UMORISMO, O DEL SAPER VIVERE. Su “Ritratto del barone d’Handrax” di Bernard Quiriny

Ho aperto un libro, ho cominciato a leggerlo e, se non per bere o mangiucchiare qualcosa, non ho più smesso. Verso la metà del racconto ho rallentato, volevo godere piano piano, aumentare il piacere della lettura calcando e rimeditando ogni capitolo, ogni frase; insomma, mi prendevo del tempo. Arrivato alla fine ho chiuso il libro, e – così almeno mi pare – ho esclamato: cazzo, che bomba.

Della piccola casa editrice L’Orma (Roma) conoscevo poco. Ricordi di letture passate, un romanzo dal linguaggio puntuale, incisivo, sincopato, dotato di un minimalismo forsennato, morboso; e caratterizzato da una trama tagliente (per i carveriani: J. Hermann, L’amore all’inizio). Della collana Kreuzville, invece, proprio non ne sapevo.

Poi per caso in libreria noto una copertina color pastello, che risalta in negativo in mezzo a tutte le altre sgargianti, e aprendolo scorgo frasi scritte con uno stile senza tempo ma lampante, un linguaggio indefinibile eppure accattivante; ci leggo qua e là frasi come “conversazioni sconclusionate”, “il barone non scherzava con gli scherzi”, “‘mi perdo continuamente; prendo puntualmente la direzione sbagliata’”, insomma, tutto mi dice di un libro assurdo, ben pensato, esattamente scritto.

Infatti, Ritratto del barone d’Handrax di Bernard Quiriny , il libro – quel libro –  che mi ha tenuto incollato sul divano – facendomi guadagnare una giornata che altrimenti sarebbe passata all’insegna del solito terribile fare – è un racconto verosimile quanto incredibile, e anche per questo affascinantissimo.

Il barone d’Handrax.

Tutto, come già avverte il titolo, ruota attorno alla figura del barone d’Handrax. L’espediente usato dall’autore, e il fattore che rende il racconto così immediato e efficace, è la trascrizione in prima persona delle conversazioni avvenute tra il barone e il protagonista. Si ha così la sensazione che il barone parli con e a noi, testimoni diretti delle sue meravigliose stravaganze.

Luoghi e tempi sono imprecisati, può essere quel “2020” menzionato, ma se risalisse i a mille anni indietro non cambierebbe di molto. E tutto, o quasi, si svolge in un paesino di campagna della Francia settentrionale, “silenzioso”, di poche migliaia di anime, “un campanile”, e “vecchie strade lastricate di basalto”. Il protagonista ci porta subito in abitazioni antiche che “sapevano di encausto, di muffa e di passato”; abitazioni ataviche e inviolate anche dopo la morte dei loro proprietari, che il barone si premurava di collezionare al solo scopo di vivere, o sentire di vivere in un passato tangibile.

Ma chi è il barone? È una figura in fieri, che si definisce via via che si legge il racconto. A tratti è un lirico, a tratti sembra un dadaista; è colto e intelligente, a volte un fesso derubato ai mercatini delle pulci. In poco tempo diventa bambino, eppure è bigamo e padre autoritario e competente di due famiglie. “Incuteva un certo timore”, ci avverte il narratore, “probabilmente tra i cinquanta e i sessant’anni, ben vestito, un po’ paffuto, stile gentleman farmer, con una folta barba brizzolata. I capelli, arruffati, non vedevano un pettine da chissà quanto tempo. Camminava con un bastone da passeggio, un bel bastone in legno nero con il pomo d’argento. Era imponente; a guardarlo mentre stava in piedi ricordava vagamente un orco.”

Eppure, da subito, risulta simpaticissimo. È un personaggio dal grande umore che mette umore, ama la vita e ama vivere, entusiasta sempre e sempre positivo (anche nella malattia). È una figura ossimorica, stravagante, sempre spiazzante, mai banale, ricolma di vezzi e manie; “in fondo”, per usare le parole dell’autore, “era un po’ tutto”. Sembra che le giornate del barone durino 48 ore, tante le cose che fa e che sa.

Così scopriamo che nel suo appartamento esiste una stanza sensoriale, buia, dedicata al tatto, dove dopo aver toccato i materiali più diversi si viene a contatto con due seni di donna; ama il Porto e il Madeira e in generale i vini dolci, ma anche e soprattutto il Calvados. È liberale e conservatore allo stesso tempo (“in ogni dottrina c’era qualcosa di vero, e che era impossibile scegliere tra l’una e l’altra”), nutrendo allo stesso tempo un morbosa “passione per l’infanzia”: “non bisogna mai farsi sfuggire l’occasione di tornare bambini”, confessa. E così, unendo le doti fanciullesche alla burla e all’assurdo, organizza cene dedicate con i sosia di personaggi famosi, anche del passato (squisito il battibecco con l’odiato Sartre), si fa leggere i libri da ragazze giovanissime, organizza partite con i “sniffatori di morte” nei cimiteri e nelle città vicine.

È al contempo lirico e poetico, amante del paesaggio e della bellezza incontaminata (odia le brutture contemporanee). Pater plebis, urbis amator, il barone è altresì benvoluto da tutti; aiuta i cittadini in difficoltà con donazioni, e in città svolge pure la funzione di giudice di pace. Insomma, il barone d’Handrax è un eccentrico sì, ma che conserva una grande forza spirituale.

È intelligente e persona di grande cultura. Come tutte le menti calde e infervorate ha mille “idee di libri”, ma di libri non ne ha mai scritti; o meglio, conclusi (di lui si ha tutta una raccolta di incipit, i più vari e più difformi). Ha provato a tradurre libri, interrompendosi, e non certo perché non aveva le capacità, insinuando una certa abnegazione nel non fare (“sono un Bartleby non praticante”). Nelle sue ricercate stravaganze il protagonista mi ricorda un po’ Martial Canterel, il geniale scienziato di Locus Solus di Raymond Roussel, nei comportamenti buffi un po’ Gargantuà, nelle esagerazioni Arthur Cravan, nelle azioni dotte è il Lorenzo il Magnifico dei Canti carnascialeschi.

Ancora: è meteoropatico (“era allegro quando pioveva, cupo quando il sole brillava. ‘Non ho mai capito perché si dovrebbe essere felici nelle belle giornate’”), filosofo (“’non fare niente tutto il giorno è più difficile di quanto sembri; richiede un sacco di energia’”), poliglotta (“prediligeva quelle parlate da popolazioni minuscole, che non gli sarebbero mai servite a niente; oltre, com’è ovvio, alle lingue morte”): chiede sale e offre vino in latino ai commensali come ai figli, e spassoso è il racconto dell’apprendimento della lingua Â, “una lingua molto rara, parlata da poche tribù della Mongolia, la cui peculiarità è quella di avere un unico suono: â”, il cui risultato è una specie di variazioni da soprano storpiate all’inverosimile.

E non posso citare tutto quello che vorrei, altrimenti dovrei riportare tutto il libro. Segnalo però qualche episodio di una comicità travolgente, in cui è impossibile non farsi sfuggire un risolino. Nel capitoletto intitolato Il giorno M il barone cerca di spiegare come nella storia un giorno non è esistito (“«deve sapere che non c’è stato alcun 23 marzo 1928». «Come, prego?» «Glielo racconterei, però ho paura di esser preso per matto.» «Ma si figuri.» (Una formalità oratoria del tutto inutile, che aveva un valore puramente rituale, vista la quantità di stravaganze ch’era solito raccontarmi)”.

E divertentissimo è il racconto dell’avo del barone, il quale, mosso da chissà che passione decide di diventare anarchico. Attanagliato da rimorsi di coscienza, per i suoi nuovi amici e per la causa decide di impoverirsi, sperperando tutto. Ma, come nel caso del fortunato Kurt O’Reilly (F. Bacà, Benevolenza coscmica), l’effetto è il contrario: si arricchisce sempre più, arrivando a ottenere un patrimonio inestimabile.

Si imbroglia – per tornare al barone – in teorie talmente astruse che le risposte più scontate lo sgomentano. In lui il mondo è capovolto: non è la figlia in viaggio a scrivere le cartoline; è lui da casa che le spedisce puntualmente a ogni stazione. E nemmeno a dirlo, stravolte sono anche queste: “Sono andato dal dottore perché mi sentivo troppo in forma. Ma fortunatamente non mi ha trovato in buono stato, e mi ha prescritto dei rinvigorenti. Uscito dallo studio ho avvertito una fitta al ventre e crampi sparsi; tutto rientrato nella norma, insomma”.

E questa mordacità non la perderà nemmeno dopo la morte. A seguito del suo funerale, per giorni e giorni, una serie di telegrammi giungono alla baronessa, con la grafia precisa e l’indirizzo dei luoghi di sepoltura dei mittenti famosi che imitava. Tutti, si capisce, di suo pugno. Ma come detto, “il barone non scherzava con gli scherzi”.

Vivere con umore.

In questo racconto la quotidianità diventa straordinaria, l’atmosfera è sempre distesa, e ciò favorisce una lettura piacevole, molto piacevole perché tutto è felice. All’insegna della bislacca vita e delle bizzarre manie del barone (che va da sé: niente di volgare, estremo, becero) si può trarne una lezione: vivere con umore, per vivere meglio. Ho accennato a tanti episodi, colpi di scena, storielle, ma non temo l’invettiva per spoiler; è un libro che si legge e rilegge senza che la sorpresa – e la risata – vengano meno. Questa, signore e signori, è letteratura.

E adesso fateci un film. Regia? Wes Anderson, ovvio.

Damiano Perini

Wes Anderson

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