CANTRINA, IL SOLE DI BEDIZZOLE

Sol tibi signa dabit, il sole ti guiderà, ti darà conoscenza, ti darà avvisaglie, sta scritto nel primo libro delle Georgiche di Virgilio. Solem quis dicere falsum audeat? Io, seppur cristiano e non pagano e più amante delle freddoline giornate di nebbia non lo metto mai in dubbio, il sole. Così fidandomi ciecamente mi inoltro nell’entroterra della Valtenesi, direzione Bedizzole, verso un’azienda agricola che scopro, solo una volta arrivato, allo stesso tempo bucolica, letteralmente, e moderna, piena di vitalità.

Vengo dal Garda e quindi sono un po’ snob, Bedizzole me lo immagino paesino brutto e chiuso; immaginavo male: bene perché la sorpresa mi entusiasma, meglio perché in un posto piacevole si beve più volentieri. La cantina si trova leggermente fuori dal comune, in una piccolo borgo omonimo che è praticamente un vicolo di case antiche bene tenute terminante con una chiesetta. Per arrivarci, dal Lago, si può decidere un giro largo attorno al borghetto su strada asfaltata, oppure attraversare la campagna su strada bianca.

L’entrata è prolettica: un grande cancello introduce a un viale di ghiaia, tutt’attorno cipressi e ciliegi, imponenti eppure tenuti minuziosamente. In fondo, lo scenario (e scenario è parola giusta) che non ti aspetti: una villa enorme e dannunziana, di una bellezza decadente, un cortiletto intimo e ombreggiato grazie a un intrigo di verzura; e tutt’attorno, nemmeno a dirlo, campi vitati. Sarà stato il sole caldo delle prime giornate primaverili, o il verde lì intorno, però penso che Virgilio aveva ragione, il sole non dice balle, e io non ho mai osato dire il contrario.

Sono accolto da Cristina, proprietaria dell’azienda a conduzione familiare insieme a Diego, padre dei suoi due figli. Mentre lui è il “braccio”, colui che segue la parte agronomica e enologica, Cristina segue più la parte di comunicazione, di rapporti coi clienti, e insieme rappresentano un binomio efficacissimo, se si pensa alla crescita della cantina in poco più di vent’anni.  Cristina Inganni, esatto riflesso del luogo in cui sono, signora elegante e allo stesso tempo grintosa, la quale riesce a mettere insieme quel fascino e quella vitalità che la rendono perfetta per il lavoro che fa, ha alle spalle una formazione artistica, decorazione in particolare. Frequenta infatti l’Accademia di Belle Arti di Brera, e ciò è ben visibile da alcune delle etichette (da lei pensate, “in maniera libera e spontanea”, senza inutili rimandi, pensieri o altre artificiosità forzate da grafici professionisti, futili e talvolta sterili) e dal simbolo della cantina, un sole solenne, che pare essere appartenuto ai sibariti. Un sole sibarita, e sibaritico, che è rappresentato sulla porta della cantina, che si trova di fianco alla villa. Mentre mi accompagna mi racconta la storia dell’azienda.

L’azienda agricola Cantrina, a oggi 8 ettari vitati per una produzione di circa 35.000 bottiglie, nasce attorno al 1998. Da subito le parole chiavi sono “pulizia e eleganza dei vini”, senza però che manchi quel lato di “creatività e sperimentazione”. In vini francesi piacciono in particolare, e così tra le prime vinificazioni il pinot nero la fa da padrone.  Solo successivamente il groppello è entrato nel cuore dei produttori. “All’inizio il groppello lo consideravamo poco niente; poi mano a mano che ci siamo resi conto delle potenzialità simili al pinot nero ce ne siamo innamorati”. E il groppello di Cantrina è veramente notevole.

Inoltre, Cantrina è una delle prime aziende in Valtenesi che utilizza con coraggio, senza pensare troppo al mercato, il tappo a vite. Altra parola chiave è la “selezione”, sia in vigna, sia in cantina: “utilizziamo vasche di piccole dimensioni per avere un maggior controllo; i nostri vini sono frutto di assemblaggi, anche tra lo stesso vitigno, vogliamo che i nostri vini siano il risultato solo del meglio della vinificazione”. La precisione in cantina la ritrovo in vigna; campi che per il periodo sono tappeti vitati, ricamati a margherite e tarassaco, con un risultato impressionista di pennellate verdi, bianche e gialle. Il sole cocente della campagna mi rincorre nella sala degustazione – che però è al fresco, su tavolo di legno massiccio e pavimento in cotto –  in una rappresentazione affrescata finto-antica, opera sempre di Cristina.

Bevo il Riné 2018, un bianco a base riesling renano (più incrocio manzoni e chardonnay che fa passaggio in legno) e sono ancora più felice. Bella acidità, leggermente avvolgente, il giusto, toni più complessi che limonosi. Faccio notare la mia fissa per i bianchi nordici e evoluti a lungo. Così mi apre un Riné del 2002. È la storia, lo spirito di quei tempi che bevo. E penso la fortuna di vivere e bere nel 2021. Nel 2002 i gusti erano grossi, grassi, piaccioni; i vini dovevano passare in barrique e lo chardonnay era onnisciente. Come in questo caso, il quale chardonnay costituisce la metà dell’assemblaggio.

I rossi di Cantrina sono tutti eccellenti. Il rebo Zerdì, seppure così normalmente piacione è lineare; uno dei pochi rebo che berrei volentieri. Il Nepomuceno (nome icastico e austero in onore del Santo ceco Giovanni Nepomuceno, vissuto nel XIV secolo, e santo patrono della piccola frazione) è un vino degno di tale nome. Tonante predicatore Nepomuceno, tonante rosso questo di Cantrina. Imponente, avvolgente, è dotato di grande struttura, e però conserva una sua eleganza che lo rende bevibile in maniera straordinaria; i 15% di titolo alcolometrico volumico non si percepiscono, tanto è l’equilibrio e la finezza di questo vino. La base è già un unicum nel panorama del territorio, con una base merlot (70%) più rebo e marzemino. I quali acini raggiungono una lieve surmaturazione in vigna, per poi essere vinificati con una leggera “disidratazione”; maturano per tre anni in tonneau, e il vino, una volta in bottiglia, potrebbe restare a evolvere non so per quanto tempo; sicuramente tanto.

Il groppello è sorprendente. Difficile da coltivare per la buccia fine, è delicato, e va trattato come il pinot nero, per Cristina “il principe dei vitigni”. “Trattiamo il groppello come il pinot nero”, mi dice, e forse questo è il segreto. Un groppello così elegante l’ho bevuto in poche occasione. L’estrazione è ammirevole, al palato piccole note di frutta rossa senza eccedere, senza rendere il tutto sgraziato, verde, allappante oppure stucchevole, grosso. Il finale leggermente speziato è ottimo. “Un piccolo pinot nero”, dice Cristina; “un grande groppello”, penso io.

Dulcis in fundo, il sole in una giornata di sole: Il Sole di Dario è un nettare uscito chissà da dove, ma che non ci penso poi troppo, perché preferisco berlo e goderne l’essenza. Dedicato a una persona cara che ormai non è più, è composto da sauvignon, semillon e una parte di riesling, appassimento e tutta una produzione estremamente curata e particolare. Il Sole, sotto il sole di Bedizzole.

DP

UN ROSA, È UN ROSA, È UN ROSA… VALTENESI

Che meravigliosa visione! Mi emoziono sempre quando mi trovo di fronte a una bottiglia di vino rosa (inciso: si chiama “rosa”, e non “rosato” (participio passato del verbo “rosare”), molto deprimente, o ancora peggio  “rosé”, termine francesizzante e quindi ancora più deprimente. A prescindere dalla sfumatura, il rosa è avvenente, tenero, suadente; esprime femminilità e trasmette una dolce gioia.

In particolare, questo della cantina Cantrina, azienda di Bedizzole (BS), è un rosa molto semplice, come appena fiorito, flebilissimo, un carminio acquerellato. Annuncia in qualche modo i profumi appena soffusi di piccoli frutti rossi in via di maturazione, lente note di fiorellini freschi e abbraccia dei sentori molto evanescenti che mi sfiorano brevemente.  Si tratta di un Valtenesi rosa, prodotto solamente con uve groppello. Sei ore di macerazione sulle bucce: il giusto per ottenere un vino delicatissimo (il troppo storpia sempre e storpia ovunque). Un vino senza pretese esagerate, di piacevole beva, e quindi da potersi bere sempre o comunque; grazie alla bella acidità e al corpo snello seppur pieno, si accompagna bene a un tagliere misto in amicizia, o con un piatto di pasta non troppo esagerato, ma anche a una raffinata cena di pesce. Un vino semplicissimo, eppure dotato di una grande versatilità. Inoltre è un vino che mi sta molto simpatico, sia perché ha il tappo a vite (scelta coraggiosa, almeno ai tempi, per un’azienda dell’entroterra bresciano e che vende soprattutto in Italia) sia per le etichette artisticamente accattivanti.

L’etichetta.

Necessariamente debbo prendermi del tempo per scrivere almeno qualche parola sull’etichetta del Valtenesi di Cantrina. Cristina Inganni, co-proprietaria insieme a Diego, ha una formazione artistica alle spalle, e lo si vede dalla qualità grafica delle sue etichette. È lei infatti che le pensa e le disegna, in particolare per il Rosanoire, per il Valtenesi e per il Corteccio. Possono rappresentare fenomeni che si evolvono nel tempo (il sole che cala) oppure la bellezza armonica di una rosa (il nostro caso), in ogni caso con uno stile stilizzato, arcaizzante, entro una logica rapsodica in caselle, semplice e didascalica; il tutto arricchito con decorativismo grafico (come linee ondulate o righette). Le etichette di Inganni mi ricordano un po’ il grafismo di Paul Klee. Nel grafismo di Klee Renato Barilli scorge un influsso dei graffiti rupestri, e costituisce un “motivo decorativo, ossessivo e cullante” (L’arte contemporanea, Feltrinelli, 1984). Un dialogo a distanza di circa un secolo, così come ho ardito a esporre con le immagini, può avere il suo perché.

Nell’etichetta Valtensi, infine, si scorgono i versi “A rose, is a rose, is a rose”, un’evidente citazione di Gertrude Stein, grande poetessa e personaggio di cultura di inizio Novecento. In fondo lo stesso si può bene dirlo per il galantevino gardesano: Un rosa, è un rosa, è un rosa…

DP