Dal 5 al 9 novembre si è svolta la trentesima edizione del Merano Winefestival. Un’edizione contingentata per il covid e minorata rispetto agli anni precedenti, e che proprio in virtù di questo non è andata male, anzi! Un numero ristretto di persone significa più utenza selezionata, quasi se non completamente del settore, tutt’al più sinceri appassionati e quindi conoscitori medio-buoni. Un numero basso significa soprattutto meno baccano, più convivialità tra degustatori e ambiente più vivibile. Non a caso, questa esperienza sarà esemplare (così ci annunciano dall’ufficio stampa) anche per le successive edizioni: nel 2022 – già definite le date dal 4 all’8 novembre – si aspira a un massimo di 1500 persone al giorno.

Per chi scrive sono stati giorni intensi, di divertimento e insieme di conoscenza, di didattica e al contempo svago. Ma, in breve, è della giornata di martedì il mio ricordo migliore. Anche se ero abbastanza acciaccato dalla giornata precedente, ancora imbottito da quei pochi toscanoni che mi son concesso – bevuti forse in preda a qualche demòne – e presenti come sempre in gran numero (toscanoni che però attirano un gran pubblico, e mi permettono di bere Collio e Isonzo in tutta serenità), la mattinata è partita al meglio. Cielo limpido che più azzurro non mi aspettavo, sole acceso che evidenziava le infinite sfumature autunnali dei monti attorno a Merano, e brillava riflesso dal candore delle cime innevate.
Una cornice atmosferica ideale all’evento, che meglio non poteva augurarsi il genio di tutta questa incredibile macchina che è il Merano Winefestival, ossia The WineHunter, ossia Helmuth Köcher: praticamente un dandy alto-atesino, un elegante perenne, impeccabile, un connoisseur attento e sapiente, amante – naturalmente – del vino e di tutto ciò che gli ruota attorno.

Una cornice che ben si abbina nondimeno alla sede dell’evento, la Kurhaus di Merano: un edificio elegantissimo, costruito in varie fasi tra Otto e Novecento, in pieno clima di Secessionismo viennese (infatti l’architetto che progetta la rotonda e la sala principale, la cosiddetta Kursaal, appartiene allo Jugendstil) e dove nella stessa Kursaal si è tenuto, il 23 novembre 1969, il congresso della Südtiroler Volkspartei durante il quale è stato approvato il cosiddetto pacchetto per l’Alto Adige, e quindi l’autonomia della provincia.
Ma i motivi della mia visita, e sicuramente di tutti i miei colleghi, alla Kursaal sono più edonistici e meno politici, chiaro. Il martedì, fanalino di coda della manifestazione meranese, è dedicato alla Francia e allo Champagne (con qualche stralcio malamente posto di bollicine italiane): il cosiddetto Catwalk Champagne, evento cardine accompagnato dalla sezione bio&dinamica Naturae et Purae nelle salette adiacenti.
Non che mi aspettassi Salon, Bruno Paillard, Krug, et simila; però un po’ più di ricerca forse sì. Tralasciando gli onniscienti amici di Encry (che bevo sempre volentieri), due solamente le maison che mi hanno entusiasmato, e tutte e due mai bevute prima. Una mi ha attirato perché importata dalla cantina Terlan (quindi per forza doveva esser buono) e soprattutto per la signorina che mi offriva le spumeggianti bolle, una ragazza sorridente e dagli occhi azzurri, di netto stampo mitteleuropeo (Champagne Legras et Haas, Chouilly); l’altra cantina mi ha incuriosito per il numero di bottiglie prodotte, circa 3.000 annue (!), praticamente imbottigliate solo per le fiere, con un solo prodotto che si è rivelato un bellissimo vino (Champagne Gallois-Bouché, Vertus).
Per emozionarmi sul serio però ho dovuto cambiare sala, e girare e rigirare per i piccoli produttori italiani della Nature et Purae. Qua, tra gli altri, segnalo: un Vermentino eccezionale di Tenute Olbios (Olbia), In vino veritas Vermentino di Sardegna Doc 2008, dal sapidità spiccata e dalla gentile aromaticità combinata all’effetto ossidativo dato dall’evoluzione in botti scolme; un Etna Doc Scalunera 2017 (nerello mascalese e nerello cappuccio) di Torre Mora (Catania). E naturalmente i Barolo di G.D. Vajra, presenti con due cru (Ravera e Bricco delle Viole).
In particolare però, nella giornata che esaltava la Francia e le bolle D’oltralpe, ho riscoperto due vitigni autoctoni italiani, mie vecchie passioni, che avevo messo da parte oramai da parecchio, troppo tempo. Ho riscoperto così il tazzelenghe in primis, e poi il verdicchio, nella versione jesina.

Il Tazzelenghe l’ho bevuto nella versione composta e distinta di Conte D’Attimis-Maniago, azienda di Buttrio, Udine. È una delle loro selezioni (insieme allo Schioppettino, al Pignolo e a un bordolese) il cui profumo è immediatamente stuzzicante. Colore intenso che preannuncia un impatto al palato dirompente. Tazzelenghe deriva da “taglia lingua”, e così è stato chiamato per le sue caratteristiche di indomabilità sul piano tattile: acidità e tannino elevatissimi che, se non bilanciati e in armonia col resto del vino, lo rendono scorbutico (un vino per questo di difficile e delicata produzione che mette alla prova il vignaiolo: non lo si smetta di ringraziare il temerario che lo continua a produrre!). Questo di Conte D’Attimis-Maniago mi è parso però molto armonioso e bilanciato, quasi di una piacevolezza esagerata. I tannini e soprattutto l’acidità si sono fatti notare da subito (ho bevuto un 2013) e lo stesso vino dell’annata 1997 ha dimostrato quanto potenziale ha questo rosso imponente.

Un altro vino che ha tenuto sorprendentemente il tempo è il Verdicchio dei Castelli di Jesi Cuprese di Colonnara (Cupramontana, Ancona), che ho avuto la fortuna di assaggiare nella versione del 1991. Molta forza, ossia sapidità e freschezza ancora vive, eppure grande gentilezza che si traduce in morbidezza e cremosità al palato; il tutto avvolto da un manto di aromaticità, seppur lieve. Molte caratteristiche che ritrovo, con le dovute differenze, nello stesso Verdicchio di annata. Il verdicchio è un vitigno a bacca bianca che deve il suo nome al colore degli acini, e viene coltivato quasi solamente nelle Marche (dove si può trovare anche nella versione di Matelica). Si presta per diverse tipologie di vino, è adatto sia agli spumanti, ai bianchi di pronta beva e – mio primigenio e ritrovato amore – ai bianchi da lungo, lunghissimo affinamento in bottiglia.
Lunga vita ai piccoli autoctoni italiani, infine! E in particolare in una giornata dedicata ai presuntuosi francesi.
DP