LA SORPRESA DEI COLLI PIACENTINI, LA SPLENDIDA TENUTA DI TORRE FORNELLO E L’ACCOGLIENZA DI ENRICO SGORBATI, PROPRIETARIO INSIEME CICERONE E LUCULLO

Mi perdonerà il lettore per il titolo troppo lungo, che pare essere più una sintetica premessa, un riassuntino di quanto scriverò; ma questa è proprio l’intenzione. Convogliare in poche parole l’esperienza di questa mattina vorrebbe dire esclusione, e in questo caso esclusione non starebbe per scelta, bensì riduzione. Ma andiamo con ordine.

Cosa può pensare una persona se mi riferisco ai Colli Piacentini, se come me prima di oggi non c’è mai stato o nemmeno passato? Qualcuno potrebbe pensare a Piacenza, chi ha un po’ di dimestichezza con l’arte immaginarsi il duomo, il romanico; in pochissimi addurrebbero al pittore Morazzone e alla cupola dipinta, ultimata da Guercino. Per lo più il termine “colli” evocherebbe un’immagine bucolica, più soave e agreste, “green”, dunque accattivante. Ma anche questi restano pressoché anonimi, associati da qualche bevitore di vecchio stampo a vini “spuma”, amabili, ruspanti, mossi o, se va un po’ meglio, vagamente frizzanti.

In più questa zona è praticamente sfigata – il termine è d’uopo –, non tanto per la geografia, ma per le sue implicazioni politico-comunicative. Posizionati all’estrema punta nord occidentale dell’Emilia Romagna, i Colli Piacentini e i vini da questa zona prodotti non possono essere affiancati a quelli delle colline emiliane più sud, né,  men che meno, con quelli romagnoli; non è Pianura Padana, né lambrusco, né pignoletto, né sangiovese. Tant’è vero che da qui in poco tempo si è a Milano o in Piemonte; molto più tempo servirebbe invece per raggiungere Bologna. I Colli Piacentini, inoltre, confinano con l’Oltrepò pavese, ma con questi non sono associati mai (penso alle fiere), seppur le colline sono le medesime (con le debite differenze, chiaro). Ma i confini sono definiti: comune diverso, provincia diversa, regione diversa fanno intendere alla persona comune vini completamente diversi e, automaticamente, in questo caso, meno degni di attenzione.

Fortuna che sono persona curiosa, il cui piacere è solo una conseguenza della conoscenza (e non una preferenza), quindi decido di andarci; scelgo l’azienda che già conosco per certi vini (pochissimi in realtà) e a catalogo di Proposta Vini (quindi ha buone referenze).  Voglio approfondire oltre ai prodotti soprattutto la zona. Come quasi sempre accade, se si parte con aspettative basse si rimane soddisfatti e compiaciuti. Così infatti è stato.

L’azienda agricola Torre Fornello si trova nel comune di Ziano Piacentino, nella frazione omonima di Fornello, nome derivato dalle fornaci in uso in tempi oramai remoti. È il comune che confina con l’affascinante e decadente Rovescala (Oltrepò pavese), la quale sta a pochissimi chilometri, praticamente la collina a fianco. Io arrivo da Brescia, e dall’uscita autostradale bisogna inoltrarsi in paesotti che assomigliano a trasandate periferie. E lo stesso paesaggio lugubre continua fino a qualche chilometri dalla meta, e perciò mi preoccupo. Ma, fortunatamente, d’improvviso lo scenario muta: finisce il cemento e si spalanca la campagna, si scorge all’orizzonte il verde dei colli che piano piano, un po’ qua e un po’ là comincia a salire, prendere forma, sino a ergersi, in lontananza, a catena montuosa. Sono gli Appennini, là proprio dove cominciano il loro cammino, a darmi il benvenuto a Fornello.

La sede dell’azienda è del tutto inaspettata: un complesso di edifici – una volta sede come detto di fornaci, poi ampliato da una famiglia nobile toscana nel Diciassettesimo secolo per la loro residenza – splendidamente ristrutturati (sassi e mattoni a vista normalmente mi nauseano, ma qui hanno la loro ragion d’essere); si tratta sostanzialmente di locali comunicanti dalle stanze ampie e ospitali, poco ma ben arredate. Questo luogo, infatti, come sospetto ma poi ne ricevo conferma, può essere anche affittato per matrimoni, ricevimenti o cerimonie in genere.

L’appuntamento è per le 9.00 e Enrico Sgorbati è appena fuori dalla porta, cancello aperto, pronto per a accogliermi. La cordialità fa parte di lui, questo è subito evidente dai modi. Mi fa notare, bonariamente, il “ritardo”, perché sono le 9.02; sbagliato, rispondo io, facendogli notare a mia volta l’arrivo alle 8.58 (sono tendenzialmente, ovvero patologicamente, puntuale), e il successivo tempo occupato a godere del panorama: un paesaggio ammagliante, fatto di colline e filari ovunque. Il  mio sguardo che scende e sale, dolcemente come i declivi, e incontra solo vigne.

E così Enrico, titolare dal 1998, comincia a raccontare la sua storia, la storia dell’azienda e dei suoi vini. Mi accompagna per tutta la proprietà, passando per il giardino, per la vecchia stalla, le vecchie scuderie, l’ex fienile e la vinsantaia; addirittura è presente una chiesa che è pure sede parrocchiale dal 1920 (“unico caso di chiesa privata, consacrata e parrocchia”, mi spiega). Mi è evidente da subito che Enrico è un caso particolare in cui il proprietario incontra Cicerone (per la narrazione persuasiva) e Lucullo (per l’ospitalità; si vedano Le Vite di Plutarco). È un fiume di parole, che passano dai ricordi al tecnicismo vitivinicolo, dalla nonna ai lieviti indigeni.

L’obiettivo di Torre Fornello, mi dice, è dare incisività al territorio lavorando con la qualità degli autoctoni, ma al contempo lavorare con vitigni internazionali per risaltare il territorio dentro ma pure fuori dall’Italia. “Alla fiere internazionali – confessa –  mi glissano perché leggono sul cartellino ‘Emilia Romagna’ e pensano di conseguenza al lambrusco; io vorrei distinguermi per quello che faccio nella mia zona, e la Doc non aiuta. Quindi cerco di fare il massimo, per me sì, ma anche per il territorio dove lavoro”.  Gli ettari vitati, per la maggior parte coltivati a biologico, sono 61, con una produzione di 350.000 bottiglie circa. Tante le etichette (27) e i vitigni coltivati (“sono anche uno sperimentatore, molti vini li tengo a casa, in una stanza piena: mi piace giocare e capire dove e come avventurarmi in una nuova sfida”).

Io ascolto e prendo appunti, sempre curioso e volenteroso; ma siamo in giardino mentre spiega, suona la campana delle 10, e la vista delle colline vitate mi eccita le papille gustative più del normale.  Quindi alludo alla cantina, e presto ci incamminiamo per visitarla. Molto suggestiva è la barricaia, ovvero il luogo dove il vino matura nelle botti, in questo caso proprio barrique da 225 litri in legno francese, a sua detta il migliore. Essa è la cantina originale dell’edificio, al di sotto della villa patronale, e data 1400-1600. È costruita interamente in mattoni di cotto, che formano un fascinosa volta a vele.

La variegata degustazione ha luogo in una stanza finemente apparecchiata, con tanto di camino acceso. Il solito loquace Enrico ci accompagna con tanto di presentazione del vino, aneddoti e descrizioni sensoriali, in modo da creare una sorta di dialogo-confronto col sottoscritto. Spiccano, a mio avviso, i seguenti vini.

Pratobianco. Si tratta di un vino che fa dialogare insieme il territorio con il mondo (40% malvasia di Candia aromatica, 40% sauvignon, 20% chardonnay), un bianco nel complesso ben equilibrato e pulito.

Donna Luigia. Un vino sul cui nome l’aneddotica si spreca (piacevole però sentirsi raccontare la storia) e è un bianco da uve di sola malvasia di candia aromatica, però in assemblaggio, perché lavorate in quattro modi differenti: 20% passa in legno, 20 % macerato a freddo, 50% vinificato in bianco e il restante 10% botritizzato. È un vino opulento, rotondo, avvolgente e profumatissimo.

Una. Forse il più complesso dell’azienda. Prodotto da sole uve di malvasia di Candia aromatica, e tutte attaccate da muffa nobile (botrite); lunga fermentazione e lunghissima evoluzione in legno, per un vino dotato di un ventaglio ricchissimo di profumi: dalla pesca sciroppata allo zafferano a note più balsamiche, con un finale lungo e salmastro.

Latitudo 45. Vino estremo, di un tipo ormai (purtroppo) raro da trovarsi in giro; e in effetti è un vino che l’azienda ha messo fuori produzione (poche bottiglie rimanenti in azienda, sono fortunato a averne due in cantina). Si tratta di un rosso ruspante, tosto, molto marcato, a base croatina (circa il 95%), con una piccola parte di syrah, che matura dai 12 ai 18 mesi in tonneau da 500 litri.. Un gran tannino (circa il doppio rispetto a quello di un Barolo) che si fa sentire, una trama polifenolica che non si dimentica.

DP