DI VINI, VIGNE E VIGNAIOLI TRENTINI (PARTE 1). Appunti sopra le visite a Alessandro Fanti e Redondèl di Paolo Zanini

In un giorno caldo di un mese caldissimo di un’estate afosa i tanti qualcuno auspicherebbe il mare, oppure l’alta montagna. Io invece continuo a preferire la campagna, specialmente se invasa da vigne, filari  e cantine. In un giorno anonimo di fine luglio quindi sono nella Piana Rotaliana, nel cuore della viticoltura trentina, con il termometro che alle ore 9.30 del mattino mi segnala già 30°C, e un’umidità che fa respirare a fatica. Un’altra giornata pazza di un’estate ancora più pazza.

La Pianura Rotaliana è una sorta di triangolo ‘inserito’ tra le pareti rocciose del Brenta, la chiusa di Salorno e una fascia collinare che sale verso la confinante Val di Cembra; è tagliata in due dal fiume Adige e si trova tra Trento e Bolzano: un croce via strategico (tra l’area mediterranea e quella germanica) che ha storicamente caratterizzato il commercio locale. Viticoltura compresa.

Navigare per la prima volta in una realtà con più di venti aziende medie, piccole e piccolissime non è cosa semplice né immediata. Mi affido così alla guida di un amico rotaliano doc, dunque autoctono, come me incorreggibile appassionato del mondo del vino (winelover per gli amici più giovani), titolare di un’enoteca locale, e connoisseur di piccole realtà vinicole: non omologate, indipendenti, tenaci e soprattutto produttrici di vini dalla forte personalità – e di notevole qualità.

Qui le cooperative sociali hanno il monopolio o quasi, o così capisco, e per i piccoli produttori è difficile cavarsela e districarsi in un teatro i cui grandi attori occupano una parte considerevole del palco, i quali in qualche modo hanno condizionato e condizionano la viticoltura; e meglio sarebbe dire che è ancora più difficile, dato che per fare vino, del buon vino, è già dura.

 

Alessandro Fanti.

Sono informazioni che si accavallano, frastagliate, nel racconto politematico di Alessandro Fanti, vignaiolo dai modi semplicissimi, che mi parla con un eloquio educato e pacato. Mi trovo a Pressano, frazione di Lavis, territorio che si sviluppa su una fascia collinare molto interessante per il vino; qui, sotto una volta a botte spartana che fa da entrata alla cantina, mi accoglie il vignaiolo Fanti, in un outfit francescano fatto di sandali, braghette corte e maglietta più che informale. E pauperistico è il modo con cui mi conduce nella piacevole degustazione dei suoi vini.

Pochi vignaioli si sono tirati fuori dal sistema delle sociali e hanno cercato di cambiare rotta, e lui è uno di quelli, mi dice come per presentarsi: e in effetti dicendo poco ha detto molto. Il vignaiolo è in preda ai lavori, in vigna e in cantina (si sta, fievolmente, allargando).  L’Ora, il vento, spinge forte qua, e da parziale giovamento al caldo umido e pressante del mattino.

Bevo bianchi, Alessandro è un bianchista eccellente, e quindi bevo bene, anzi benissimo. La sua prima vendemmia data 1991; il suo primo vino la Nosiola (in purezza, ovviamente). Un vino dalla lunga storia, tortuosa come ho capito, che Fanti mi snocciola con cura. La nosiola è un vino che risponde bene all’affinamento, mi confida, e quello che beviamo rimane a lungo sui lieviti (anche per 8 mesi), in acciaio e legno (mesi) dove affina, e in bottiglia (anni) dove evolve.

Fanti mi piace perché è franco, e perché non snobba lo chardonnay relegandolo a vitigno internazionale. Vero che la nosiola è l’autoctono trentino, mi spiega, ma lo chardonnay qua cresce bene, e è coltivato in Trentino da più di un secolo (si consideri Giulio Ferrari). Continua  a versare vino, e più ancora parla e parla molto; è praticamente una lectio sul territorio, la storia e la produzione di Pressano.

Quelli prodotti in questa zona, mi spiega, non sono mai vini ‘seduti’, seppur zona calda, e questo per i suoli marnosi-calcarei (diversi da quelli della vicina Sorni, gessosi). L’aspetto agronomico è quello che più preme a Fanti (ma in genere ai vignaioli), e infatti si dilunga molto. Il vino è fatto (soprattutto) in vigna, lo sapevo perché me lo aveva detto Lino Maga, e ora lo so (repetita juvant) perché Alessandro Fanti me lo conferma: con le sue nozioni e con i suoi vini. Fanti lavora, praticamente da solo, su 4 ettari circa (su una collina, quella di Pressano, che di ettari ne conta 280) per una produzione vicina alle 17.000 bottiglie.

Bottiglie che Fanti mi presenta nella saletta degustazione, praticamente una taverna, molto ospitale. Uno Chardonnay slanciato, un Manzoni bianco brillante (letteralmente e metaforicamente), e un bianco grandioso, sempre base Manzoni, ma stavolta un cru: Isidor è il nome (cioè “dono di Iside”, la dea della fertilità e della terra), uva coltivata in un vigneto a 600 m s.l.m.; uve più mature ma – scandisce bene le parole –  ‘non più dolci, ma più mature’, il che è molto diverso. Risultato: sapidità pazzesca, carattere e incisività, acidità vibrante per un vino che più vivo non si può. L’idea, mi confida, (e lo potevo intuire dalla forma renana della bottiglia) è quella di realizzare un vino dal taglio nordico.

Intanto che assaggiamo parla senza freni del suo lavoro, toccando temi tra l’agronomico e l’alchemico. Parla molto, tantissimo anzi solo di terreno e terra; meno e anzi nulla di vinificazione. Naturalmente ci capisco poco, ma mi interessa molto, e allora continua a chiedere, e più chiedo e più si dilunga. Alessandro mi dice che preferisce partire con vini ‘arretrati’, ossia in riduzione, completamente avulsi dall’ossigeno. In ambienti chiusi (botti) sulle fecce, molte fecce e quindi battonage, anche due volte al giorno. Nelle botti il mosto è torbidissimo. Questo metodo sarebbe favorito a sua detta dal tappo a vite, che piacerebbe a Fanti ma che il mercato (purtroppo) ancora lo trattiene.

Chiedo allora sue considerazioni. Per lui i tappi a sughero sono addirittura un ‘dramma’, mi confessa, “bevendo vini a distanza di anni ho capito che dallo stesso imbottigliamento il contenuto è diverso bottiglia per bottiglia…, si può dire che un vino è più buono di un altro”. Un po’ quanto già detto da Franz Haas, Walter Massa, Graziano Prà, e che in  Alessandro Fanti trova una nuova dimostrazione, esaltata anche dalla sua faccia sconsolata. Ma lo conforto, il futuro del tappo a vite non è poi così lontano, sicuramente se di vino bianco si parla.

Almeno un breve commento sull’etichetta dell’Isidor lo devo fare, perché ne vale l’attenzione. Di primo acchito, quella macchia cangiante – al contempo disarticolata e perfetta, spigolosa e caotica quanto sinuosa e armonica, una forma impeccabilmente informe – ,  mi sembrava una di quelle immagini tratte dai dipinti tantrici, uno di quelli, per capirci,  esposti da Massimiliano Gioni nel suo straordinario Palazzo Enciclopedico per la Biennale del 2013. Poi ho pensato a una stella di qualche stravagante cosmogonia; e ancora: al biomorfismo di Redon, addirittura all’arte infantile. Niente di tutto questo (come mi capita spesso penso troppo, e come spesso capita pensare troppo non è la soluzione migliore).

Si tratta, più semplicemente, dell’esito su carta della cromatografia del terreno dove maturano le uve dell’Isidor. Un’analisi visiva, qualitativa e non quantitativa, per tradurre visivamente la vitalità del terreno. “Un omaggio alla terra”, mi dice. La terra dunque, ancora una volta.

 

Redondèl, ovvero Paolo Zanini.

“Prima de parlàr de teroldego bevém en bicér”. Dovrei esser piuttosto sorpreso per il luogo in cui mi trovo, ma in realtà sono perfettamente a mio agio: sono a Mezzolombardo, nella cantina di Pietro Zanini, in una stanza che è insieme sala ricevimento, sala degustazione, sala vendite, living room, magazzino, cucina, studio, ufficio. L’accoglienza è delle migliori, quelle calde e insieme umili, senza vezzi né fronzoli; si capisce immediatamente la semplicità autentica e genuina del contadino.

Siamo seduti attorno a un tavolo di legno massiccio, il tavolo vecchio del nonno mi dice Paolo; tutt’attorno cartoni di vino, scartafacci, carte, cartoline, bicchieri. Sul tavolo – che in quella moltitudine di oggetti e mobili domina assiso in centro alla stanza – gioia per i miei occhi e per la mia gola c’è un salame pronto al taglio, e le bottiglie di vino che andremo a assaggiare (si legga: bere). Piuttosto schivo (o almeno così mi è parso inizialmente) chiedo qualcosa per rompere il ghiaccio: “prima de parlàr de teroldego bevém en bicér”, mi risponde Paolo Zanini con un tono tra il serioso e la sentenza oracolare. “Bisogna savér de col che s’è drio a parlar”, mi dice, e così giù il primo bicchiere.

Paolo Zanini ha 52 anni, e come mi confida è vicino alla sua 38esima vendemmia. Redondèl è il nome della sua azienda agricola, piccola, anzi piccolissima (se si paragona alla realtà delle sociali, dominatrici nella zona) epperò grandissima (se si paragona la qualità delle uve prodotte a quelle delle sociali stesse), portata avanti dopo generazioni (prosegue dal padre, e dal padre del padre). Vanta tra i 3 e i 4 ettari di terreno coltivato e il nome dato all’azienda – Redondèl – , deriva da quello di una vigna storica fatta di 9 filari (e questo è il motivo per cui i cartoni di vino in vendita sono composti, in modo del tutto originale, da 9 bottiglie). Sono circa 20.000 le bottiglie annue, e 4 le etichette: rigorosamente teroldego, chiaro.

Mi parla della storia della sua azienda, del teroldego, e intanto il vino scorre dalla bottiglia nei bicchieri. E Paolo Zanini parla, e più parla (tanta è la passione) più è incalzato. Redondèl è tra le prime aziende a proporre al mercato teroldego da lungo affinamento. Io che fino a ieri ero convinto che il teroldego non esistesse, o meglio, lo snobbavo tanto lo ritenevo un vino cattivo (poca e mala era la mia esperienza ‘teroldeghiana’), rimango sbalordito.  Sarà il lungo affinamento, saranno le botti, sarà la mano di Paolo, o forse tutte queste cose, ma i vini che bevo sono straordinariamente equilibrati, succosi, pieni; l’acidità (che normalmente nel teroldego è la bestia nera) qui è ben amalgamata, è piacevole e ben si inserisce in una trama sensibilmente tannica (tannino che nel teroldego comune è inesistente).

Gli acini del teroldego hanno la buccia fine, “è un vino molto difficile, sia da lavorare che da bere” ammette Zanini. Col tempo sarà sempre più particolare, più vicino ai gusti comuni, ma non sarà mai allineato completamente”. Mi fa notare che i vini prodotti sono un vino rosa (l’Assolto), e 3 rossi (l’Indulgente, il Dannato e il Beatome).  “Il vino rosso mi permette di lavorare di pancia, e prima o poi esce il mio carattere nel vino che produco, il mio essere , la mia mano, quello che voglio trasmettere”. Io bevo e ascolto Zanini, e più ascolto e più bevo e più identifico l’uno nell’altro.

Da quella persona che pensavo schiva e restia, burbera e rude, riconosco via via un qualcosa di profondo fatto di una spiccata sensibilità e lungimiranza; persona schietta eppure bonaria, s’infervora facilmente (non chiedetegli di disciplinari o di cantine sociali). Proprio come il teroldego, quello buono che scopro oggi, apparentemente ruvido in realtà mansueto, e – “scarpa grossa, cervello fino”, dice il proverbio – persona lucida e di ampia conoscenza. Tant’è che mi ricorda il Domenico Scandella detto Menocchio, il mugnaio friulano bruciato sul rogo nel 1601, reso celebre grazie al best-seller di Carlo Ginzburg (C. Ginzburg, Il formaggio e i vermi, 1976).

“Non ho mai praticato con alcuno che fusse heretico”, dichiara all’Inquisizione Menocchio, “ma io ho il cervel sutil, et ho voluto cercar le cose alte et che non sapeva”. Scrive Gianpaolo Carbonetto in una illuminante prefazione al libro (2003): “Menocchio è uno di quegli uomini liberi che si alzarono – e si alzano ancora oggi, consapevoli del prezzo che dovranno pagare – davanti all’ortodossia del momento, affermando il loro diritto all’identità, e di conseguenza alla diversità mettendo in atto coraggiose scelte di libertà”.

Le scelte di libertà di Paolo Zanini si chiamano: Assolto, un vino rosa dai sapori fragranti di fragola; Dannato, un Teroldego prodotto con uve molto mature, un vino che nonostante il lungo affinamento di 5 anni in botti da 25 ettolitri (sto bevendo un 2015!) preserva il frutto caratteristico. Zanini ne parla come di un vino che “trova il proprio destino nel disegno astrale… tentato nella via naturale”, e altre formule inquietanti. Beatome, un vino creato per essere longevo, qua si parla di 8 (!) o 10 (!!) anni di evoluzione in botti (barriques e tonneaux); un vino pazzesco. E l’Indulgente, un “vino lento” a sua detta, dedicato al padre, il cui affinamento (lunghissimo, chiaro) questa volta è in acciaio. “Il teroldego è fatto di 3 T: Terra, Tempo, Tradizione”, mi confessa il vignaiolo in estasi, come a sintetizzare i concetti lungamente discussi.

Ho bevuto abbastanza, le ore sono volate, e è ora purtroppo di abbandonare il campo. Ma Paolo mi ferma sull’uscio sorprendendomi con una osservazione: ruota un calice di vino con la propria mano, poi porge un calice a me, con all’interno lo stesso vino, chiedendomi di fare altrettanto; mi invita a annusare prima l’uno e poi l’altro e mi stupisce: “lo senti il profumo diverso, nonostante sia lo stesso vino della stessa bottiglia?”. Alla mia, ovvia non-risposta, Zanini continua: “questione di energie diverse”.

Non ho voluto approfondire, perché sapevo che il pomeriggio sarebbe stato molto più lungo. Ma la risposta è ancora in sospeso; e sarà la prima domanda alla prossima visita. Certo, dopo aver bevuto un bicchiere di teroldego, ovvio.

Damiano Perini