ERNST GAMPERL: UNA BREVE INTRODUZIONE

IL RISPETTO PER LA NATURA, L’ANTIACCADEMISMO E L’ESTETICA “MAK”:
BREVI CONSIDERAZIONI (UFFICIOSE) SULLA MIA VISITA A CASA GAMPERL – TEMI E PERSONAGGI DISCUSSI – BIBLIOGRAFIA DERIVATA

I giorni 27 e 28 ottobre 2019 feci visita a Ernst Gamperl nella sua abitazione-laboratorio in Germania. Si doveva discutere sulla mia tesi di laurea magistrale, a lui dedicata, e attualmente in corso di pubblicazione. Furono due giorni intensi ma piacevoli e scorrevolissimi, in cui si parlò del suo lavoro ma si divagò anche molto. Qui sotto riporto una serie di appunti ricavati da quella esperienza, che valgono come una sorta di breve introduzione a Ernst Gamperl. Temi qui passati in forma “leggera”, ma minuziosamente approfonditi nel mio elaborato, chiaro. (Damiano Perini, marzo 2021)

Arrivare a casa Gamperl dal Lago di Garda è una sorta di viaggio mistico (o misterico), tra il fascinoso e il perturbante (Der Sandmann di Hoffmann, da cui Freud ricava il famoso saggio, è ambientato nelle montagne ombrose tedesche – «I due innamorati… guardarono giù, lontano, nella direzione delle foreste che sfumavano nella nebbia e dietro alle quali la catena montuosa si ergeva…»). Si superano le Alpi, passando prima il Brennero, Innsbruck e poi Garmisch; l’ultimo tratto in particolare (da Innsbruck fino a destinazione, circa 110 km) è un’immersione totale in una selva di conifere immensa, che si attraversa mediante uno stradone pieno di curve e sali e scendi. Il traffico è basso; pochissime macchine oltre la mia. Più che la visita di un laureando a un artista mi è sembrato un po’ di vivere l’arrivo kubrickiano di Jack Torrance all’Overlook Hotel, o quello dell’agente Cooper a Twin Peaks; a rendere ancora più inquietante l’atmosfera poi c’era un cielo plumbeo e basso, quando non nebbia, e pioggia leggera.

Chissà come mai, mi son chiesto tra il perplesso e il divertito, Ernst Gamperl e Ulrike (d’ora in poi anche familiarmente Ernesto e Ulli, se non addirittura l’Ernesto, la Ulli) abbiano deciso di trasferirsi dalla bellissima e aprica Vesio – frazioncina del comune di Tremosine sul Garda, circa 400 abitanti – a una periferia rurale di un piccolo villaggio di campagna dell’Alta Baviera (esattamente a Steingaden, circa 2700 abitanti, paese cupo, silenzioso, con case dislocate, posto lungo la «strada romantica» e vicino a Füssen, la nota cittadina dei castelli di Ludovico, vedi Neuschwanstein, vedi Walt Disney). Forse per una bizzarria d’artista, ho pensato superficialmente (come non ricordare Raymond Roussel: «Locus Solus è un quieto rifugio dove Cantarel ama svolgere, in piena tranquillità d’animo, i suoi molteplici e fecondi studi…»). In realtà le ragioni che hanno spinto i due (e quindi i figli, e quindi l’assistente, il laboratorio… e le procedure burocratiche) a trasferirsi dopo 15 anni dall’Italia alla Germania sono varie, sia tecniche sia idealistiche (o ideologiche?).

Innanzitutto il laboratorio di Piazza San Bartolomeo a Tremosine s/G (questo l’indirizzo precedente), insieme all’abitazione attigua, con cui era comunicante, anche se godeva di un panorama aperto su campagna e lago, era in realtà logisticamente scomodo e fuori mano; e il costo del trasporto materiali di conseguenza era alto. Si aggiunga (aggiungo io) il mancato riconoscimento del valore artistico (valore aggiunto che sarebbe potuto diventare, a esser più svegli, anche valore turistico, e che turismo!) da parte dei concittadini (non tutti ovviamente, come dimostra l’impegno del sottoscritto, fortunatamente una minoranza), delle associazioni locali e delle varie giunte comunali. Con “mancato riconoscimento” intendo questo, con un esempio: giusto qualche giorno fa, parlavo con un amico di Tremosine, e venuto a saper del mio progetto mi chiede: «e come sta l’Ernesto? Fa ancora quei posacenere lì?”. A questa osservazione, piacevole e interessante a suo modo, non mi sono stupito; anzi mi  ha ricordato Pasolini e «l’astoricità della cultura popolare» degli scritti corsari, chissà poi perché, forse per giustificare tanta leggerezza e (simpatica) ingenuità che ritrovo spesso in questo mio bislacco paese natio.

L’altro aspetto è invece più profondo, legato alle origini di Gamperl e alla sua poetica e alle sue idee.

Poetica.

Ernesto fa riferimento a una qualche filosofia arcaica bavarese legata al culto del materiale e in particolare del legno, che lui stesso si propone di portare avanti; un culto che risale (evidentemente) al tempo pagano del culto degli idoli. Fa inoltre riferimento a una teoria che vede al principio il centro della cultura e della civiltà nel nord Europa, e solo in seguito ai cambiamenti climatici si sarebbe trasferita in quella che noi conosciamo come Grecia. Una teoria non convenzionale, e che anche lui mi enuncia con aria divertita.

Esiste per lui un’attrazione dell’antica Europa settentrionale verso la natura, in particolare verso il legno, che Gamperl ritrova sotto archetipi in Giappone. Mi parla delle «stavkirke», particolari chiese dalla notevole verticalità costruite interamente in legno (quindi pali portanti inclusi), erette in epoca medio evale nella penisola scandinava; soprattutto mi fa notare la somiglianza con alcuni templi asiatici, e la funzione di “ponte” tra i due continenti della stavkirke; un po’ come a giustificare la connotazione dei suoi lavori, intrinsecamente e allo stesso tempo di stampo orientale e occidentale, contemporaneo e arcaico. Non nasconde un interesse verso il paganesimo, a quel fascino archetipico della natura.

È l’arte che si piega alla natura, la insegue, la innalza, mi dice tra le righe Ernesto. Ciò che cerca di trasmettere Gamperl è un senso di dispiegamento, di rilassamento, di pace e serenità interiore. Per questo assume valore anche il contesto in cui le sue opere sono poste, lo spazio in cui sono collocate. Innanzitutto la natura del materiale è la «guida», la strada è indicata da essa; il materiale (il legno, sempre sottinteso) è il «fil-rouge». Si deve instaurare con il legno un’empatia, «un dialogo»; il suo è un vero e proprio «sentire» nei suoi confronti. «Il mio maestro è la natura» dice Ernesto, «il legno mi dà continui stimoli». Certo poi però ci sono anche le idee dell’artista, e queste devono essere messe in pratica, ci sono delle regole da seguire, regole da artigiano che solo in bottega si imparano, con il tempo e con l’esperienza, e «con tanta voglia di fare»; è l’artista con il suo tocco “demiurgico”, il suo intuito, la sua sensibilità a fare la differenza, a creare e definire l’opera e far sì che essa sia tale. E questa è la differenza sostanziale tra lui e il design industriale.

Una cosa che non mi nasconde ma anzi mi butta chiara e tonda è il suo incessante (e estenuante) sforzo per arrivare alla semplicità, una semplicità «assoluta». «È difficilissimo», ammette, e il procedimento richiede «pazienza, meditazione, tempo, duro lavoro, errori». E mentre mi spiega questa sua fissazione mi torna in mente Bruno Munari, ma anche Carver: «…il manoscritto era lungo quasi il doppio, ma ho continuato a ridurlo nelle successive revisioni e poi a ridurlo ancora,…», «leva», taglia», «semplifica». La semplicità «unisce e armonizza» mi confessa l’Ernesto, e l’arte, nella sua semplicità, funziona come riparatrice dell’anima e dell’umanità (funzione a livello micro e livello macro).

Per sua stessa ammissione nel suo lavoro lascia «sempre mano alla natura e alla casualità», una casualità però che mi sembra ben meditata e curata. Sembra più riflessivo che spontaneo.

Tecnica.

Il tornio è l’elemento cardine del suo lavoro, il punto attorno a cui gira (è proprio il caso di dirlo) tutta la sua opera.

Il metodo di Ernesto Gamperl è frutto del lavoro di 30 anni di esperienza ed è in continua evoluzione: si aggiorna e si compendia giorno per giorno. È la sintesi del giorno precedente ed è in continuo aggiornamento. È unico, esclusivo e personale. Devo ammettere che non ha dimostrato né riluttanza né gelosia a spiegarmi nel dettaglio (e con passione, qua sì, molta passione) fasi di lavorazione e tecniche.

Mi fa vedere una macchina particolare, il cui assemblaggio definito è stato messo appunto dopo 15 anni di lavoro (divagazione ennesima, oltre il professor Cantarel (Jean Tinguely?) di Ruossel. Bioy Casares ne L’invenzione di Morel: «”…da allora ho lavorato in solitudine… mi sono messo a cercare onde e vibrazioni mai raggiunte, a ideare strumenti per captarle e trasmetterle… ho dovuto inoltre perfezionare i mezzi già esistenti…”» spiega il terrifico scienziato a compendio di una vita passata costruire la sua macchina), e che gli permette di arrivare a un risultato estetico unico e riconoscibile.

Il suo modo complicatissimo di procedere vede due momenti. Il primo è puramente mentale e riflessivo, in cui Gamperl sceglie il materiale a partire dalla natura e dalla forma del legno. «Leggere e capire il materiale prima di tutto», mi spiega passeggiando nella proprietà, enorme, dove lungo la strada che porta dalla casa (un ex fattoria ristrutturata in modo semplice e minimalista, tre materiali: legno, cemento, ferro; tre colori: bianco, grigio marrone), al laboratorio (una lunghissima stanza una volta stalla per vacche). Mi imbatto in un colossale albero, sezionato in più parti, che per la stazza è tenuto per forza di cose all’aperto, tra l’umidità, il freddo, e il fango (ricordo una frase di Carlo Cesare Malvasia, nome a me già noto da tempo per altri motivi, più edonistici, scritta forse nella vita di Reni, «l’oro si estrae dal fango», e quindi vedi De André). Mi dice che è un albero di 50 tonnellate abbattuto da un fulmine in Inghilterra, e che un suo amico ha avuto la premura di farglielo avere.

Solitamente l’albero (rovere il suo preferito, anche perché «è quello che conosco meglio, e ci vogliono anni per capire il materiale ed entrare in simbiosi con esso, creare un contatto», oppure acero o frassino in casi eccezionali) di norma deve sempre essere alla fine del suo percorso vitale, sempre cioè nelle condizioni di dover essere abbattuto per cause di forza maggiore, oppure come nel caso sopra alberi divelti da fulmini e quindi già abbattuti – questo per il «rispetto della natura» (e in quest’ottica Ernst Gamperl, grazie al suo lavoro, grazie alla sua arte, riesce e dare nuova vita alla natura stessa, sotto un’altra forma.

Il secondo è di sola pratica, e di divide a sua volta in 3 fasi: prima si ricava la forma esterna, poi succede lo svuotamento («…ora, quel Vuoto ha per noi tutti una funzione salutare, come una brezza per un asfittico. Perché una delle malattie più gravi di cui soffriamo è quella del Pieno…», così Roberto Calasso, John Cage o il piacere del vuoto, in La follia che viene dalle Ninfe, Adelphi 2005) dell’«oggetto» (questo il nome con cui Gamperl stesso definisce le sue opere, per lo più vasi e ciotole), tenendo sempre inumidito il legno su cui lavora, e per ultimo avviene la definizione (pulizia con fresa, spazzolatura, incisione della texture, colorazione tramite ossidi e minerali scelti, lunga asciugatura).

Il risultato sono oggetti con forme “de-formi”, uniche e irripetibili, che hanno una vita a sé stante. «Quanto ci metti per arrivare alla forma compiuta, all’ “oggetto” finito?», chiedo. «Io dico sempre 30 anni, come la mia esperienza», risponde allegro, aggiungendo pure una risata.

Dalla sua spiegazione è intuibile un grande lavoro di progettazione, il suo modo di procedere è l’esatto opposto di spontaneità, di istintività. Nei suoi lavori, già a partire dal pezzo grezzo, esiste un sistema di proporzioni che ha le basi nella sezione aurea e che deve essere rispettato; il tutto per arrivare a un’«armonia» complessiva dell’oggetto.

Gamperl ricava il pezzo grezzo dal tronco in vari modi, a seconda della materia prima con cui ha a che fare: grandezza del tronco, tipo di legno, configurazione dei cerchi concentrici (quei particolari anelli che interessano alla dendrocronologia, ovvero quel particolare sistema di datazione degli alberi, ma che nel nostro caso non contano, se non relativamente), venature, posizione dei nodi (ovvero quella parte del ramo che si raccorda col tronco). Me ne illustra 3 tipi, con semplici schemi (disegnini miei, i suoi sono stati fatti su assi che si trovava davanti al momento:

A) pezzo grezzo ricavato a lato del midollo; B) pezzo ricavato al centro del tronco e quindi comprendendo il midollo; C) CASO RARO E ECCEZIONALE (e quindi, mi fa notare, mi fa notare certo su mia insistenza, il maggior valore di mercato dell’oggetto quando sarà terminato), pezzo ricavato comprendendo il ramo (valore di mercato anche deciso dalla fragilità e delicatezza del pezzo, che incide sulla difficoltà della lavorazione).

Lo spessore è un altro importante fattore cui Ernesto tiene molto; su questo punto si è dilungato nelle spiegazioni tecniche. Lo spessore nelle sue opere può essere fine (la «tensione» è tutta nella forma – prendo in mano gli oggetti con spessore fine, e resto come d’incanto a maneggiarli, dotati come sono di una leggerezza quasi sublime; e qui, dopo Carver, Calvino: «…esiste una leggerezza della pensosità…la leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione…», e anche nell’arte “gamperliana” potrebbe esserci una «funzione esistenziale, la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere», contrapposta a quella «pesantezza, inerzia, opacità del mondo») oppure massiccio (in questo caso la «tensione» si distribuisce sulla superficie). Gamperl odia lo squilibrio nel suo lavoro, e nella vita in generale («si generano altrimenti una sorta di tensioni asimmetriche»). Lo spessore del pezzo finito deve essere uniforme e uguale ovunque: per il controllo della misura utilizza sofisticati attrezzi di precisione che vengono dalla liuteria.

Particolarità. Capita talvolta di trovarsi di fronte a delle opere con dei raccordi, specie di cuciture, volutamente non nascoste, ma quasi ostentate. Le chiama «butterfly», o «coda di rondine»: servono  a tenere insieme le crepe, createsi in zone di maggior «movimento», «tensione», e servono proprio per esaltare queste «zone di energia». «Sono crepe naturali che si trovano sempre nel legno», mi spiega dopo che gli ho fatto notare il mio scetticismo (non è che sia una giustificazione mi sono chiesto a voce alta); ma poco o nulla nell’arte è casuale, che non sia derivato da una scelta, e men che meno in Ernst Gamperl: «le code di rondine mi permettono anche di esprimere in un unico oggetto tutta la dimensione del tronco, sotto altre vesti. Le lascio in bella vista come i nodi dei rami, o le zone mangiate (me le indica), dei buchi che si creano naturalmente». 

Un altro caso ancora più raro (e di una bellezza disarmante) è degli oggetti ricavati da legno di acero frisé, dove la fibra non è diritta ma in leggero movimento, un’ondulazione proprio come l’effetto dei capelli dopo il trattamento. L’impressione è quella di trovarsi davanti a una superficie di alabastro con impresso a mo’ di filigrana la chioma sciolta a onduline di alcune Madonne di Botticelli o di Dürer. Naturalmente qua il valore di mercato è decisamente sopra la media delle altre opere.

Si sofferma molto anche sulla «texture», anch’essa “ingrediente” fondamentale per la definizione dei suoi oggetti. Grazie a piccole incisioni sulla superficie, fatte da particolari e sottili scalpelli sull’oggetto in rotazione (il tornio è sempre basilare), crea dei “motivi”, cioè delle fessure lineari, regolari, che possono essere più o meno profonde, e che andranno a creare un gioco luce/ombra sulla superficie stessa, diverso per ogni oggetto. Alla texture si sovrappone una spazzolatura quasi sempre obliqua, che da una parte gli permette di avere colorazioni sempre diverse e dall’altra per evidenziare la «venatura naturale del legno».

L’esterno è quindi nella maggior parte dei casi ruvido («mak»); l’interno è liscio. Si crea un rapporto interno/esterno, dove le «labbra» rappresentano una soglia, una zona di confine.

Per tirare le somme del suo lavoro si paragona a un «casaro con il suo formaggio» («…tutto era un caos… et quel volume andando così fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte…» dice Menocchio circa seconda metà del Cinquecento, riporta Ginzburg 1976, e da settembre riedito da Adelphi) nel partire dalla materia prima, lavorarla, evolverla, affinarla, e soprattutto nell’asciugatura, dove assume un ulteriore deformazione naturale.

Idee.

Durante la serata, passata prima a tavola e poi nello studio all’interno del laboratorio, abbiamo avuto modo di scambiare qualche chiacchiera off topic. Oltre all’inevitabile “aggiornamento” sulla stato delle famiglie e delle novità del suo ex comune, sono uscite cose anche interessanti.

Mi parla con disimpegno del suo interesse recente verso le origini del cristianesimo, e in generale alle radici delle religioni, per trovare quella Verità, assoluta e unica che le accomuna. Non c’è interesse diretto invece verso una filosofia, specialmente quella zen, anche se nel corso degli anni ha trovato passi o idee in cui riconoscersi; ma non è mai partito da esse.

La sua arte sempre legata all’artigianato; sempre legato al “fare” (a questo proposito mi torna utile il saggio – o almeno, alcuni spunti del saggio – del mio ex professore Roberto Pasini, Fare e Non Fare. Arte, cultura, società, Mursia 2014); vicino all’artigianato artistico, all’arts&crafts, dai vari William Morris in poi, ma soprattutto quelli del versante orientale, come spiegherò meglio più sotto. Non solo le idee, i concetti, ma anche alla loro realizzazione con tutto ciò che ne concerne: lavoro fisico, fatica, pratica (molta pratica).

Si dichiara «antiaccademico», non sopporta le teorie fatte a posteriori e le materie troppo speculative (tipo psicoanalisi): disfano, distruggono, non aiutano a progredire, ma anzi fanno andare indietro, regredire le persone (parafrasi mia).

Odia la Abramovich e in generale tutta la body art, non sopporta nemmeno tutta quell’arte che pone  il concetto, l’idea , il pensiero al di sopra del risultato estetico, come per esempio l’arte concettuale; odia la Abramovich –  ci tiene non so perché a rimarcare. «Cosa ne pensi di Piero Manzoni?» chiedo io; «bah, lo conosco perché è famoso, perché è sui libri; ma non mi interessa», risponde lui evasivo e con tono asettico. Mi viene allora in mente Yves Klein, il suo «Vuoto» e la vicinanza alla filosofia zen; ma non si scompone, «conosco, ma non mi interessa», mi ripete. La butto allora sulla provocazione: «cosa dici di Günter Brus, Hermann Nitsch e in generale dell’Azionismo? (pausa) E della Orlan?». Non ho capito se era più schifato o stizzito, e comunque non ha risposto, si è girato dalla parte della libreria, indicandomi i suoi “lumi”, quasi con un fare catechistico, come un prete che perdona con un sorriso il peccato del ragazzino, offrendogli la via buona da seguire.           
Ammette però che è fortemente ammiratore di Giorgio Morandi, e in particolare del vuoto delle sue atmosfere; ammira in lui e lo ritrova in sé stesso la continua ricerca a un Bello armonico, all’unione, a una serenità interiore.

Bio (o stralci di bio).

L’Ernesto è restìo a parlare della sua biografia, e quindi per me è stato difficile ricavare notizie, le quali ho dovuto “estorcere” con domandine mirate in tempi diversi, e ricomposte in un secondo momento. Appassionato di moto-trial, da giovane gira l’Europa per tornei, e grazie a questa passione conosce prima Arco, poi Cavedine e infine Tremosine, dove a 28 anni installa il laboratorio. Frequenta la scuola di falegnameria prima, successivamente fa 3 anni di apprendistato ad Hannover ottenendo in conclusione il titolo di “master” del legno; diventa poi tornitore, e infine apre un proprio studio di oggettistica d’arte a Steingaden, proprio in una casa vicino a dove abita ora; da subito si dedica a ciotole e vasi. L’origine quindi dell’artista non ha niente di trascendentale, se non la comunanza con Nostro Signore a essere partito come falegname e carpentiere. Mi racconta, in un improvviso e brevissimo slancio di passione verso il passato (uno dei pochi verificatosi durante il mio soggiorno), di aver ricevuto «la vocazione» (proprio queste le sue parole) dopo aver consultato per caso un libro sulla tornitura di un suo amico.

***

Nomi e personaggi (vicini o correlati).

ASUKA KATAGIRI, pittore, e in particolare la serie Light Navigation (link esempio: http://www.kanakawanishi.com/asuka-katagiri-works); dove confluiscono il tema del cerchio, dell’attesa, del perfetto e insieme dell’indefinito, come una natura ancipite in eterna sospensione.

TERUNOBU FUJIMORI, architetto stravagante, professore a Tokio di storia dell’architettura (paradosso: dichiara che nei suoi progetti c’è una volontà di distaccarsi totalmente da ogni precedente architettonico, ogni idea passata, non avere nessuna relazione con la storia); suo concetto principale è creare a partire dal materiale (qua il punto di incontro). Altra idea, che piace e condivide Gamperl è che spazio e natura sono da considerarsi come una sola cosa indivisibile.
Fujimori utilizza il legno e i tronchi in particolare come portanti. Fattore che lo unisce alle stavkirke scandinave.

Ernst Gamperl si dichiara vicinissimo per idee agli esponenti delle avanguardia del design del Giappone post bellico; ammirazione per loro, che «si sono imposti contro la tradizione» (Gamperl si dimostra tutt’altro che “tradizionalista”):

IKKO TANAKA, graphic designer;

ISSEY MIYAKE, stilista (ottimi come sempre i profumi appena usciti: «…già dal primo incontro con le note di testa, la rosa si fonde con il tocco goloso di pera e lamponi, il cuore esplode con la potenza delle due regine…» scrive qualcuno a proposito del Rose&Rose su «Io Donna» del 2 novembre; «…La virilità si può esprimere in tanti modi. Certo è che la potenza, la forza e la malleabilità del legno la rappresentano in maniera evidente…» scrive sempre qualcuno, questa volta però sul Wood&Wood, «Io Donna», 19 ottobre, quasi come anticipazione e prolessi del mio viaggio a Steingaden).   
Curiosità n° 1: Ernesto è amico del figlio;     
Curiosità n° 2: nel 2000 c’è stata la sua prima personale Volumes in Wood al Design Studio Gallery di Miyake a Tokyo e alcuni oggetti di Gamperl appartengono alla sua collezione privata;
Curiosità n° 3: la consistenza di alcuni tessuti di Miyake è molto affine alle superfici degli oggetti di Gamperl («…Uno dei punti di partenza per questi particolari capi è la consistenza dei tessuti, in particolar modo quelli pieni di pieghe e stropicciati. Identificativa del brand è la tecnica del plissé, formata da tante piccole pieghe ravvicinate che danno vita ad un outfit che ricrea l’effetto fisarmonica…», vedi foto esempio https://www.fortementein.com/2019/09/30/la-storia-di-issey-miyake-e-la-sua-collezione-pleats-please/);

TADAO ANDO, architetto, legato a lui in particolare per il concetto dello spazio e ai suoi rapporti, esaltando il vuoto (il Vuoto, vedi sopra);

ISAMU NOGUCHI, scultore, ha studiato a Parigi con Brancusi;

LUCIE RIE, ceramista austriaca (viennese) naturalizzata britannica, perseguitata dai nazisti e quindi fuggita dal suo paese natio. Le forme e le sue superfici delle sue opere entrano in pieno dialogo con quelle di Gamperl; esiste una affinità notevole (Gamperl però non mi parla di ispirazione diretta, o comunque non mi fa capire in nessun modo che abbia preso le sue opere come modello);

C’è poi un italiano, MICHELE DE LUCCHI, con il quale ha collaborato per un progetto, e che Gamperl ammira per il suo legame con «il Fare», per la praticità, per la capacità di materializzare l’idea.

Altra bibliografia.

La bibliografia è ricavata da più spunti: letture di Gamperl, e soprattutto mie conoscenze.

. Tanizaki, Libro d’ombra; scrittore «decadentista» (letto in qualche prefazione di un suo libro che non ricordo) orientale che guarda a occidente. Lo scritto è un saggio tra il sociale e l’estetico e Gamperl dice di trovarsi molto con svariate osservazioni che fa Tanizaki.

. Leonard Koren (consigliato nella email del 5 ottobre), Wabi-sabi per artisti, designer, poeti e filosofi e Wabi-sabi. Altri pensieri; altra lettura cara a Gamperl. Ci tiene però a rimarcare (me lo ha ripetuto più e più volte durante il soggiorno) che i libri e le teorie danno «una costruzione intellettuale a ciò che già faceva da anni»; i libri o le correnti inscatolate «non mi hanno influenzato (utilizza questo terminare, e temo con un’accezione medico-sanitaria) ma mi ha dato, o provato a darmi, un’etichetta, una classificazione»;

. Lafcadio Hearn, Giappone e Ombre giapponesi (quest’ultimo edito da poco da Adelphi con copertina molto suggestiva). Giornalista cosmopolita, nato in Grecia, vissuto nel mondo, naturalizzato giapponese; la sua visione è di un occidentale verso oriente (al contrario di Tanizaki, o Murakami: «sorseggiando champagne ghiacciato continuammo… lei ordinò un daiquiri gelato, io un whisky con ghiaccio…», cito da un racconto a caso, L’elefante scomparso; di sake poche tracce, per fortuna. Del resto Murakami pare sia uno che sa vivere bene e quindi un tipo a cui piace il vino; nonostante la tendenza luciferina di adorare i gatti, dichiara al «Sette» del «Corriere della Sera», 27 settembre: «…mi divertivo a guidare fino in Toscana per andare a comprare il vino»);

. trovo interessante a proposito anche la mostra che si sta svolgendo al Mudec di Milano, Impressioni d’oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone, che pone al centro della questione l’influsso giapponese nell’arte europea di fine secolo (il «giapponismo»). «La mostra ripercorre la profonda fascinazione che il Giappone ha esercitato sulla cultura occidentale e approfondisce le dinamiche dei complessi scambi artistici che si susseguirono tra il 1860 e il 1900. L’analisi storico-artistica riserva una particolare attenzione al contesto di relazioni commerciali, avventure imprenditoriali e in generale grande curiosità che hanno caratterizzato un’epoca intera…»; bah, o forse anche no, vediamo;

. Tomas Navarro (sempre consigliato nella email come sopra), Wabi Sabi. Scoprire nell’imperfezione la bellezza delle cose, Giunti, 2019;

. Yanagi Soetsu (o anche Yanagi Muneyoshi), e quindi il figlio Sori Yanagi, e il figlio del figlio Shinichi Yanagi, entrambi design di rilievo a livello internazionale. Soetsu è stato un critico d’arte giapponese, che dopo un viaggio in Corea teorizza e fonda in Giappone il movimento Mingei, un movimento orientale corrispondente all’arts&crafts di Morris&Co (anni ‘20 del Novecento). La curiosità verso l’artigianato coreano lo spingerà a aprire inoltre il museo dell’artigiano popolare in Corea nel 1924. I suoi scritti sono un cardine per Gamperl: in questi si evidenzia la dicotomia Giappone/ Corea, e quindi Wabi-sabi/Mak

. Byoung Soo Cho, Imperfection and emptiness. The informal spontaneity of mak and poignant vacancy of bium permeate both aesthetics and way of life in Korea, articolo uscito per la rivista coreana nel febbraio 2018 «The Architectural Review», in cui l’architetto coreano pubblica la sua teoria-manifesto sull’estetica mak. Cos’è questa «mak», a cui Gamperl fa continui riferimenti. In poche parole è un’idea, una filosofia, un’estetica, legata al concetto di torbido, imperfetto, casuale, spontaneo. È in contrasto con il wabi-sabi, legato alla perfezione mistica, alla purezza, alla pulizia, alla nitidezza.

Conclusioni.

È stato un viaggio interdisciplinare tra filosofia, arte, design, architettura, moda, civiltà, società. Mi son fatto l’idea che l’arte di Ernst Gamperl sia come un nodo che intercetta più discipline, e che vive in virtù di esse (una sua opera sopra un bancone di un’osteria effettivamente la si potrebbe scambiare per un posacenere dei tempi che furono –  Legge 3/2003 «Tutela della salute dei non fumatori»): dall’architettura al design all’arte applicata, e persino alla moda; dalla filosofia alla falegnameria. Ernst Gamperl è insieme occidentale e orientale, arcaico e contemporaneo, semplice e complesso, meditativo e laborioso, naturale e artificioso. In lui torna la forza del passato, il gusto del futuro.

E, perduto nelle mie contemplazioni, ricercavo le origini di questo grande artista, del pagano mistico, capace di astrarsi dal mondo tanto da veder risplendere le apoteosi di altre epoche.
Difficile, per me, stabilirne la derivazione; qua e là vaghe reminiscenze di popoli ancestrali; qua e là echi confusi di design contemporaneo; febbri cromatiche e formali della natura sempiterna; ma l’influenza di questi maestri rimaneva, tutto considerato, impercettibile: la verità era che Ernst Gamperl non deriva da nessuno. Senza veri predecessori, senza possibili successori, resta unico nel panorama dell’arte contemporanea.

(Parole non del tutto mie quest’ultime, ammetto, ma fanno comunque un bell’effetto).

Damiano Perini, novembre 2019