IMPARARE A VEDERE CON GLI OCCHI DI UN BAMBINO (AUTISTICO). Spunti da “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon (Einaudi, 2003) è ormai comunemente riconosciuto come un classico contemporaneo. E a ragione, per molti motivi. Innanzitutto è un libro divertente, dalla trama coinvolgente e non troppo articolata; è ricco di dettagli che arricchiscono l’apparato narrativo senza appesantirlo, anzi.

Il genio di Haddon sta tutto nel trasferire in un registro linguistico leggero e veloce, dotato di una sprezzatura terribilmente invidiabile i pensieri di un bambino. È lo stesso procedimento che artisti come Mirò, Klee, Dubuffet o Basquiat adottano in pittura: l’artista ritorna fanciullo, ma conserva le capacità e l’esperienza acquisita in tutta una vita. Senza accorgercene viviamo accanto a lui, anzi con lui le stesse vicende. Del resto l’autore lo dichiara proprio con la voce del protagonista, Christopher, il bimbo che soffre della sindrome di Asperger (una forma di autismo, che è una condizione e non una malattia), l’insofferenza  per il “linguaggio antiquato, difficile da capire” (p. 86).

È un racconto scritto bene, dunque; ma non solo. Questo libro è una storia commovente e realistica, un inno alla speranza e alla gioia di vivere, e soprattutto un affascinante e immediato saggio informativo sull’autismo, tante sono le nozioni che con scioltezza mette in campo. Analisi lucide vissute in prima persona che rendono il caso tangibilissimo, che ci fa apprendere questa condizione in modo istintivo, immediato, diretto. Da Lo strano caso si scopre che le persone affette da questa condizioni, generalmente hanno una tendenza alla semplificazione e alla schematizzazione, sono osservatori formidabili, sono ultrasensibili (troppe informazioni allo stesso tempo li mandando in tilt per sovraeccitazione), devono avere un ordine rigido e preciso, un programma ben definito.

E ancora, ragionano per immagini (“Vedo spesso quello che qualcuno mi sta dicendo come se venisse stampato sullo schermo di un computer”), sono selettivi, mangiano solo se nel piatto i diversi cibi non vengono a contatto tra loro (guai se i broccoli toccano il prosciutto!), la loro mente “funziona come la pellicola di un film […]. Quando mi si chiede di ricordare qualcosa io non faccio altro che premere il tasto Riavvolgere […]”, e quindi dotati di una memoria di ferro; sono insofferenti ai posti nuovi e alle persone sconosciute (“Quando mi trovo in un posto nuovo, poiché noto ogni cosa, è come quando un computer sta elaborando troppi dati contemporaneamente e il processore si blocca”), si impanicano per l’ignoto e l’indefinito, temono lo smarrirsi nello spazio e nel tempo (“mi piacciono gli orari perché mi piace sapere quando sta per accadere una determinata cosa”, “tutte le mattine dovevo obbligare mio padre e mia madre a dirmi esattamente cosa avremmo fatto quel giorno per farmi stare meglio”).

Dei tanti e interessanti spunti di questo trattatello – possiamo chiamarlo anche così – quelli che più mi colpiscono riguardano la sfera del vedere, nella sua più bella, profonda, e lirica e baudelariana accezione. Sono i seguenti, che mi limito a citare.

“[…] Aggiunsi che quelli che lavorano in ufficio si sentono felici se splende il sole quando escono la mattina, oppure tristi se piove, ma che il tempo atmosferico, visto che stanno chiusi in un ufficio tutto il giorno, non dovrebbe aver niente a che vedere con il fatto che quella sia una bella o una brutta giornata” (p. 33).

“[…] Gli risposi che non pensavo di essere intelligente: guardavo le cose per quello che erano, e questo non voleva dire essere intelligenti. Significava semplicemente essere dei buoni osservatori” (p. 34).

“La maggior parte delle persone però è pigra. Non vedono tutto ciò che li circonda. Fanno ciò che si definisce comunemente guardare di sfuggita che è l’equivalente dell’andare a sbattere contro qualcosa e tirare dritto senza farci troppo caso” (p. 162).

Il “cattivo vetraio” nell’omonimo poemetto di Baudelaire (Lo spleen di Parigi) appare solo alla fine. Scrive il poeta: “esaminai curiosamente tutti i suoi vetri, e gli dissi: – Come? non ha vetri colorati? Vetri rosa, rossi, blu, vetri magici, vetri di paradiso? Come è impudente! Osa passeggiare nel quartiere dei poveri, e non ha neanche i vetri che facciano vedere la vita in bello!”.

E se fossero questi i vetri, ossia gli occhi di un bimbo autistico quelli con cui vedere alla vita tanto ambiti? Nell’attesa di una (impossibile) risposta, meditare. E imparare.

Luciano Cardo