C’È UN’ARTE SILENZIOSA CHE RIPOSA NEGLI ALBI PER L’INFANZIA. UNA BREVE LISTA DEI MIEI PREFERITI

Leggo gli albi per l’infanzia non tanto per rimaner bambino, piuttosto perché l’arte che si cela e allo stesso tempo si rivela all’interno di essi mi soddisfa molto meglio che certa contemporay art, o presunta tale, che viene propagandata dalle riviste di settore odierne.

Negli albi è presente una mirabile armonia tra design, letteratura, illustrazione, fantasia, richiami alla storia dell’arte e al contempo alla vita attuale; con un linguaggio semplice e estremamente immediato, i migliori autori del genere ci presentano – illuminandoci – concetti complessissimi, dai quali filosofi e professoroni hanno riempito volumi interi senza cavarne un ragno dal buco.

“Come una scatola nera, il libro dell’infanzia si impregna di memoria olfattiva, visiva e tattile ma soprattutto relazionale, di atmosfera, nel segreto incontro solitario o più spesso condiviso, appagante o sfuggente ma raramente poco significativo” – scrive Marcella Terrusi, in un libro fondamentale per gli amanti e gli studiosi dell’argomento (Albi illustrati, Carocci editore, 2012).

Gli albi per l’infanzia servono, tra le altre cose, per educare allo sguardo i più piccoli, e a fargli scoprire un passo alla volta il mondo in cui vivono attraverso metafore. È una continua sorpresa, pagina dopo pagina, albo dopo albo. Scrive la stessa Terrusi: “nello stupore e nella meraviglia per ogni scintilla creativa che spinge a seguire il desiderio della scoperta, nascono da questo territorio nuove narrazioni del mondo, ipotesi conoscitive, strade e immagini per il nostro esercizio di senso […].”

Gli albi sono un luogo incantato dove si celebra la libertà espressiva, aperti a ogni possibile interpretazione, e – non per ultimo – spazio per “la sperimentazione dell’‘ideale estetico’ volto a smascherare le diverse forme di abbruttimento della nostra società e le sue degenerazioni, tra cui la reificazione della fantasia e i sottili meccanismi di alienazione collettiva.”

Gli autori degli albi sono artisti di talento, geni adulti che hanno saputo conservare la gioia infantile, lucidi analisti che trasformano la realtà in immaginazione con un tocco, comunicandola, anzi trasportandola attraverso simboli ai bambini. “Comunicare per simboli non è meno importante che comunicare per parole. Qualche volta è il solo modo di comunicare con il bambino”, ha scritto anni fa Gianni Rodari (Grammatica della fantasia, 1973).

In sostanza è un tripudio di bellezza e di estetica, da cui io non sono esente. Tra i numerosi albi che mi hanno colpito (ne ho letti molti) mi limito di seguito a elencarne solo qualcuno, non necessariamente dei più significativi.

Iela ed Enzo Mari, La mela e la farfalla, Emme edizioni

Enzo Mari è stato uno dei più formidabili designer italiani del secondo Novecento; e questo libricino, scritto insieme alla moglie Iela, ne è la prova. Grande essenzialità, pulizia e immediatezza: qualche sagoma netta e dai colori squillanti, pieni e monocromi (pare acheropiti, ossia non toccati di mano d’uomo) composti in una sequenza narrativa breve quanto intensa, bastano a raccontare la storia di un piccolo bruco che diventa farfalla. Il luogo in cui è ambientata la storia è un albero di mela, l’accenno di qualche ramo e il profilo di una mela sono sufficienti a aprire nella mente un mondo intero. Tale è il design; e tale la maestria dei Mari che con il niente trasmettono il tutto.

Leo Lionni, Piccolo blu e piccolo giallo, Babalibri

Se la genialità la si riconosce dai gesti estremamente piccoli, Leo Lionni è sicuramente una delle persone più intelligenti del Novecento insieme a Duchamp e Piero Manzoni. In questo libro, pervaso da una grazia mirabile, composto da poche macchie di colore si succede la storia di due amici (blu e giallo). Dapprima tristi perché lasciati soli in casa dai genitori, si trovano poi a giocare di nascosto. Le felicità e il coinvolgimento è tale che i due si fondono (trasformandosi in verde!). Il divertimento infantile è il tema dell’albo di Lionni, insieme a una prima educazione al mondo dei colori.

Eric Carle, Il piccolo Bruco Maisazio, Mondadori

Eric Carle è una leggenda dell’illustrazione per l’infanzia. Morto a 91 anni nel maggio del 2021, ha lasciato al mondo una numerosa serie di capolavori, di cui segnalo la sua opera forse più famosa, Il piccolo Bruco Maisazio. È la vicenda di un piccolo bruco che mangia in continuazione, inconsapevole che quella fame impossibile da soddisfare rappresenta i prodromi della trasformazione in farfalla. Una chiara metafora della trasformazione dell’infante in adolescente.

Anna Llenas, I colori delle emozioni, Gribaudo

Un albo che è una sorpresa dopo l’altra; stupisce di continuo e continuamente attrae per la bellezza delle immagini. Anna llenas è una artista che nelle sue illustrazioni unisce più tecniche e più materiali, in un armonioso equilibrio. E colore, tanto colore, utilizzato in modo mirabile. Ogni pagina è dedicata a un colore, o meglio alle infinite sfumature di un determinato colore, e associato a una emozione. Un albo che si continuerebbe a sfogliare e risfogliare.

S. Donnia e D. de Monfreid, Mangerei volentieri un bambino, Babalibri

Un libro simpatico e divertente, ambientato in un luogo esotico. Un piccolo coccodrillo, icona del bambino viziato, si fissa di voler mangiare un bambino vero e proprio; i genitori lo invitano prima a crescere e mangiare cose più adatte alla sua età, ma il piccolo non ne vuole sapere. Così quando si trova di fronte a una bambina vera e propria, lui ancora troppo piccolo, finisce per essere trattato come un pupazzo. Dopo la figura ridicola fatta torna vergognandosi dalla famiglia, deciso a ascoltare i genitori per crescere e diventare grande come loro.

Eric Battut, La piccola nuvola bianca, Bohem

Questo libro di Eric Battut è un capolavoro dell’illustrazione. Ambientata in un cielo infuocato, dall’atmosfera vibrante e agitata, fatta di grandi e mosse pennellate di colori caldi (rossi, arancioni, e gialli) è la storia di una piccola nuvoletta bianca che cerca, inseguendolo, di rasserenare l’animo di un grande nuvolone nero inferocito (il temporale), e far tornare il sereno. L’animo semplice e gioioso del bambino placa il nervosismo dell’adulto.

Alessandra Cimatoribus, Quasi farfalle, Fatatrac

Sono atmosfere magiche quelle rappresentate a pastelli da Alessandra Cimatoribus in questo albo. Si susseguono una serie di figure femminili, diversissime tra loro eppure tutte distinte e tutte fatate, circondate da un’aurea incantata. Sono madri, balie, maghe, sorelle,… Un sottile simbolismo permette di entrare in simbiosi con le protagoniste, ascoltare le loro carezzevoli voci e le evocative melodie dei loro nidi.

Chiara Carrer, Il grande ploff, Fabbri editori

Con questo albo sono seriamente in imbarazzo: è meglio l’illustrazione o la storia rappresentata? Tecniche di vario genere, colori, matite, ritagli di giornale, sfumature, schizzi, abbozzi, e altri espedienti artistici si uniscono per narrare una vicenda che di base ha un concetto molto semplice: la paura spesso è frutto di una cosa che non si conosce, e nella maggior parte dei casi si scopre sia una sciocchezza. Un libro da leggere, ma al contempo e soprattutto un albo illustrato da ammirare.                                                                                                          

Maurice Sendak, Nel paese dei mostri selvaggi, Babalibri

Un altro capolavoro internazionale. Maurice Sendak è mondialmente riconosciuto nell’ambiente degli albi illustrati e non solo. Mi limito a segnalare questo libro (che non a caso è stato editato anche da Adelphi) e a far notare, tra le altre cose, il delicato surrealismo che lo attraverso, il tema del sogno e dell’inconscio, e la bellezza della fantasia.

Nicoletta Costa, Autunno con la nuvola Olga, Emme edizioni

Chiudo questo elenco con una eccellenza tutta italiana. Nicoletta Costa è conosciuta dagli adulti, e ancora di più amata dai bambini. Per le sue storie facili e chiare, semplici e immediate, caratterizzate da un disegno molto netto, dai contorni marcati e dalle forme piene, insomma, grazie a un linguaggio artistico appetibilissimo dai più piccoli e da storie molto comprensibili Costa è apprezzata, anzi apprezzatissima. E la nuvola Olga orami una icona dell’illustrazione dell’infanzia di casa nostra.

DP

SGUARDI MAGNETICI DALLE PROFONDITÀ MARINE. LA MOSTRA PERSONALE DI MARTA SESANA ALLA GALLERIA MILANESE DIMORA ARTICA

Passeggio tranquillamente per le vie di un quartiere appena fuori dal centro di Milano, e d’improvviso mi ritrovo assalito da un ammasso di sguardi, pare allucinati, folli; e comunque intensi, penetranti, taglienti. Stavo cercando Dimora Artica, piccola galleria che quel giorno inaugurava la mostra personale di Marta Sesana, Bassa marea, curata dalla galleria stessa e Deborah Maggiolo (dal 25 ottobre e visitabile fino al 21 novembre 2021), e senza accorgermene ne sono inghiottito.

Quegli sguardi magnetici e difformi che mi hanno richiamato all’interno della piccola stanza (tant’è la galleria) non sono quelli delle numerose persone arrivate anch’esse per l’inaugurazione, ma provengono dalle opere di Sesana, dai suoi soggetti incastonati l’uno nell’altro che affollano le tele, dall’atmosfera claustrofobica, in una sorta di horror vacui oceanico, abissale. Del resto, il mondo marino è solo un «pretesto», come fa notare la curatrice Maggiolo.

Quelli di Sesana sono luoghi immaginifici, mondi, anzi universi oscuri in cui all’interno si muovono strani esseri antropomorfi, dalle sembianze marine ma dalle espressioni anche sin troppo umane; da queste si scorgono tristezza, rabbia, inquietudine, solitudine, vaghezza, sorpresa, spavento, sgomento. Tutto raccolto in un clima sospeso e atemporale, di una immobilità metafisica.

Sono visioni chiare, limpide; rappresentate con grande lucidità mediante un linguaggio pittorico sapiente e personale, immediatamente riconoscibile. Una pittura caratterizzata dalla plasticità delle forme, chiaroscuri netti e luce vibrante.

Ero a conoscenza del talento di Marta Sesana, brianzola e classe 1981. Sapevo della sua arte, già definita da Camillo Langone «liquida» (Eccellenti  Pittori, Marsilio, 2013), del «dono della profondità di campo», della caparbietà nell’utilizzo di olio e tempera; tutte cose che le permettono di guadagnarsi la definizione di «Maga della Tridimensione» dallo stesso Langone.

Ma ancora di più trovandosele di fronte, queste tele di Sesana appaiono di una profondità disarmante, tangibile mi spingo a dire. Figure che sembrano di pongo (le stesse dei suoi modellini in das da cui parte) si staccano con forza dalla superficie e a loro modo comunicano. La terza dimensione – ottenuta non direi per prospettiva albertiana ma grazie alla luce alla maniera fiamminga – è un’illusione che si ripete di opera in opera.

Sono tele dai colori accesi, la cui tavolozza, osa Langone, «non ha nulla da invidiare a quella del Tintoretto»; anche se, per la levigatezza e la nitidezza di certe figura rispetto allo sfondo, mi viene da associarla più a Lorenzo Lotto.

La mostra è una visione frammentaria, spezzettata, di uno stesso luogo: è come essere immersi metaforicamente negli abissi di qualche oceano immaginario e fantastico e i quadri rappresentano gli oblò da cui si scorge questa gamma di terrificanti e al contempo buffi esseri; e, allo stesso modo del professor Aronnax a bordo del Nautilus, restarne estasiati.

E forse non sarei stato in grado di allestirla meglio, l’esposizione. Semplice e immediata: quadri appesi su superfici bianchissime, senza cartellini, spiegazioni o altre inutili ninnoli deconcentranti. La luce poi, fredda tendente al blu – artica, appunto –, che normalmente mi infastidisce, in questo contesto valorizza esaltandone il contenuto; e, per questa volta, mi è pure piaciuta.

Damiano Perini

AMINA PEDRINOLLA ARTISTA-FANCIULLA. STRATI DI CARTA E DI MEMORIA PER UN RITORNO ALL’IO BAMBINO

Conosco Amina Pedrinolla in modo del tutto fortuito, grazie alla mostra collettiva Origini, segni, percorsi curata da Roberta Bonazza e svoltasi al Forte superiore di Nago (TN) dall’ 11 settembre al 3 ottobre. Una mostra molto essenziale, concentrata e nel complesso semplice ma, ammetto, dotata di una grande forza espressiva, in grado di attrarre persino una persona pigra e distratta come me.

Uno dei motivi che mi portano a visitare questa mostra è il Forte di Nago, un edificio austero, rigoroso e massiccio; ma al contempo uno dei luoghi più strategici e suggestivi dell’Alto Garda perché costruito su uno sperone di roccia a un altitudine di circa 200 metri, che permette una vista sbalorditiva sul lago.  

L’altro è la scelta eclettica delle opere esposte dei quattro artisti (di origine locale) che mi permette di guardare in una volta sola e tutte assieme forme espressive diverse, in sale gravi, severe (dal tono militare, appunto) ma che ben si addicono a un’esposizione artistica; anzi, è come se fossero capaci  di intensificare le facoltà contemplative.

La mia attenzione cade subito sull’allestimento, squisitamente chiaro, pulito, incoraggiante. Le prime opere che incontro sono gli oggetti di Maria Grazia Staffieri,  posti di fronte come in una sorta di dialettica a quelli di Nicola Manfrini. Le forme sinuose e ireniche della prima combattono scherzosamente con quelle più nervose e aguzze del secondo, inquietanti aculei e minacciosi spuntoni.

Sono rapito poi dalla sala più estrema per via delle sculture lignee di Maurizio Lutterotti, pure illusioni pareidolitiche per le quali, in luogo di informi pezzi di ulivo vedo San Giuseppe, Cristi crocifissi e, soprattutto, una incredibile Maria Maddalena straziata dal dolore, che mi riporta a Bologna, davanti al Compianto di Nicolò dell’Arca.

Tra tutte queste opere, in uno spazio poco più ampio, respirano e si mostrano in pacata libertà i quadri di Amina Pedrinolla. Appoggiati a terra piuttosto che stesi su tavolini o appesi al muro, queste opere esprimono due stati d’animo opposti allo stesso tempo. Da una parte mi rasserenano e in un certo modo rassicurano, vedo gioia e armonia; dall’altra mi inquietano. Perché?

Mentre guardo più da vicino uno di quei quadretti mi si avvicina una signora che piano piano, quasi timidamente, prima si presenta e poi, incalzando, con una voce così soave e un linguaggio così fluido che non smetteresti di ascoltarla, si racconta. Lei è l’artista in questione, è lei Amina che leggo sul cartellino.

Mi parla dei suoi studi di architettura, del suo passato lavorativo nei circuiti museali, tutte cose ritrovo nei lavori che ho di fronte, e della recente professione di artista a tempo pieno. Col tempo, in particolare negli ultimi due anni, è riuscita a convalidare una particolare tecnica espressiva che unisce il collage al pennello, il ritaglio all’illustrazione, il disegno con squadra e riga alle sfumature indefinite del colore; il figurativo al materico.

Il progetto di Amina Pedrinolla per la libreria Piccoloblu di Rovereto (fonte: @libreria.piccoloblu)

Mi parla di “strati della memoria”, alludendo a quelle forme bidimensionali create grazie alla sovrapposizione di diversi ritagli di carta, ognuna delle quali possiede un ricordo, ossia rappresentano memorie di persone, date, luoghi, affetti. In altri termini sono pezzetti di vita passata fissati insieme per vivere continuamente nel presente.

È una ricerca continua a ritroso verso la fanciullezza, verso un Io-Bambino con il tempo dimenticato ma non demolito; verso colori e immagini di tanti anni fa, offuscati e ingrigiti, ma non dimenticati né perduti completamente.

Due sono i temi che l’artista propone in mostra. L’uno ha a che fare con l’intimità della casa, intesa come luogo abitativo (guardo i quadri di Pedrinolla e mi sembra di leggere Emanuele Coccia: “Una casa è un’intensità che cambia il nostro modo d’essere e quello di tutto ciò che fa parte del suo cerchio magico”, Filosofia della Casa, Einaudi, 2021), sia come pretesto, simbolo di convenzioni recepite solo dall’uomo adulto (la progettazione, lo schema, il blocco, il limite), concepite con la rigidità della riga perfetta; da far esplodere in colori e sfumature, creatività e immaginazione, illimitate per definizione.

Scatto dall’esposizione di Nago (fonte: @amina.memoriamateria)

L’altro soggetto, trattato con maggior attenzione e serietà, pur conservando una straordinaria tecnica artistica ludica e creativa, gioiosa e armonica (qui il contrasto, lo stesso effetto di spaesamento che provoca il David Lynch più inquietante, e penso a Rabbits, e a quell’atmosfera opprimente accompagnata da risate forzate da talk televisivi) è quella della donna indifesa, “violata” come mi dice l’artista stessa. Infatti i soggetti rappresentati sono ragazze (o bambine, o donne, non saprei, ma non credo cambi, quella rappresentata è la natura femminile) disegnate con tratto nervoso; e che non sono le modelle di Balthus né le ballerine di Degas, piuttosto la Marcella di Kirchner o che so, i ritratti di Tracey Emin o, in altra ottica, di Vanessa Beecroft.

Fotogramma da Rabbits di David Lynch

Ma questi corpi non hanno volto, sono rappresentati di schiena, oppure, se anche ci guardano, sono coperti da una maschera. Una maschera che l’artista mi dice di lupo, la cui ispirazione è dovuta a una vera e propria maschera simile a lei appartenuta; ma che mi ricordano con molto più disagio quelle dei personaggi di Lynch.

È solo un attimo, un piccolo istante di spaesamento; un gioco sottile che è tipico dell’arte, di tutte le arti, che solo l’artista compiuto riesce a evocare. Vedo poi una bella serie di puttini dipinti con tratto veloce e dalla sprezzatura notevole, e che mi riportano in un mondo più semplice, festoso, gaudioso.

DP

KIM DUPOND HOLDT AL PHOTOFESTIVAL 2021: BENE IL FOTOGRAFO DANESE, DA RIVEDERE LA CURATELA DI ROBERTO MUTTI

Palazzo Castiglioni a Milano è l’edificio che, dopo aver attraversato per il lungo quel angosciante Corso Venezia, mi distende l’animo. Ci voleva una facciata più ridente, morbida e creativa dopo quella lunga serie di finestroni asettici e austeri, timpani, colonnine e altri ninnoli lugubri in stile neoclassico. Sarà per quel simpaticissimo basamento fatto di pietra grezza che imita quasi una falesia rocciosa, per quegli oblò che lì son stati concepiti, quelle grate in ferro battuto sinuose che paiono mosse dal vento. Palazzo Castiglioni è un eccellente esempio di architettura Liberty a Milano, addirittura il “manifesto” di questa (leggo su qualche sito), e ideato dall’architetto Giuseppe Sommaruga agli inizi del Novecento.

Raggiungo questo edificio per la mostra del fotografo Kim Dupond Holdt, curata dal noto critico Roberto Mutti in occasione della sedicesima edizioni di Photofestival. La prima impressione è inquietante: l’edificio è sede di Confcommercio, e quel clima kafkiano di burocrati mi opprime, quel grigiore di stanze e di luci smunte mi spegne l’amor di poiesi, i portinai incravattati salutandomi con un perentorio “cosa cerca?” mi scoraggiano. Però ho fatto tanta strada quindi devo farmi forza.

Palazzo Castiglioni ospita diverse mostre di altri notevoli artisti; tra questi mi ispira parecchio Gabriele Tano e la sua personale Street Work: scatti strappati a azioni umane, tutte svolte su strada. Successivo a questo artista ritrovo, con brutta e strozzata sorpresa, Kim Dupond Holdt.

Dico brutta e strozzata certo non per i suoi lavori. Il fotografo danese infatti presenta una serie di sette dittici, quattordici lavori in tutto, in cui offre al pubblico milanese una epitome mirabile della sua ampia, anche se recente, produzione. Una coppia è dedicata ai tessuti, un sensuale zoom tra le linee fluttuanti di un panno grigio, dove la luce interagisce e crea un effetto conturbante. Due coppie di lavori sono pura geometria, linee rette e spigolose prese direttamente dall’architettura. I restanti otto lavori sono dedicati alla luce e al cromatismo, spesso acceso e folgorante, contrasti plastici che acquietano per un momento il mio fastidio. Molto bene, in sintesi, Dupond Holdt.

Ma queste opere perdono tutta la loro bellezza, tutto il loro significato se il contesto non è adatto. E la mostra di KDH, intitolata La sorpresa della luce e curata da Roberto Mutti, è collocata in un luogo completamente fuorviante.

Le quattordici riproduzioni sono disposte lungo un piccolo corridoio che sta nel mezzo di due scaloni; questi conducono al piano sotterraneo dell’edifico, dove c’è il bar per i dipendenti. Spazio piccolo, aperto e basso, che sa molto di ospedale. Mentre cerco di entrare in simbiosi con le opere, ossia con l’artista, mi giunge in continuazione il vocio degli impiegati incravattati, un sottofondo sonoro irritante in cui ogni tanto traspaiono frasi come “condizione inflazionistica” e altre formule a me incomprensibili.

Condizioni auditive pessime, quindi; e non solo per questo fatico a concentrarmi. Anche le altre regole museografiche/museologiche vengono meno: la luce è collocata al centro della coppia di quadri, ovvero nel punto distaccato delle fotografie, con un effetto distorto su queste. I cartellini con le informazioni sono appese troppo in basso, devo piegarmi eccessivamente facendo di conseguenza molta fatica a leggerle. Volendo, anche i quadri sono posizionati troppo in basso, ma questo dipende dall’altezza limitata dei pannelli (ricoperti con una moquette rosso-sporco non totalmente azzeccata).

Una sedia e un tavolino in ferro battuto (e dal sapore squisitamente Liberty) collocati all’inizio del percorso espositivo, dopo tutto, mi confortano; lì seduto osservo la mostra con sguardo mite, e penso a dove andrò a fare aperitivo.

Luciano Cardo

L’IDILLIO GARDESANO IN FORME PURE CHE MI RASSERENA . IL NEOSINTETISMO DI TIM CURTIN

Scopro per caso passeggiando – flâneur provinciale incorreggibile quale sono – una mostra ignota e nascosta, della durata di soli tre giorni, grazie a una locandina appesa maldestramente su un muro imbruttito. Un misero foglio A4 richiama la mia attenzione grazie all’immagine (si veda David Freedberg), in particolare ai suoi colori e alle sue forme che scorgo, con grande distrazione, nella parte alta della paginetta. Nel basso leggo la scritta “Lago di Garda: linee e luce/ Dipinti di Tim Curtin/ 3-6 agosto 2021/ Chiostro di San Francesco Via Roma 47 Gargnano (BS)”.

Il titolo è bruttissimo e capisco che la mostra non è curata da nessuno: il pittore ha scelto in fretta due parole di circostanza, giusto per dare un titolo. Il quadro che vedo rappresentato però mi incuriosisce, anzi mi rapisce, e questa mostra non posso assolutamente perdermela.

Quindi accolgo l’invito; il chiostro medievale in cui l’esposizione è organizzata è il luogo ideale, per la sua pace idilliaca, la frescura nonostante le alte temperature estive, la chiusura ai passanti fastidiosi esterni. Passeggio attorno al quadrato costeggiando colonnine e archi da una parte e graziosissimi quadretti dall’altra. Li passo in rassegna uno per uno, senza fretta; con gustosa passione mi lascio trasportare dal senso di benessere che questi mi donano.

Di base antinaturalistico , simbolista e lievemente neoplastico questo pittore – che parla un italiano sincopato misto a inglese che, presumo, sia sua lingua madre – riporta su piccole tavole o carta una visione filtrata e astratta del Lago di Garda. Queste sono “Viste”, come ricorre spesso nei titoli, panorami osservati da un ideale punto (impossibile da identificare), dove si notato in pure forme essenziali e geometriche: barchette a vela, montagne, casette, cipressi; e questi elementi sono sospesi come per magia tra un infinito quieto lago e un immobile cielo.

Queste opere sono ireniche, ossia ispirano pace, serenità, tranquillità. La luce endogena è calda e ferma; il mondo gardesano è come sotto qualche incantesimo. Aiutano i colori, che sono nitidi e puri anch’essi, lasciati con tocco anonimo (sono, esse, campiture monocrome, come tasselli a cloisonné).

Li passo in rassegna tutti, dicevo, questi quadri e quadretti, e vedo il Garda senza folle di turisti in preda all’ansia e alla frenesia di correre chissà dove, questo mi rincuora ancor di più. Siamo in agosto: attendo settembre.

Una sezione è dedicata a delle signorine, molto graziose: rivedo certi quadri del primo Gauguin: l’esotico, il primitivista. Pose di scorcio, sagome che allo stesso tempo dicono e non dicono, queste ragazze sono avvenenti e ammiccano.  Lo spazio in cui sono rappresentate è appena citato, il linguaggio è bidimensionale, il simbolo è di fondo.

Pensando a Emile Bernard, il grande, grandissimo Emile Bernard, e sulla scorta di quei inimitabili pittori della scuola di Pont-Aven, senza dubbi dichiaro questo artista Tim Curtin un “neo-sintetista”. Mi cullo e sogno con queste piccoli ma illimitate visioni del mio Garda, con la speranza di approfondire meglio un giorno questo pittore dall’origine per me, ancora, ignota.

Damiano Perini

ALLA BORIA (E AL FINTO PAUPERISMO) DEGLI ARTISTI GIOVANI PREFERISCO L’UMILTÀ (E LA SCHIETTA VENALITÀ) DI SEVERO SCALVINI

Non sono mai andati così d’accordo, l’umiltà e la venalità, come nella figura artistica di Severo Scalvini. Troppi ne vedo e fortunatamente pochi ne conosco di artisti giovani, cosiddetti emergenti, che al primo passo buono, alla prima mostra buona, alle prime tre righe su qualche megazine online o catalogo-mattone buone perdono la testa e si trastullano in un Olimpo (tutto loro, chiaro).

Non mi era mai balzata così nitida l’immagine di questi nuovi giovani (magari anche simpatici) che spavaldi si pavoneggiano con falsa modestia, con sprezzatura scimmiottata, che pitturano o creano arte solo seguendo il loro “sentire interiore” e altre balle simili (e vendendo poi quadri a prezzi spropositati); non mi era mai balzata così nitida quest’immagine, fino all’incontro con Severo Scalvini, pittore esimio e di lunga data, caratterizzato da un linguaggio provinciale e notevolmente identificabile.

Lo incontro in una pizzetta desolata di un borgo gardesano, in un pieno pomeriggio estivo, con un calore tremendo (l’ora di Pan direbbe il classicista). Classe 1939, Scalvini è nato a Sabbio Chiese in Valsabbia (provincia di Brescia), e residente oggi a Bovezzo con sua moglie, dove ha pure il laboratorio. Ottantaduenne gagliardo, dai pantaloni lunghi e la camicia a mezze maniche a quadretti, ricambia il mio ossequio sorridendomi e allo stesso tempo asciugandosi con un fazzoletto il sudore dalla fronte; uguale la sua signora, distinta e seduta al suo fianco.

Modi di fare molto umili e alla mano, si capisce che non viene da Milano ma da qualche paesino periferico; e ciò non lo nasconde, e nemmeno lo enfatizza: semplicemente se ne frega. Comincia a dipingere a 13 anni, formazione autodidatta e carriera da venditore in ogni o quasi mercatino o esposizione (anche di località sconosciute e dimenticate) del Nord Italia. È il pittore meno snob che abbia conosciuto sinora: dà attenzione a tutto e a tutti. È, altresì, il pittore meno retorico che abbia mai conosciuto: pratico, schietto, diretto; le sue opere sono quelle, cambiano di forma magari (orizzontali piuttosto che verticali o quadrate), ma hanno da decenni lo stesso identico soggetto.

Lavora tantissimo nonostante l’età, produce al mese un numero esagerato di quadri, probabilmente in serie, ricordandomi una cosa fondamentale: l’artista fa arte anche per vendere. Non  si nasconde dietro un dito, Scalvini, non ha bisogno di cazzate pauperiste per dare di sé l’immagine dell’artista illuminato da chissà quale divinità. Di quadri ne fa tanti, alcuni magari anche freddi e frettolosi; ma la richiesta è alta, si vende molto, e questa è l’unica soluzione. Severo Scalvini è discreto e mirabilmente modesto; epperò allo stesso tempo è dotato di una sana e aggraziata venalità, direi molto realista.

Per una semplice chiacchierata sono omaggiato di un suo quadretto. Il soggetto, il carattere e lo stile sono inequivocabili. Ci sono casette affastellate in un luogo ideale, immaginario e immaginifico, che viene dalla fiaba, dai sogni. Un luogo isolato dal mondo, anzi questo è il mondo stesso; una luna irraggia una fievole luce, due paesani – vestiti da montanari o contadini – tornano verso casa. Il tutto è avvolto da un silenzio attutito dalla neve, da una quiete armonica che solo i paesini di provincia possono raggiungere. Pare un presepe, un locus amoenus in versione bresciana; s’intuisce il freddo dell’inverno e dalla luce calda che esce dalle finestrelle il bisogno d’intimità domestica.

Il linguaggio artistico è semplice e riconoscibile: grandi linee spesse e nere delimitano le figure, così che mi ricordano Ottorino Garosio, eccellente pittore, anche lui originario della Valsabbia. E di Garosio vedo anche certi temi. Mentre invece l’atmosfera e la cromia – con quella capacità di evocare un mondo magico, surreale e sospeso –  mi fanno venire in mente il grande illustratore Guillermo Mordillo.

Non mi sentirò più a disagio nei soleggiati e caldi pomeriggi estivi; mi basterò dare un’occhiata al quadretto che Scalvini mi ha gentilmente offerto per ritrovarmi di fianco al fuoco a bere vino, mentre il cotechino  cuoce in padella e fuori la neve cade.

Damiano Perini

“I 12 MESSAGGERI DEI MONTI”: GRAZIE ALLA FONDAZIONE CARIPLO I CAMPANILI DI TREMOSINE SARANNO RISTRUTTURATI

Che sia un freddo e nevoso inverno la cui atmosfera è sordamente smorzata dalla neve, oppure un crepuscolo estivo dal tepore dolcemente scosso dai grilli e dal frusciare delle foglie, le campane, specialmente dei paesi più appartati, rintoccano colmando l’ambiente con un suono familiare e carezzevole, sfiorando nel profondo le corde dell’animo.

Da San Paolino di Nola, il vescovo che  applicò la campana a uso sacro, e da cui verosimilmente deriva l’etimo (‘aera campana’, ossia ‘bronzi di Campania’), fino a personalità di altri tempi e dall’esistenza opposta, come Baudelaire, questo strumento ha evocato immagini collegate direttamente all’anima.  Le campane, infatti,  e in particolare il loro suono, sono citate dal dandy parigino in profondissimi passaggi de I fiori del male. Si animano: “cantano nella nebbia”, “…sbattono  con  furia  e  lanciano  verso  il  cielo  un  urlo orrendo…”; sino a diventare muse ispiratrici. “Voglio, per  comporre  castamente  le  mie  egloghe”, scrive Baudelaire,  “dormire  […]  vicino  ai  campanili, ascoltare  sognando  i  loro  inni  solenni  portati  via  dal  vento;  […]  campanili,  alberi maestri della città”.

Le campane sono storia, cultura; per secoli sono state parte sociale integrante delle comunità. Si pensi, a esempio, al ruolo che svolgevano nella scansione della vita quotidiana, lavorativa e liturgica. Il valore immateriale del suono, però, sarebbe impossibile senza una struttura adatta, un supporto fondamentale che ne permetta la fruizione. Ecco allora l’importanza basilare dei campanili, degli “alberi maestri”, architettura ormai proverbiale che identifica, distingue e valorizza un singolare paese o una circoscritta comunità – di qui il termine ‘campanilismo’. Ma la materia degrada, e la struttura necessita costantemente di cura, manutenzione, ristrutturazione.

Tremosine. Tutto ha inizio col terribile nubifragio che ha investito la provincia bresciana, in particolare l’Alto Garda, il 28 ottobre 2018. Il campanile di Sermerio, già in stato precario, raggiunge il limite di sopportazione. Don Ruggero Chesini, arciprete delle parrocchie tremosinesi, senza perdere tempo segnala l’accaduto all’architetto Alberto Lancini – stimato professionista con alle spalle molti anni di esperienza nel campo del restauro e della progettazioni per l’Ufficio Beni Culturali della Diocesi di Brescia – che per una provvidenziale coincidenza opera in quel momento alla ristrutturazione della canonica di Pieve. Lapidario e coeso il consulto: il vaso è colmo, urge manutenzione.

Nel gennaio 2019 si verifica un’altra fortuita coincidenza. Esce infatti il bando, emesso dall’Area Arte e Cultura di Fondazione Cariplo nell’ambito della linea “Patrimonio culturale e sviluppo locale”, con l’obiettivo di “promuovere e attuare politiche di conservazione programmata e preventiva sull’edificato di interesse culturale”. Un’occasione ghiotta che don Ruggero non si fa scappare.

“Il don è stato molto coraggioso”, dichiara Lancini, ora coordinatore generale del progetto e progettista, “perché una volta che il bando è approvato bisogna metterlo in pratica e portarlo a termine”. Per essere però preso in considerazione, il bando doveva essere esteso; il solo campanile di Sermerio non permetteva il finanziamento. Così il progetto si allarga, si fa ambizioso: di necessità virtù, e presto tutti i 12 campanili delle parrocchie di Tremosine (meno quello di Campione), molti dei in stato rovinoso, sono inseriti ufficialmente nella proposta. Questa è approvata con esito positivo con una delibera del 19 dicembre 2019.

Il merito per il titolo del progetto è ancora di don Ruggero: “il suono delle campane ha un valore immateriale; comunica, chiama, indica la presenza di Dio, la sua voce, la sua chiamata alle ore, alla festa. In più i campanili presi in esame sono dodici, come gli apostoli, i primi portavoce del Signore”. Ecco allora il titolo efficacissimo di “I 12 messaggeri dei monti”, seguito dalla chiosa più tecnica e esplicativa “recupero,  cura  e  manutenzione  programmata  del  sistema  di  campanili  delle Parrocchie di Tremosine (BS)” (anche su Instagram alla voce @campanilitremosine).

Alla Fondazione Cariplo, principale sostenitrice del progetto, si accodano la Diocesi, grazie a don Giuseppe Mensi, vicario episcopale per l’amministrazione e, successivamente, la C.E.I., insieme a un piccolo stanziamento del Comune di Tremosine s/G.

I tempi. “Siamo in ritardo di circa un anno per il Covid”, dichiara amareggiato Lancini. I lavori di progettazione stanno comunque per essere ultimati. Si prevede che le imprese vincitrici dell’appalto inizino per la primavera del 2022, terminando non prima del secondo trimestre del 2023. Ultimata l’opera è in programma un concerto dei Campanari di Bergamo, i quali, oltre a sostenere il progetto con rara sensibilità, stanno provvedendo a una mappatura sonora di tutte le campane, al fine di valorizzare, parallelamente, anche il patrimonio sonoro.

Damiano Perini, luglio 2021

CI RINCUORI L’ANGELO DI LANDI DEL CIMITERO DI PIEVE: MONUMENTO AL DANNUNZIANESIMO CHE IL BORGO CONOBBE, MA CHE NON ESISTE PIÙ

Mi rincuora ogni volta la visita a un cimitero, e mi rasserena il conforto dei defunti, soprattutto dei miei cari. La visita al cimitero di Pieve però mi rincuora di più, in virtù della lunetta dipinta da Angelo Landi, perché è solo e grazie a essa che si respira, seppur fievolmente, quell’atmosfera di dannunzianesimo che toccò Tremosine agli inizi del Novecento, e che non tornerà più.

L’opera rappresenta un angelo (una firma iconografica si può dire), ideato con una composizione semplicissima: una figura che occupa l’intero spazio, vestita con una veste lunghissima e bianca, in una posa molle e adagiata in senso diagonale. I capelli sono – o così appaiono – folti, lunghi e arricciati, il viso poco caratterizzato; spunta l’ala sinistra mentre l’altra si può solo intuirla perdersi in uno sfondo indefinito di un giallo inquietante. La figura è perfettamente inserita nei canoni artistici del tempo, ossia gli anni Dieci del XX secolo, con la sua torsione elegante del busto, con quel fluire di linee sinuose, “fitomorfe” come si dice in gergo, vulgo floreali (lo stile Liberty è infatti anche detto “stile floreale”, e corrisponde in Italia a quello che è stato in Francia l’Art Nouveau).

Va detto, a onor del vero, che l’opera è in uno stato di degrado avanzato e ingiustificato, eguale e forse peggio di quanto già denunziava Daniele Andreis parecchi anni fa (D. Andreis, Tremosine nella storia. Voci, personaggi, vicende, 2007, pp.168-176), e visibile tutt’oggi se non in modo vago e rarefatto. Non si capisce a questo punto perché non ci si interessi per una urgente operazione di restauro e riqualifica: si ignora forse la fama dell’artista?

Angelo Ignazio Giuseppe Landi (1879-1944), prolificissimo pittore, nasce e muore sulla sponda bresciana del Garda, precisamente a Salò, da una famiglia nobile. Studia all’Accademia delle Belle Arti di Brera a Milano, diventandone poi accademico. Fu un ottimo ritrattista, dipinse documentandole le atrocità della Prima Guerra Mondiale, e numerosi  e suggestivi sono i suoi paesaggi. Sacro o profano non importava, Landi affrontò qualsiasi tema con la stessa abilità a seconda del mezzo, sia esso olio su tela o affresco. Le sue opere sono note da Salò a Napoli, ma anche in città fuori l’Italia, come Parigi o il Cairo. Fu un insaziabile viaggiatore: passò anni a Buenos Aires (dove si sposò), poi in Africa, prima di andare a vivere a Roma. Ma nonostante la sua voracità di conoscenza fu sempre legato al territorio di nascita. Dipinse per Padenghe, moltissimo per Salò e, soprattutto, per il Vate e per il suo Vittoriale, dove dipinse, attorno al 1924, le lunette di San Francesco e di Santa Chiara.

Ci si stupisca allora che un artista di tale rilevanza abbia lasciato una testimonianza anche a Tremosine sul Garda, all’interno del cimitero di Pieve. Landi ci ha lasciato un angelo, oggi un po’ svanito, indebolito dal tempo, ma una volta indubbiamente acceso e luminoso, che ci accoglie al cimitero dando le spalle, disinvolto, al Monte Baldo. Un angelo altresì nobile e grazioso, che spicca in mezzo alla cappella, struttura severa e ieratica ispirata al romanico, interamente in tufo e quindi consunta. Ci confortino i defunti del cimitero di Pieve, e ci rincuorino sempre. Ci rincuori anche e per molto tempo ancora la lunetta del grande artista, monumento a quel clima portato da D’Annunzio che, seppur con pallidi riflessi, toccò anche Tremosine a inizio Novecento, e di cui non si avverte più il dolce tepore.

Luciano Cardo

BARRIANI E IL SUO DEBOLISSIMO “MARTIRIO DI SAN BARTOLOMEO”: UNA PROPOSTA DI COMMITTENZA

*Articolo apparso su “Comunità”, aprile 2021, Tremosine sul Garda, pp. 9-10.

Leggo con soddisfazione e godimento il volume enciclopedico di Alfredo Cattabiani, “Santi d’Italia. Vita leggende, iconografia, feste, patronati, culto”. Il sottotitolo la dice lunga, e il libro infatti è una raccolta (quasi) esaustiva dei santi italiani o che comunque in Italia hanno trovato una forte venerazione (come Caterina d’Alessandria). Lo scrittore tiene conto sia dell’agiografia ufficiale ecclesiastica e delle testimonianze storiche, ma anche e soprattutto di leggende e tradizioni popolari; e le racconta sullo stesso piano di importanza. Il registro è quello favolistico, il linguaggio sciolto e veloce. Un libro che coinvolge e si legge bene, e si colloca senza dubbi sulla scia della tradizione agiografica che parte da Jacopo da Varazze.

Scopro così della durissima e faticosa vita di Padre Pio da Pietrelcina, della austera vita di San Zeno di Verona (il quale si nutriva unicamente dei pesci da lui stesso pescati nell’Adige), delle imprese epiche di Sant’Eustachio, che salvò Matera dall’assalto dei Saraceni; ricordo della coraggiosa vita di Francesco di Paola, dell’impresa avventuriera di Colombano di Bobbio (fondatore del celebre monastero), dell’erudizione di Chiara d’Assisi, dell’umiltà e della modestia di Damiano e Cosma (“due medici detti anargiri, cioè ‘senza denaro’ perché secondo la tradizione praticavano la medicina senza chiedere compensi”).

Ma leggo con passione e orgoglio cristiano anche della vita di San Bartolomeo apostolo. Il Santo, patrono  tra il resto della parrocchiale e dei parrocchiani di Vesio, pur essendo poco considerato dai Vangeli sinottici (appare nell’elenco in associazione a Filippo) e assente nel Vangelo di Giovanni (il nome è sostituito con Natanaele), è protagonista di diversi episodi, anche abbastanza macabri e – come diciamo dopo Tarantino –pulp. “La tradizione gli attribuisce lunghi viaggi missionari in vari Paesi dell’Oriente, dall’Arabia Felix alla Partia alla Mesopotamia, e infine in Armenia dove fu martirizzato: crocifisso secondo gli orientali, decapitato secondo i Martirologi di Rabano Mauro, Adone e Usuardo. La morte per scuoiamento è sostenuta invece da Isidoro di Siviglia e dal Martirologio di Beda” –  riferisce Cattabiani; è proprio quest’ultimo caso di martirio che ha ispirato le leggende e l’iconografia nell’Occidente cristiano.

Un’iconografia che è visibile anche nella chiesa di Vesio, nel lato destro del presbiterio, su un enorme dipinto, a cui corrisponde di fronte l’episodio antecedente della Chiamata di Gesù. Dell’autore si sa poco se non il cognome, un certo Barriani di Brescia; sulla targhetta metallica posta al di sotto delle opere è riportata la data 1866. Né – ammetto con sconforto – mi sono interessato più di tanto a questo pittore, tale è la scadenza dei due risultati che ho sott’occhio. A essere buoni, l’unico elemento della “Chiamata” gradevole è il cielo: vagamente suggestivo, lievemente carico di fausti presagi, con quei toni rossastri all’orizzonte come di un’alba che chiude dietro di sé una notte, e schiude un nuovo giorno e una nuova luce: quelli di Cristo e della nuova èra. Per il resto, il gruppo degli apostoli è, dal punto di vista pittorico, maldestramente ammassato attorno a Gesù, scioccamente al centro della composizione, rispettando una simmetria infantile e poco originale. Le figure sono sproporzionate (basti guardare le grandezza delle mani e dei piedi con quella dei corpi); le vesti rigide e sgraziate; le pose inverosimili e squilibrate. I volti sembrano caricature; i due personaggi più laterali sono inguardabili, i loro volti tanto allungati che paiono musi di cavallo.

Il Martirio di San Bartolomeo, che fa da pendant, riprende lo stesso schema del precedente: ammassamento centrale e simmetria scolastica, tratti bruttissimi, pose ferme e poco plastiche, i gesti sono congelati e irrealistici, i volti e le azioni non esprimono emozioni alcune. Il dipinto, e chiudo il lugubre elenco di commenti, non è armonico; in altre parole, non ha anima. E un’espressione artistica che non ha anima non ha la potenza per essere recepita da chi la osserva, o, nel mio caso di cristiano, per essere contemplata. È un’opera così inutile, incapace di trasmettere il messaggio di cui si fa carico. E quindi la carneficina del Santo apostolo, il dolore e la passione provate dal martire sono ai nostri occhi disegno fatto male e nulla più.

Si guardi, per avere un confronto, la statua di San Bartolomeo posta nel Duomo di Milano: la carne scuoiata è percettibile e fa venire i brividi al solo sguardo. Si guardi, un altro esempio tra i più noti, il San Bartolomeo di Michelangelo della Cappella Sistina: la molle e cadente pelle tenuta in mano dal santo fa accapponare la nostra, di pelle. Mi viene a questo punto un’idea, utile anche come suggerimento: il tempo in cui viviamo non è adatto, ma commissionare due nuove opere, della stessa misura e con lo stesso soggetto, a un artista contemporaneo potrebbe essere una soluzione. Il nome è quello di Giovanni Gasparro, pittore italiano di arte sacra contemporaneo: solito a scene tetre in ambientazioni oscure e inquietanti, di scene capaci di evocare e provare l’agonia dei personaggi rappresentati: perfetto per rappresentare San Bartolomeo.

Damiano Perini

IL LEGNO CHE PRENDE VITA GRAZIE ALL’ARTE DI GIACOMO LUCCHINI

L’ebanisteria, intesa nelle sue forme più sublimi di intaglio e intarsio, è un’espressione squisitamente frutto dell’ingegno e dello spirito umano, un’attività duplice, come un Giano Bifronte, al contempo arte e artigianato. Questa sua doppia caratteristica però, questo suo essere, per così dire, borderline, è forse il motivo principale della sua scarsa, o comunque minore considerazione rispetto alle arti maestre (pittura, scultura: non a caso l’ebanisteria è sempre stata definita, appunto, una “arte minore”).

Si può dire sia un’espressione artistica che necessità di grande abilità tecnica, concentrazione, esperienza; ma viceversa è anche una manifattura che abbisogna di creatività, immaginazione, conoscenza e animo artistico. Insomma, un ebanista per forza di cose è sia artigiano che artista.
Deve essere per questa difficoltà a classificare l’ebanisteria che nei manuali di storia dell’arte difficilmente si ha traccia, non di una storia, ma solo un breve accenno ai grandi intagliatori che si sono susseguiti. È materia purtroppo ancora troppo sottaciuta e confinata tra gli specialisti o antiquari.

Da questo oblio non si esime neppure Giacomo Lucchini, straordinario intagliatore trentino, originario di Castel Condino, vissuto agli inizi del Diciottesimo secolo, di cui si trova traccia in qualche sporadico scritto e per di più difficile da reperire. Siamo soliti, ormai un’abitudine, considerare il fine intagliatore Giacomo Lucchini in riferimento a Tremosine sul Garda; e è giusto così: alla Pieve dello stesso comune, infatti, instaurò bottega per la durata di circa trent’anni, lavorando un numero elevato di pregevoli oggetti. Le sue poche notizie sono ricavate da queste opere, e sono documentate dal 1700 al 1729.

Bisogna trovarsi dinnanzi, o meglio direi immersi in questa serie d’intagli della parrocchiale di san Giovanni Battista di Tremosine s/G, per comprenderne la magnificenza, la sontuosità, l’eleganza, la raffinatezza. Per la chiesa di Pieve Giacomo Lucchini realizzò dapprima intagli per l’organo e la cantoria in legno di larice, e successivamente, in noce, i confessionali, gli stalli del coro, la cattedra, il bancone armadio della sacrestia, dossali e cornici. Altro che “arte minore”: con Lucchini il legno si anima, prende vita sottoforma vegetale: racemi, foglie e verzura paiono mossi dal vento, oppure da un qualche moto sovrannaturale, soffio divino. I Putti del coro parlano, si esprimono con tutta la loro corporeità: linguaggio non verbale, chiaro, deciso coinvolgente.

Di lui ne parla Elisa Cassoni (2008), evidenziandone per questi lavori “l’uso di un vibrante intreccio di nastri e di elementi naturali”, e sottolineando come lo stile di Lucchini sia basato sul movimento. Chi ha parlato però forse meglio di tutti e in modo più approfondito di questo intagliatore barocco (ma ricondotto al “barocchetto”) è Valerio Terraroli. Scrive il professore a proposito delle raffigurazioni intagliate: “un mondo semplice e quotidiano dove allegoria e natura convivono armoniosamente”, in cui si fondono “ridondanza di intrecci”, un “infinito repertorio di temi naturalistici”, e una “briosità” d’insieme.

Un “rutilante repertorio fitomorfo” e un “inesausto impulso decorativo” (Terraroli) del coro di Pieve che si trova anche nel mobile della sacrestia della parrocchiale di Limone sul Garda. Sicuramente opera dei primi anni Trenta – come conferma la data iscritta nel legno che riporta 1718 –, mentre teneva bottega a Tremosine. Il mobile è solenne: austero e icastico con quella cromia scurissima e severa tipica del noce e dalle dimensioni notevoli, 2,84 x 4,12 m, è un’opera in cui l’occhio si perde vagando per gli intarsi pregiatissimi e vari, mentre pare di essere “schiacciati” dalla sua maestosità.

Il mobile è in condizioni conservative ottime, anche per il recente restauro di Vincenzo Marini di Rovato. È diviso in due parti, basamento e alzato, per un totale di 18 cassetti divisi da 4 lesene. Repertorio strepitoso e variegato di frutta intagliata a tutto tondo, che funge da pomoli: grappoli di uva, melograni, mele, pere, fichi, prugne e cardi… frutti che sembrano veri, e se fossero colorati sicuramente invoglierebbero pure a mangiarli. Degni di particolare nota sono anche i 4 putti-lesena del basamento: come a Pieve essi paiono organismi carichi di vita propria, esuberanti nel loro gesticolare, nella loro espressione. E ovunque fiori, rami, vegetazione… un Eden esclusivo: sinuoso, levigato, spumeggiante, intarsiato.

(bibl. minima): G. Vezzoli, La scultura dei secoli XVII e XVIII, 1964; M. Trebeschi, D. Fava, Limone sul Garda, 1990; V. Terraroli, La scultura del Settecento nella Lombardia orientale, 1991; E. Cassoni, Altari, dipinti e sculture, 2008.

Damiano Perini