme il territorio con il mondo (40% malvasia di Candia aromatica, 40% sauvignon, 20% chardonnay), un bianco nel complesso ben equilibrato e pulito.

Donna Luigia. Un vino sul cui nome l’aneddotica si spreca (piacevole però sentirsi raccontare la storia) e è un bianco da uve di sola malvasia di candia aromatica, però in assemblaggio, perché lavorate in quattro modi differenti: 20% passa in legno, 20 % macerato a freddo, 50% vinificato in bianco e il restante 10% botritizzato. È un vino opulento, rotondo, avvolgente e profumatissimo.

Una. Forse il più complesso dell’azienda. Prodotto da sole uve di malvasia di Candia aromatica, e tutte attaccate da muffa nobile (botrite); lunga fermentazione e lunghissima evoluzione in legno, per un vino dotato di un ventaglio ricchissimo di profumi: dalla pesca sciroppata allo zafferano a note più balsamiche, con un finale lungo e salmastro.

Latitudo 45. Vino estremo, di un tipo ormai (purtroppo) raro da trovarsi in giro; e in effetti è un vino che l’azienda ha messo fuori produzione (poche bottiglie rimanenti in azienda, sono fortunato a averne due in cantina). Si tratta di un rosso ruspante, tosto, molto marcato, a base croatina (circa il 95%), con una piccola parte di syrah, che matura dai 12 ai 18 mesi in tonneau da 500 litri.. Un gran tannino (circa il doppio rispetto a quello di un Barolo) che si fa sentire, una trama polifenolica che non si dimentica.

DP