UN ROSA, È UN ROSA, È UN ROSA… VALTENESI

Che meravigliosa visione! Mi emoziono sempre quando mi trovo di fronte a una bottiglia di vino rosa (inciso: si chiama “rosa”, e non “rosato” (participio passato del verbo “rosare”), molto deprimente, o ancora peggio  “rosé”, termine francesizzante e quindi ancora più deprimente. A prescindere dalla sfumatura, il rosa è avvenente, tenero, suadente; esprime femminilità e trasmette una dolce gioia.

In particolare, questo della cantina Cantrina, azienda di Bedizzole (BS), è un rosa molto semplice, come appena fiorito, flebilissimo, un carminio acquerellato. Annuncia in qualche modo i profumi appena soffusi di piccoli frutti rossi in via di maturazione, lente note di fiorellini freschi e abbraccia dei sentori molto evanescenti che mi sfiorano brevemente.  Si tratta di un Valtenesi rosa, prodotto solamente con uve groppello. Sei ore di macerazione sulle bucce: il giusto per ottenere un vino delicatissimo (il troppo storpia sempre e storpia ovunque). Un vino senza pretese esagerate, di piacevole beva, e quindi da potersi bere sempre o comunque; grazie alla bella acidità e al corpo snello seppur pieno, si accompagna bene a un tagliere misto in amicizia, o con un piatto di pasta non troppo esagerato, ma anche a una raffinata cena di pesce. Un vino semplicissimo, eppure dotato di una grande versatilità. Inoltre è un vino che mi sta molto simpatico, sia perché ha il tappo a vite (scelta coraggiosa, almeno ai tempi, per un’azienda dell’entroterra bresciano e che vende soprattutto in Italia) sia per le etichette artisticamente accattivanti.

L’etichetta.

Necessariamente debbo prendermi del tempo per scrivere almeno qualche parola sull’etichetta del Valtenesi di Cantrina. Cristina Inganni, co-proprietaria insieme a Diego, ha una formazione artistica alle spalle, e lo si vede dalla qualità grafica delle sue etichette. È lei infatti che le pensa e le disegna, in particolare per il Rosanoire, per il Valtenesi e per il Corteccio. Possono rappresentare fenomeni che si evolvono nel tempo (il sole che cala) oppure la bellezza armonica di una rosa (il nostro caso), in ogni caso con uno stile stilizzato, arcaizzante, entro una logica rapsodica in caselle, semplice e didascalica; il tutto arricchito con decorativismo grafico (come linee ondulate o righette). Le etichette di Inganni mi ricordano un po’ il grafismo di Paul Klee. Nel grafismo di Klee Renato Barilli scorge un influsso dei graffiti rupestri, e costituisce un “motivo decorativo, ossessivo e cullante” (L’arte contemporanea, Feltrinelli, 1984). Un dialogo a distanza di circa un secolo, così come ho ardito a esporre con le immagini, può avere il suo perché.

Nell’etichetta Valtensi, infine, si scorgono i versi “A rose, is a rose, is a rose”, un’evidente citazione di Gertrude Stein, grande poetessa e personaggio di cultura di inizio Novecento. In fondo lo stesso si può bene dirlo per il galantevino gardesano: Un rosa, è un rosa, è un rosa…

DP

MAJOLINI: TRA ARTE E VINO ALLA RICERCA DELLA BELLEZZA ASSOLUTA

Non credo sia costruito, o per meglio dire, artefatto, quell’insieme di opere d’arte contemporanea che dialogano all’interno della tenuta di Majolini, a Ome in Franciacorta. No, non è per ostentare un’immagine precostituita di sé o dell’azienda che Simone Majolini, attuale proprietario, ha fatto installare commissionandole numerosissime opere di artisti riconosciuti e importanti (e ovviamente come tali adeguatamente quotati). L’impulso alla creatività, la fantasia produttiva, la continua, evanescente e donchisciottesca  ricerca alla bellezza assoluta non è solo dichiarata, ma anche evidente. Evidente nella scelta delle opere, nel loro rapporto con la cantina e, non ultimo, la qualità altissima dei vini prodotti.

L’arrivo alla cantina per me è già grande motivo di stupore: nella Franciacorta che sono abituato a conoscere e normalmente frequento il piccolissimo e – senza esagerare – vetusto paesino di Ome rappresenta un’eccezione. Per arrivare da Majolini ci si deve inoltrare nelle stradine di questo dove alla fine, salendo verso la collina, ci si imbatte in un cancello piuttosto austero. L’azienda sta lì sopra, al centro di un bellissimo anfiteatro che guarda verso sud; l’edificio è di forma allungata, praticamente nuovo ma studiato affinché si sposi al meglio col paesaggio circostante: un grande investimento per un grandissimo risultato.

La cantina è costeggiata, a monte, da muretti a secco sui cui terrazzamenti son coltivati ulivi, mentre verso valle prendono piede alcuni vigneti di proprietà. Due enormi opere d’arte mi accolgono non appena scendo dalla macchina; lì per lì do un’occhiata di sfuggita, con una curiosità mista a sorpresa (e a sete: sono pur arrivato lì per bere), poi però mi viene incontro Simone, il quale dopo essersi presentato mi fa da Cicerone. L’azienda Majolini,  mi spiega, fa perno sul concetto riassunto in  “3A”, ossia Architettura, Ambiente (cioè sostenibilità, come la raccolta delle acque piovane, etc.) e Arte. Le opere esposte all’esterno sono: la prima una passionale e carnale unione armonica di due cavalli, tutte e due rampanti e sguardo fisso verso il cielo, verso l’eterno (si chiama infatti Cavalli innamorati, e l’artista è Aligi Sassu); mentre il secondo più vicino all’ingresso è la coda di un capidoglio (in scala 1:1?) realizzata con una particolarissima e difficile tecnica da Mattia Trotta. Il Moby Dick (questo è il nome dell’opera) rappresenta per Simone il simbolo del sogno irraggiungibile, ovvero, ammette, creare un vino perfetto.

La solita aurea di austerità la si avverte entrando all’interno della cantina stessa, nel cui ingresso sono incise, esternamente, le parole SIC ITUR AD ASTRA, che significa “attraverso le asperità sino alle stelle”; una frase che si trova nell’Eneide di Virgilio. Ogni stanza da Majolini ha un tema specifico, e dunque un nome proprio. La prima si chiama “stanza dell’essenza”: essenza è il territorio, il suolo, la roccia su cui la vite alligna. Un suolo molto calcareo in grado di conformare vini minerali, salini e molto longevi. In dialogo con la roccia (letteralmente a vista) ci sono due artisti, Giuseppe Bergomi con una installazione, e la fotografa Enrica Senini, i cui ritratti hanno una valenza significativa: attraverso il viso e gli occhi di una persona si scopre il vissuto e grazie a questo è possibile coglierne l’essenza (appunto).

Il dolce e ricercato connubio tra arte e vino continua attraverso le altre stanze. Dopo quella dell’“essenza” entriamo nella stanza della vinificazione, dell’acciaio, in cui il materiale brilla, riflette, scintilla; si susseguono poi le due stanze “della trasformazione”, ovvero della maturazione e  evoluzione del vino, divise in due dalla stanza “dei sogni”, decisamente la più eccentrica e variegata per opere d’arte. In questa oltretutto, non solo si conferma l’ambizione artistica di Simone, ma si scopre addirittura il suo amore per la moda: bottiglie vestite come manichini, anzi come modelli e modelle in carne e ossa, abiti pazzeschi e a quanto pare tutti griffati da professionisti. Il tutto squisitamente pomposo, deliziosamente dannunziano.

Non a caso in una teca è presente la bottiglia dedicata al Vate e alla sua vita (il vino prodotto è anche in commercio, col nome “Disobbedisco”, in riferimento alla presa di Fiume. Altre, tantissime e diverse opere sono sistemate in questa stanza; notevole, a mio avviso, e come potrebbe essere altrimenti, è il dadaista Spegni la sete, una bottiglia in forma di estintore con tanto di capsula annessa (all’interno c’è realmente del vino). Mi confermano la mia intuizione, cioè la forte ispirazione a D’Annunzio e al dannunzianesimo dell’intera tenuta, le parole dello stesso Simone, il quale ammette la funzione “prettamente estetica” della sua collezione. Anche se, aggiunge senza troppo sottolineare, parte del ricavo frutto di alcune vendite è andato in beneficenza.

La degustazione.

Nemmeno a dirlo, la degustazione avviene in una sala elegantemente arredata. Poche, purtroppo, le bottiglie assaggiate, e tutte delle nuove annate. Mi colpisce la variegata gamma cromatiche delle etichette, la cui ispirazione viene dalla bellezza quotidiana, ovvio: il nero dalle antiche imbarcazioni veneziane; il turchese-Tiffany dai sedili dei motoscafi Riva, etc. I colori sono netti e accesi, forse per evidenziare una ricerca estenuante a un bello che sia da far vedere con forza, aggressivamente, anche a chi del bello non si accorge o non si interessa.

La qualità del vino a mio parere è molto alta; raramente in Franciacorta ho bevuto vini così salini, minerali e contraddistinti da una così singolari acidità. Sono freschi e lunghi, eccentrici e… sì, molto dannunziani. L’impressione è che corrispondano a ciò che ho potuto vedere percorrendo l’interno della cantina: un vino incisivo, forse anche più delle opere insieme alle quali, nella penombra della cantina, cresce.

DP