MAJOLINI: TRA ARTE E VINO ALLA RICERCA DELLA BELLEZZA ASSOLUTA

Non credo sia costruito, o per meglio dire, artefatto, quell’insieme di opere d’arte contemporanea che dialogano all’interno della tenuta di Majolini, a Ome in Franciacorta. No, non è per ostentare un’immagine precostituita di sé o dell’azienda che Simone Majolini, attuale proprietario, ha fatto installare commissionandole numerosissime opere di artisti riconosciuti e importanti (e ovviamente come tali adeguatamente quotati). L’impulso alla creatività, la fantasia produttiva, la continua, evanescente e donchisciottesca  ricerca alla bellezza assoluta non è solo dichiarata, ma anche evidente. Evidente nella scelta delle opere, nel loro rapporto con la cantina e, non ultimo, la qualità altissima dei vini prodotti.

L’arrivo alla cantina per me è già grande motivo di stupore: nella Franciacorta che sono abituato a conoscere e normalmente frequento il piccolissimo e – senza esagerare – vetusto paesino di Ome rappresenta un’eccezione. Per arrivare da Majolini ci si deve inoltrare nelle stradine di questo dove alla fine, salendo verso la collina, ci si imbatte in un cancello piuttosto austero. L’azienda sta lì sopra, al centro di un bellissimo anfiteatro che guarda verso sud; l’edificio è di forma allungata, praticamente nuovo ma studiato affinché si sposi al meglio col paesaggio circostante: un grande investimento per un grandissimo risultato.

La cantina è costeggiata, a monte, da muretti a secco sui cui terrazzamenti son coltivati ulivi, mentre verso valle prendono piede alcuni vigneti di proprietà. Due enormi opere d’arte mi accolgono non appena scendo dalla macchina; lì per lì do un’occhiata di sfuggita, con una curiosità mista a sorpresa (e a sete: sono pur arrivato lì per bere), poi però mi viene incontro Simone, il quale dopo essersi presentato mi fa da Cicerone. L’azienda Majolini,  mi spiega, fa perno sul concetto riassunto in  “3A”, ossia Architettura, Ambiente (cioè sostenibilità, come la raccolta delle acque piovane, etc.) e Arte. Le opere esposte all’esterno sono: la prima una passionale e carnale unione armonica di due cavalli, tutte e due rampanti e sguardo fisso verso il cielo, verso l’eterno (si chiama infatti Cavalli innamorati, e l’artista è Aligi Sassu); mentre il secondo più vicino all’ingresso è la coda di un capidoglio (in scala 1:1?) realizzata con una particolarissima e difficile tecnica da Mattia Trotta. Il Moby Dick (questo è il nome dell’opera) rappresenta per Simone il simbolo del sogno irraggiungibile, ovvero, ammette, creare un vino perfetto.

La solita aurea di austerità la si avverte entrando all’interno della cantina stessa, nel cui ingresso sono incise, esternamente, le parole SIC ITUR AD ASTRA, che significa “attraverso le asperità sino alle stelle”; una frase che si trova nell’Eneide di Virgilio. Ogni stanza da Majolini ha un tema specifico, e dunque un nome proprio. La prima si chiama “stanza dell’essenza”: essenza è il territorio, il suolo, la roccia su cui la vite alligna. Un suolo molto calcareo in grado di conformare vini minerali, salini e molto longevi. In dialogo con la roccia (letteralmente a vista) ci sono due artisti, Giuseppe Bergomi con una installazione, e la fotografa Enrica Senini, i cui ritratti hanno una valenza significativa: attraverso il viso e gli occhi di una persona si scopre il vissuto e grazie a questo è possibile coglierne l’essenza (appunto).

Il dolce e ricercato connubio tra arte e vino continua attraverso le altre stanze. Dopo quella dell’“essenza” entriamo nella stanza della vinificazione, dell’acciaio, in cui il materiale brilla, riflette, scintilla; si susseguono poi le due stanze “della trasformazione”, ovvero della maturazione e  evoluzione del vino, divise in due dalla stanza “dei sogni”, decisamente la più eccentrica e variegata per opere d’arte. In questa oltretutto, non solo si conferma l’ambizione artistica di Simone, ma si scopre addirittura il suo amore per la moda: bottiglie vestite come manichini, anzi come modelli e modelle in carne e ossa, abiti pazzeschi e a quanto pare tutti griffati da professionisti. Il tutto squisitamente pomposo, deliziosamente dannunziano.

Non a caso in una teca è presente la bottiglia dedicata al Vate e alla sua vita (il vino prodotto è anche in commercio, col nome “Disobbedisco”, in riferimento alla presa di Fiume. Altre, tantissime e diverse opere sono sistemate in questa stanza; notevole, a mio avviso, e come potrebbe essere altrimenti, è il dadaista Spegni la sete, una bottiglia in forma di estintore con tanto di capsula annessa (all’interno c’è realmente del vino). Mi confermano la mia intuizione, cioè la forte ispirazione a D’Annunzio e al dannunzianesimo dell’intera tenuta, le parole dello stesso Simone, il quale ammette la funzione “prettamente estetica” della sua collezione. Anche se, aggiunge senza troppo sottolineare, parte del ricavo frutto di alcune vendite è andato in beneficenza.

La degustazione.

Nemmeno a dirlo, la degustazione avviene in una sala elegantemente arredata. Poche, purtroppo, le bottiglie assaggiate, e tutte delle nuove annate. Mi colpisce la variegata gamma cromatiche delle etichette, la cui ispirazione viene dalla bellezza quotidiana, ovvio: il nero dalle antiche imbarcazioni veneziane; il turchese-Tiffany dai sedili dei motoscafi Riva, etc. I colori sono netti e accesi, forse per evidenziare una ricerca estenuante a un bello che sia da far vedere con forza, aggressivamente, anche a chi del bello non si accorge o non si interessa.

La qualità del vino a mio parere è molto alta; raramente in Franciacorta ho bevuto vini così salini, minerali e contraddistinti da una così singolari acidità. Sono freschi e lunghi, eccentrici e… sì, molto dannunziani. L’impressione è che corrispondano a ciò che ho potuto vedere percorrendo l’interno della cantina: un vino incisivo, forse anche più delle opere insieme alle quali, nella penombra della cantina, cresce.

DP

I FRANCIACORTA DISTINTI E NOBILIARI DEI RICCI-CURBASTRO

Ho bevuto per la prima volta un Franciacorta Ricci-Curbastro circa quattro anni fa. Era un brut, e lo ricordo di spessore, dai profumi intensi, quelli che in gergo chiamano “crosta di pane” e variano – oscillando – da sentori di lieviti a più croccanti di nocciola tostata; il tutto, così almeno pare alla mia memoria, senza prevaricare la finezza delle bollicine e la sottigliezza dell’insieme. Lo ricordo, quel brut, tra l’ampia gamma dei Franciacorta, come un vino notevolmente distinto.

Sono tornato a trovare i Ricci-Curbastro di recente, e ricordavo bene: un vino distinto, anzi, nobiliare. Le impressioni che serbavo si sono rivelate autentiche, e combaciavano addirittura col vago ricordo che mi fece l’ambiente, ossia la cantina e il luogo circostante a quest’ultima. La sede, infatti, è una grande proprietà a Capriolo perimetrata da un alto muro (i muri non separano come dice la vulgata del politicamente corretto ma, come insegnano i grandi teorici rinascimentali, e vedasi la Sforzinda di Filarete, sono sinonimo di protezione e sicurezza), in cui si accede da un cancello massiccio. Si è accolti in una specie di locus amoenus, non comune ma nemmeno troppo raro nel territorio franciacortino, fatto di acciottolato, enormi pini e verzura rampicante e sparsa. Si ha l’idea, una volta “varcata” la soglia, di un luogo ombreggiato e tacito, adatto sicuramente al terribile caldo bresciano (io son gardesano e l’estate sto bene dove sono).

Do un occhio al sito dell’azienda (https://www.riccicurbastro.it/), così per prepararmi prima della visita, e di primo acchito mi sta simpatica, le prime parole di presentazione sono “tradizione, storia, cultura”, segno di conservatorismo, poi però scorgo più sotto addirittura una sezione dedicata al “sostenibile” e al “biologico” e mi sta simpatica un po’ meno, ma indice comunque che se si vuol vendere questa è la direzione; inutile prendersela, la fogliolina verde sarà sempre più necessaria (magari accostata al nuovo messaggio di “consumo responsabile” proposto dai folli di Bruxelles, https://www.ilsole24ore.com/art/vino-penalizzato-nuovi-messaggi-anti-alcol-etichette-proposti-ue-AD9f7YHB?refresh_ce=1). Eppoi questo è uno spazio edonistico, devo parlare di piaceri.

I Ricci-Curbastro sono una famiglia di origine nobile ravennate (dove pure possiedono ettari vitati e un’azienda, Rontana). Fu Gualberto R.C., che diede lo slancio effettivo alla azienda agricola, tra i primi undici produttori a aderire alla neonata DOC Franciacorta nel 1967 (oggi DOCG), e dedicandosi interamente a partire dal 1969. Gli ettari vitati sono circa 27,5, distribuiti nei pressi della cantina a Capriolo, ma anche Iseo e Clusane. Oltre ovviamente a chardonnay e pinot nero, l’azienda coltiva soprattutto pinot bianco, circa il 25% del totale. Questo per me è una grande sorpresa e rappresenta la particolarità, il segno distintivo dei Franciacorta dei Ricci-Curbastro. Una piccola parte invece, circa 0,2 ettari, sono coltivati con i Piwi, le varietà resistenti alle malattie funginee.

L’azienda a oggi è gestita da Riccardo Ricci-Curbastro e suo figlio Gualberto (omonimo del nonno), il quale mi riceve, insieme al fratello Filippo, con cordialità tra i pezzi unici di antica utensileria vitivinicola (l’azienda è proprietaria anche di un museo ricchissimo, con oltre migliaia di oggetti che testimoniano il lavoro agricolo del passato). Sono questi ultimi due (studi di economia il primo, enologia il secondo) che ci accompagnano in una vastissima e approfondita degustazione, terminata con la visita alla cantina sottostante, dove noto con molto gaudio crocifissi appesi, affiancati a targhette commemorative, dedicate ai lavoratori defunti che in azienda hanno prestato servizio.

La degustazione.

Brut. Eh sì: lo ricordavo proprio bene. Sarebbe quella che comunemente chiamano “base” o “entry level”, ma già la struttura e al contempo la delicatezza sono una prolessi a ciò che si assaggerà, e rappresentano una chiara impronta dell’azienda. Vino dotato di una avvenenza non comune per i brut. La presenza sostanziale del pinot bianco (30%, mentre chardonnay 60% e pinot nero 10%) è quindi una scelta che convince. Almeno per quel che mi riguarda. 30 mesi circa di affinamento, lo vedo bene per un aperitivo (in dolce compagnia, è chiaro).

Satèn. Ovviamente solo chardonnay, e affinamento sui lieviti oltre i 40 mesi. Il colore è accattivante; già lo pregusto guardandolo e immagino la reazione del palato. Infatti non delude. Un giallo intenso per una cremosità avvolgente; le note di crosta di pane si fanno più marcate e preannunciano all’extra brut. Corposo per essere un satèn, epperò morbidissimo.

Extra brut. Note tostate per un vino tosto. Il pinot nero è significativo (50%, chardonnay 50%), sempre 40 mesi di affinamento sui lieviti, ma un vino molto più secco e per bevitori più esigenti.

Gualberto. È il dosaggio zero dell’azienda; forse il più fine, il più sottile e gentilesco della batteria. L’acidità è spiccata – e l’azienda lavora con basse acidità –  il sorso si allunga. 7 anni di affinamento sui lieviti e pinot nero presente quasi per ¾.  Decisamente un vino da pasto.

Museum Release – satèn e Museum Release – extra brut. I miei preferiti di casa Ricci-Curbastro, nessun dubbio. Posseggo ancora nella mia cantina personale (e molto personalizzata) una o due bottiglie di extra brut 2007, a cui sono particolarmente affezionato. Per l’occasione comunque mi hanno fatto assaggiare un 2009. Che dire? Parlo di un vino (extra brut nello specifico) che prima di uscire in commercio attende maturando e evolvendo dai 9 ai 12 anni; almeno 8 di affinamento sui lieviti. Le varietà presenti sono eguali ai vini “base”, dunque è la maturazione la forza di questi Museum Realese. Vino complessissimo, di un ventaglio di profumi pazzesco, da nocciola tostata alla crema pasticcera. In bocca è cremoso, pieno, avvolgente, dalla bollicina che accarezza il palato.

Rosé brut. Pinot nero 80% e restante chardonnay. Un vino suadente sì, ma anche un po’ scialbo. Un rosé poco incisivo, anche se morbidissimo.

Bianco zero trattamenti. Vino prodotto con blend di uve resistenti, alias Piwi (i cui nomi grotteschi, che copio e incollo ovviamente, sono: branner, helios, johanniter e solaris). Il vino più fresco forse della gamma, con note soprattutto (anzi solo) fruttate, di mela. Ecco, un vino molto meloso.

Curtefranca doc bianco. Da chardonnay e pinot bianco; interessante come aperitivo, escluderei al pasto.

Vigna Bosco Alto. Chardonnay 100% maturato in barrique da 225 l per un anno. Vino largo, la cui evoluzione in legno è evidente. Lo vedo bene con un piatto di linguine al ragù di lago (mi stava venendo fame a questo punto della degustazione).

Vigna Santella del Gröm. Blend di varietà rossa internazionali (bordolesi) con barbera (è la prima volta che sento pronunciare barbera in Franciacorta), il tutto maturato in barrique per 18 mesi e affinato in bottiglia per un anno.

Demi sec. Un vino snobbato da tutti e da pochi bevuto, quindi da me preso in gran considerazione e molto bevuto. Pinot nero 80%, restante chardonnay, in bocca non direi dolce, ma piuttosto amabile. È comunque dotato di acidità gradevole, il che da slancio al corpo robusto del vino. Ricci-Curbastro è rimasta una delle pochissime aziende che produce il demi sec in Franciacorta; speriamo resista.

DP